domenica 21 marzo 2021

Ma chi era Melqart?

 


Molte civiltà mediterranee assegnano un posto di primaria importanza all'ulivo, che diventa cosi' simbolo anche di varie divinità, tra le quali Atena è forse l'esempio più noto.


Ma la prima divinità a cui è stato associato l'olio era il fenicio Melqart. I Fenici, come li chiamava Omero, o Cananei, come li identificava la Bibbia, furono tra i primi a conferire sacralità al prezioso unguento, utilizzato nei sacrifici a vari dèi, come appunto Melqart. Nel tempio di questa divinità a Tiro, infatti, campeggia un ulivo dalle fronde lussureggianti, che in altri templi dedicati a Melquart diventa un'ulivo di smeraldi.

Ma chi era Melqart? Si tratta senza dubbio di una divinità misteriosa, la cui natura originaria è praticamente sconosciuta. All'inizio probabilmente questo dio possedeva attributi solari e anche marini, e si configurò come protettore dei naviganti.
R. Dussaud ipotizza che Melqart fosse il frutto della fusione tra il dio marino Yam e Baal, la divinità più importante delle popolazioni cananee. Tuttavia tale affermazione è priva di fondamento, visto che nei testi poetici di Ugarit le due divinità appaiono in contrapposizione l'una con l'altra. Un'altra scuola di pensiero, capitanata da W. F. Albright, identifica Melqart con una divinità del mondo sotterraneo, Malku, il quale si accompagnava a Nergal, un altro dio mesopotamico (precisamente sumero) dell'oltretomba. Ma anche in questo caso si tratta di mere supposizioni che mancano di prove convincenti.
Quel che è certo è che Melqart era il dio poliade di Tiro, una delle città più importanti della Fenicia, e da lì il suo culto si diffuse in altre città puniche, come Cartagine e Gades (o Tartesso), l'antica Cadice. Il nome originario fenicio Milk-Qart significa infatti "re della città" e connette strettamente questa divinità all'istituzione della monarchia, che a Tiro assunse un'importanza peculiare rispetto ad altre città fenicie. Basti pensare che a Tiro si credeva che i bambini sacrificati (tra i Fenici vi era l'usanza di sacrificare infanti, definita moloch) assurgessero, dopo la morte, a una condizione divina e assumessero il titolo di "re".
Questa divinità assunse un'importanza sempre maggiore, tanto che il Gran Sacerdote di Melqart, a Tiro, era secondo solo al re. Divenne d'uso pronunciare il nome di Melqart durante la stipulazione dei contratti, il che rese il dio il nume tutelare dei mercanti i quali, per un popolo di naviganti e commercianti come i Fenici, rappresentavano la classe sociale principale. Per questo, si cominciò a costruire un tempio dedicato a Melqart in ogni colonia fenicia; uno dei più importanti si trova a Cadice, centro fondamentale del culto di Melqart. Perfino in alcuni nomi punici, come Amilcare e Bomilcare, si può notare la forte presenza di questa divinità tra il popolo fenicio.

Sembra che anche il grande condottiero cartaginese Annibale Barca, figlio di Amilcare Barca, fosse molto devoto a Melqart. Lo storico Livio ci narra la leggenda che vuole che prima di compiere la marcia verso l'Italia, Annibale si fosse recato in pellegrinaggio a Gades (l'attuale Cadice) e avesse offerto un sacrificio a Melqart. La notte prima della partenza, al condottiero apparve in sogno un bellissimo giovane, inviato da Melqart per mostrargli la via per l'Italia. Il giovane raccomandò ad Annibale di non voltarsi indietro durante il percorso, ma il Barcide non resistette e vide dietro di sé un enorme serpente che distruggeva ogni cosa che incontrasse sul suo cammino. Quando Annibale chiese al suo accompagnatore il significato di quella visione, Melqart stesso gli disse che ciò che aveva visto era la desolazione della terra d'Italia. Quindi, il dio intimò al condottiero di seguire la sua stella e di non indagare oltre riguardo ai disegni oscuri del cielo.
In seguito, in epoca ellenistica e romana, a causa dei suoi attributi solari, Melqart venne identificato con Eracle di Tiro (l'Ercole romano) e anche con Crono (Saturno per i Romani). Questo perché nelle relazioni dei loro viaggi, i geografi e gl storici antichi tendevano a riprodurre e a riportare entro i connotati della propria cultura di appartenenza le divinità e le usanze dei popoli stranieri. Ciò accadde anche a Melqart, che venne identificato totalmente con l'eroe che compì le dodici fatiche. Anche il tempio di Gades venne annotato da Strabone come "il più occidentale tempio dell'Eracle di Tiro" e le sue colonne erano ritenute (erroneamente, secondo lo storico greco) le autentiche colonne d'Ercole, che l'eroe aveva eretto come estremo confine occidentale del mondo.

martedì 9 marzo 2021

I semi di cacao

 


Nel disegno una donna Azteca prepara la bevanda di cacao. Il liquido viene versato da una certa altezza per creare la schiuma.

‘Cioccolato’ deriva dalla parola xocolatl , che significa ‘acqua amara’ in Azteco. Anche se il cioccolato ha le sue origini nella lingua azteca (formalmente conosciuto come nahuatl), è stato suggerito che gli Aztechi potrebbero aver ereditato la ricetta da civiltà mesoamericane precedenti, come i Maya o gli Olmechi.
I semi di cacao venivano vinificati, arrostiti, e si ricavava una pasta. La pasta di cacao che veniva miscelata con acqua o vino, granoturco macinato e una varietà di aromi. Questi aromi comprendevano peperoncino, vaniglia, spezie e miele. La miscela poi si passava attraverso un processo chiamato "schiumare", in cui viene versata una tazza in una pentola girando avanti e indietro fino a formare una schiuma profonda sulla parte superiore.
L’ ‘acqua amara’ veniva consumata da nobili e guerrieri, in un rituale solenne. Si credeva che la pianta fosse un dono degli dei, e veniva associata dagli Aztechi a Quetzalcoatl.

la Batteria di Baghdad


 I libri di scuola ci hanno insegnato che, alla sua origine, l’umanità viveva nell’arretratezza tecnologica. Tuttavia, recenti scoperte e studi stanno dimostrando che diversi reperti affermano esattamente il contrario. Tra i più sbalorditivi certamente bisogna annoverare la straordinaria Batteria di Baghdad.

La Batteria di Baghdad è un manufatto risalente alla dinastia dei Parti (250 a.C.–226 d.C.) in Persia, scoperto nel 1936 vicino al villaggio di Khujut Rabu, nei pressi di Baghdad, Iraq.
L’oggetto divenne noto all’opinione pubblica solo nel 1938, quando il tedesco Wilhelm König, direttore del Museo nazionale dell’Iraq, lo trovò nella collezione dell’ente da lui diretto.
Si tratta di un vaso di terracotta nel quale è inserito un cilindro di rame. Sospeso al centro del cilindro risiedeva una barra di ferro, posizionata in modo da non entrare in contatto con l’altro metallo. Sia il cilindro che la barra erano tenuti in posizione con un tappo di catrame.
Rame e ferro costituiscono una coppia elettrochimica, la quale in presenza di un elettrolita, una soluzione acida o basica, genera una differenza di potenziale, in parole povere: corrente elettrica.

Alcuni ricercatori ritengono che la presenza del sigillante in catrame dimostri che il vaso era pensato per contenere un liquido caustico. Nei tempi antichi, la maggior parte dei liquidi aveva proprietà acide, quindi si pensa che nella batteria venisse utilizzato aceto o vino.
Gli studiosi contemporanei ritengono impossibile che gli antichi utilizzassero l’elettricità per alimentare lampadine ad incandescenza, perciò, quando guardano al manufatto, l’unica ipotesi ritenuta plausibile è che gli antichi lo utilizzassero per placcare elettricamente i gioielli in metallo.
Tuttavia, in un articolo comparso sul Journal of Near Eastern Studies, Paul T. Keyser propone un’ipotesi alternativa: dato che in antichità la corrente prodotta dalle anguille veniva utilizzata per lenire il dolore o anestetizzare una zona del corpo per le cure mediche, si può ipotizzare che la Batteria di Baghdad venisse utilizzato come dispositivo sanitario?
Come riporta Karla Akins su Ancient Origins, alla luce si alcuni aghi di bronzo e ferro rinvenuti a Seleucia insieme alle batterie, Keyser ritiene che il dispositivo potrebbe essere stato utilizzato per sedute di agopuntura, una pratica molto comune nella Cina di quel periodo.
Dal momento che pesci capaci di emettere corrente elettrica non si trovavano nel Golfo Persico o nei fiumi della Mesopotamia, forse gli antichi, consapevoli dei benefici, hanno inventato la batteria in sostituzione di questi.
È noto che diverse culture utilizzavano l’elettricità per scopi medici. I Greci e i Romani, per esempio, usavano i pesci elettrici per curari il mal di testa e la gotta.
Naturalmente, questa nuova ipotesi non ha trovato molta popolarità tra gli studiosi convenzionali, dato che entra in conflitto con la loro teoria evolutiva del genere umano, la quale pretende di incasellare l’Homo Sapiens in un cammino forzato a tappe, nel quale intelligenza, pensiero creativo e inventiva è appannaggio solo degli esseri umani moderni.
Se prendiamo per buona la teoria convenzionale, allora la Batteria di Baghdad, automaticamente, rientra nel file degli Ooparts, cioè di quei manufatti che non dovrebbero esistere data l’arretratezza culturale dei nostri antenati.
Se, invece, diamo spazio all’idea che nel passato dell’umanità c’era spazio anche alla creatività e all’intelligenza, allora possiamo forse renderci conto che i nostri antenati erano meno stupidi di quanto vogliamo credere