lunedì 30 marzo 2020

La Banshee






Il grido della Banshee annuncia l’aprirsi della porta
tra il mondo della vita e quello della morte.
Con l’aspetto di una donna spettrale e talvolta bellissima, la Banshee è una messaggera che viaggia dall’Altro Regno a questo mondo nel momento della morte.
Viene di notte e la si può sentire mentre urla e singhiozza vicino a una casa, alla finestra di una camera da letto o negli ospedali quando la morte si avvicina.
D’un’attenzione particolare per le famiglie con una “O” o un “Mac” nel cognome, le Banshee donano una strana aria di aristocrazia ad alcuni clan irlandesi.


Nel folklore celtico la Banshee era l’essere che seguiva i cortei funebri, e la leggenda racconta che queste entità indicassero la futura morte di uno dei partecipanti al corteo funebre. Secondo questa tradizione, più il numero delle banshee era maggiore, e più il defunto era particolarmente importante o perfino “santo”. Pare che questi esseri fossero anche scortati da una carrozza nera trainata da cavalli anch’essi neri, ma senza testa. Si narra inoltre che le Banshee si aggirino durante la notte nei pressi delle abitazioni dov’è presente un moribondo, e che strizzino i sudari di colui che è destinato a morire. La si può sentire o anche vedere nelle vicinanze di una casa mentre piange e singhiozza solitaria, spesso “per tutta la notte e per le tre notti successive”.
Sebbene le Banshee siano descritte belle da qualcuno ed orribili da altri, tutti convengono che ci sia qualcosa di terrificante nel guardarle. Essa può apparire come una splendida ragazza, come una donna matura o come una vecchina minuta (cioè nei tre aspetti della Dea), e può essere vestita di bianco o di rosso, con lunghissimi e bellissimi capelli (bianchi, castani, rossi o dorati) che ama pettinare con un pettine d’oro o d’argento.

La Banshee è una creatura leggendaria dei miti irlandesi. Fa parte del Piccolo Popolo, ed è uno spirito che spesso viene classificato tra quelli maligni, anche se in alcune leggende viene descritto semplicemente come uno spirito femminile che si aggira attorno a paludi e fiumi, nelle sorgenti o sulle colline d’Irlanda.

Il termine banshee deriva infatti da Bean, ovvero Beansì(d) che significherebbe “donna delle colline”, “donna del Sidhe” oppure “donna del colle delle fate”. In alcune zone d’Irlanda viene chiamata “ban caointe” (la piangente), oppure “badhbh caointe” (Badb che piange), in chiaro collegamento con la Dea Corvo Badb. Si dice che quando muore un membro di una qualche famiglia importante, la Banshee che protegge la famiglia pianga e si disperi, rilasciando il suo terribile grido di dolore per le valli irlandesi. A volte però, le grida sono di vittoria, quando quella che ha subìto la perdita è una famiglia nemica.

La Banshee controlla i componenti della “sua” famiglia anche quando essi emigrano: alcune famiglie dicono di averla sentita urlare di notte, annunciando la morte di un parente emigrato in America o in Australia. Spesso, infatti, tra le famiglie irlandesi la morte è annunciata dal grido disumano della Banshee. Persino i più scettici tra gli Irlandesi sono inclini a credere all’esistenza delle Banshee, piuttosto che a quella di altri esseri soprannaturali.
I suoi urli sono noti con il termine di “keening” (dal gaelico Caoineadh = lamento), ed il sentirli è segno di nobiltà, perché la Banshee avverte soltanto i componenti delle più nobili famiglie che possono vantare il più antico lignaggio celtico. La tradizione narra infatti che inizialmente le Banshee potevano piangere solo per le cinque principali famiglie irlandesi: gli O’Neills, gli O’Briens, gli O’Connors, gli O’Gradys ed i Kavanaghs, ma ovviamente i matrimoni con altre famiglie hanno portato ad ampliare
notevolmente questa lista esclusiva.

Essa può legarsi ad una o più persone, che saranno sotto la sua protezione fino alla morte. Quando la persona protetta dalla Banshee muore, come sopraccennato, ella piange, pertanto la Banshee non urla per crudeltà, ma per pura disperazione: la Banshee è così affezionata alla persona che protegge, che la notte prima della morte di quest’ultima, ne percepisce il triste destino ed incomincia a piangere emettendo un lamento lugubre, che si ripete tre volte o può durare tutta la notte.
Le Banshee non si mostrano mai agli esseri umani, con l’eccezione di coloro che sono prossimi alla morte e a cui giunge tale presagio, ed è probabilmente questa la ragione per cui, dopo l’VIII secolo, vennero classificate tra gli esseri malvagi. Nella tradizione fantasy moderna, dove gli elementi caratteristici delle mitologie antiche e delle tradizioni folkloristiche subiscono mutazioni ad opera del passaggio del tempo e delle contaminazioni fra opere letterarie (o di qualsiasi altro tipo) diverse, la Banshee viene spesso rappresentata come uno spirito urlante, non necessariamente malvagio, il cui grido ha la capacità di uccidere all’istante.
Talvolta è associata alla razza degli Elfi o similari, ed ha un corrispondente maschile, nel meno comune Far Shee (in irlandese Fear Sidhe). La Banshee più famosa si chiamava Aibhill, e proteggeva la famiglia O’Brian. Stando alla leggenda, nel 1014 Brian O’Brian si lanciò nella battaglia di Clontarf pur sapendo di andare incontro a morte certa, dal momento che la notte precedente Aibhill gli era apparsa mentre lavava la biancheria dei soldati, finché l’acqua non si tinse completamente del colore vermiglio del sangue.

Questo è anche il triste racconto di Lile McGinley, soprannominata l’Infelice. La nobile ed allora centenaria signora viveva con la servitù nel suo immenso castello, senza più alcun parente a Leitrim. Tutti l’avevano abbandonata, considerandola una povera pazza, ma Lile celava dentro di sé qualcosa che, durante quegli anni, l’aveva tormentata e per questo, fatta impazzire. Quando era ancora giovane e bella, Lile, come ogni ragazza del mondo, s’innamorò di un uomo buono e generoso, Brian O’Brian. Quell’amore, purtroppo, era ostacolato dai cattivi rapporti esistenti tra le loro nobili famiglie, per via di motivi politici, che poco interessano ai veri innamorati di qualsiasi epoca e nazione.
Il padre di Lile era, infatti, un ricco protestante, da sempre contrario all’indipendenza dell’Irlanda, leale verso la Corona Inglese; mentre la famiglia O’Brian, cattolica e di antiche origini, si schierava dalla parte dei repubblicani, desiderosi di unire tutte le contee d’Irlanda. Lile e Brian volevano soltanto vivere apertamente quel dolce sentimento che li rendeva così simili, anche se culturalmente diversi.
Dopo essere trascorsi moltissimi anni dalla morte del suo amato, Lile era ancora considerata una pazza, la gente aspettava di vederla scomparire per sempre, perché così si sarebbe chiusa la storia di una famiglia che, secondo gli abitanti della contea, aveva portato soltanto grande sfortuna.
In Irlanda, però, i miti sono legati alle Fate e agli Spiriti della Natura, ed anche la storia di Lile e Brian era collegata ad una leggenda triste e spaventosa, quella di Aibhill, appunto.
Circa mille anni fa, quella regione dell’Isola di Smeraldo era abitata dal Piccolo Popolo che fu assalito ed occupato dai Celti; i superstiti continuarono a vivere nascosti nei boschi, man mano divennero sempre più piccoli, si adattarono all’ambiente e lì fecero la conoscenza delle Fate, che donarono loro tutto il sapere e il potere degli Elfi, aiutandoli contro gli odiati invasori Celti. Secondo alcune leggende, gli esseri fatati rapivano i figli neonati dei Celti per vendicare il Piccolo Popolo.

La figlia del capo del Piccolo Popolo era Aibhill, il cui destino fu molto simile a quello della povera Lile, infatti, anche il cuore della fanciulla si consumò d’amore per quello di un giovane cavaliere. Purtroppo quel giovane era un Celto e la ragazza non avrebbe mai potuto amare liberamente colui che suo padre odiava immensamente. Per qualche tempo Aibhill riuscì a proteggere quel sentimento, incontrava l’amato nei boschi e nelle paludi, poi, un giorno, forse a causa di qualche Fata crudele, il loro segreto fu svelato e il padre di Aibhill decise di punire la figlia per quell’oltraggio. La fanciulla fu rinchiusa in una gabbia di cristallo, e a niente valsero le sue grida e le suppliche pietose, perché davanti ai suoi occhi il giovane celto fu giustiziato atrocemente.

Da quel giorno Aibhill sembrò impazzita, la notte piangeva ed urlava disperatamente, i suoi lamenti furono così acuti che riuscirono a rompere la fragile prigione e le permisero di fuggire via. Non fu mai più ritrovata, forse, intontita dal dolore, vagò nei boschi e nelle valli fino a che morte naturale non la sorprese.
Nelle notti di luna piena, alcuni irlandesi confessano di aver sentito il pianto di Aibhill che echeggia nella valle, e chiunque riesca ad udire la sua voce ne rimane terrorizzato, poiché nelle sue urla è racchiuso tutto il dolore del mondo.

La fanciulla divenne, infatti, simbolo di sfortuna e di malaugurio e fu denominata una Banshee, una specie di fata solitaria, uno spirito femminile che si aggira attorno ai fiumi e alle sorgenti d’Irlanda, il cui aspetto è spaventoso, con gli occhi rossi e gonfi per il pianto che versa sulle tombe di tutti coloro che in vita hanno sofferto per amore. Essa è quindi uno spirito maligno, che non si mostra mai agli uomini, con l’eccezione di coloro che sono prossimi alla morte e a cui giunge tale presagio.

Il gemito di una Banshee trapassa la notte, è una nota che sorge e precipita come le onde del mare, appare su per le colline scure, la sua figura bianca e luminosa si contrappone bruscamente contro le tenebre, i capelli grigio argento fluttuano e s’intrecciano, il mantello bianco, tessuto di ragnatela, si avvinghia stretto al suo corpo.

Si racconta che ogni Banshee, prima di divenire orrenda, fosse una bella donna che faceva innamorare i cavalieri, il dolore e lo strazio, però, sono in grado di trasformare ogni lineamento, tanto da cancellare la bellezza di un tempo, il viso diventa pallido, gli occhi di sangue e con tali sembianze, la Banshee compare nel buio e terrorizza chiunque, tanto da essere definita la Signora della Morte.
Forse adesso capirete perché la povera Lile venne allontanata da tutti a Leitrim, Brian morì tra le sue braccia, lui, che credeva nella pace e nell’unione del popolo irlandese; in una di quelle rivolte sanguinose, la vita del giovane fu spezzata, proprio per mano del padre di Lile.

La dolce e bella irlandese non fu più la stessa, si rinchiuse in casa, iniziò ad imbruttirsi, divenne spaventosa nello sguardo e nel fisico, inguardabile e per questo abbandonata da tutti, nascosta, più per vergogna, nelle sue stanze, dove trascorse tutta la vita. Quanto sarebbe stato meglio morire d’improvviso, ma neanche questo le concesse la Natura…

Dalla sua finestra Lile vide gli anni passare, guardò da spettatrice impassibile ogni rivolta civile, il sangue di altri uomini versato, il pianto di altre donne chine sui corpi dei mariti, dei padri e dei fratelli morti; la mente svuotata della vecchia signora non rammentava neanche più il colore della bandiera irlandese, il tricolore arancione, bianco e verde, il cui significato era quello di pace duratura tra i Protestanti e i Cattolici d’Irlanda, stretti in una generosa ed eroica fratellanza, ciò per cui aveva combattuto e perso la vita il suo amato Brian.

Cosa fosse cambiato nella storia del suo popolo e se la morte del suo Brian avesse mai avuto un senso, questo Lile non l’avrebbe saputo mai, e di certo, ancora oggi, il suono acuto del suo pianto, carico di disperazione, ed il tormento di tutta la sua vita, echeggiano nelle valli dell’Isola di Smeraldo, come i lamenti spaventosi della Banshee Aibhill. Alla sua morte, anche la vecchia Lile divenne parte della leggenda d’Irlanda.

Si dice che chi visiti l’Irlanda non riesca più a dimenticarla, questo è probabilmente uno di quei casi: le atmosfere sono surreali e mitiche, piene di sfumature delicate e magiche, là, forse, con il calare dell’oscurità nella valle, qualche Fatina solitaria svolazza dispettosa, burlandosi della scarsa fantasia degli esseri umani e punendoli per la loro spietatezza, che, il più delle volte, si sostituisce all’ingenuità e alla purezza d’animo infantile.

Il culto di Cibele



Madre degli Dei immortali,
Lei prepara un carro veloce, tirato da leoni uccisori di tori:
Lei che maneggia lo scettro sul rinomato bastone,
Lei dai tanti nomi, l'Onorata!
Tu occupasti il Trono Centrale del Cosmo,
e cosi' della Terra, mentre Tu provvedevi a cibi delicati!
Attraverso Te c'è stata portata la razza degli essere immortali e mortali!
Grazie a Te, i fiumi e l'intero mare sono governati!
Vai al banchetto, O Altissima! Deliziante con tamburi, Tamer di tutti,
Savia dei Frigi, Compagna di Kronos, Figlia d'Urano,
l'Antica, Genitrice di Vita, Amante Instancabile,
Gioconda, gratificata con atti di pietà!
Dea generosa dell'Ida, Tu, Madre di Dei,
Che porta la delizia a Dindyma e nelle città turrite
e nei leoni aggiogati in coppie, ora guidami negli anni a venire!
Dea, rendi questo segno benigno!
Cammina accanto a me con il Tuo passo grazioso!


Virgilio - Eneide - preghiera di Enea

La grande Dea anatolica

Dea creatrice che ha dato origine all’intero universo* senza bisogno di intervento maschile, vergine inviolata e tuttavia madre degli dei. La grande dea anatolica si manifestava nella dura sostanza della roccia e si riteneva fosse caduta dal cielo sotto forma di una Pietra nera.
Sul confine occidentale della Paflagonia c’era una scogliera deserta che si chiamava Agdo e Cibele vi veniva adorata sotto forma di una pietra nera.

La leggenda narra che Zeus era innamorato di Cibele ma invano cercava di unirsi alla dea e nell'angoscia di una notte d'incubo, mentre la sognava ardentemente, il suo seme schizzò sulla pietra generando l'ermafrodito Agdistis. Questi era malvagio e violento, con le sue continue prepotenze aveva già maltrattato tutti gli dei. Sicché Dioniso, giunto all’esasperazione, volle vendicarsi e architettò ai suoi danni uno scherzo atroce. Gli portò in dono dell'ottimo vino e lo accompagnò a bere in cima a un grande albero di melograno, finché Agdistis si addormentò ubriaco fradicio in bilico su un ramo. Pian piano con una cordicella Dioniso gli legò i genitali al ramo e, sceso in terra, scosse l'albero con tutta la sua forza. Nel brusco risveglio il malcapitato precipitò strappandosi di netto il prezioso organo: così Agdistis morì dissanguato mentre il suo sangue lavava il melograno e lo faceva rifiorire rigoglioso e stupendo e carico di succosi magici frutti. La ninfa del Sangario, il fiume che scorreva nelle vicinanze, sfiorò con la sua pelle vellutata uno di quei frutti e rimase incinta di un dio.
Fu così generato Attis il bello, il grande amore di Cibele. La Signora delle fiere suonava la lira in suo onore e lo teneva perennemente occupato in voluttuosi amplessi. Ma, ingrato e irriconoscente, Attis volle abbandonare quelle gioie celesti e se ne fuggì via per vagare sulla terra alla ricerca di un'altra donna. Cibele sapeva bene che nessuna infedeltà avrebbe potuto sfuggire alla sua vista onnipotente e, trainata dai leoni, lo sorvegliava dall'alto del suo carro. Colse così Attis mentre giaceva spensieratamente con una donna terrena, convinto che le fronde di un alto pino fossero sufficienti a nascondere il suo tradimento. Vistosi scoperto, Attis fu assalito da un rimorso tormentoso e implacabile, finché all'ombra del pino si evirò.

  

La castrazione divina                                                                                             
L’immagine dell’ape regina, che durante l’atto nuziale effettua la castrazione del fuco, incarna l’essenza del mito classico su Cibele. Presso gli Ittiti, Kumarbi stacca con un morso i genitali del dio del cielo Anu, ne inghiotte una parte dello sperma e sputa il resto contro la roccia, ove si genera una bellissima dea. Benché argomento apparentemente peregrino, la castrazione è un tema mitico universalmente diffuso e si collega al nucleo della trasmissione del potere regale cui si è alimentata tanto la tradizione egiziana (Osiride) che quella Greca (con Urano).


Il culto                                                                                                                         
Cibele era la grande madre di tutti i viventi, protettrice della fecondità, signora degli animali selvatici e della natura selvaggia, attraversava le foreste montane su un cocchio tirato da leoni, accompagnata dal corteo orgiastico dei coribanti.



Era anche una divinità poliade, fondatrice di città e patrona del suo popolo in pace e in guerra, aveva anche caratteri oracolari.
Il suo culto,che aveva il centro principale in Pessinunte, in Asia minore, era in
origine di carattere nettamente orgiastico, con danze sfrenate al suono di flauti, timpani e cembali ed estasi deliranti, durante le quali i galli, suoi sacerdoti servitori,
si flagellavano e arrivavano a autoevirarsi. In seguito il suo culto passo in Grecia e specialmente a Creta, sotto il nome di Rea. Sotto l'influenza greca, questo culto perse molte delle sue caratteristiche barbariche, che riaffiorarono in epoca ellenistica.

A Roma ella fu venerata a partire dal 205 a. c.  come simbolo di fecondita’.
I suoi scerdoti si chiamavano Galli nella Galizia, Coribanti nella Frigia, Dattili Idei nella Troade e Cureti a Creta. In suo onore furono incisi  svariati fregi e solchi su marmo quale atto per ridestare l’insita sua presenza. Santuari imponenti le venivano dedicati in posti inaccessibili, ricavandoli nelle pareti a picco mille metri sul mare. Il suo misterioso culto ctonio era praticato nelle fenditure della montagna, entro nicchie e gallerie. Talora l’apertura era un lontano punto visibile su un dirupo, tal altra corrispondeva al punto più alto di un’acropoli: era l’ingresso a tunnels scavati interamente nella roccia con gradinate discendenti nelle viscere della montagna, ad andamento elicoidale e senza sbocco. Ieratica in trono, Cibele riceve gli omaggi delle processioni che avanzano al ritmo frenetico di timpani, cembali, flauti e tamburi.        

Porta sul capo un ornamento cilindrico, di solito a forma turrita; è coperta da un velo o da un mantello, regge uno specchio nella mano e, sette volte su dieci, possiede una melagrana. Come Demetra, impugna le spighe d’orzo la cui Claviceps purpurea
forniva la bevanda allucinogena.

Il leone è il veicolo di Cibele ed immancabilmente lo troviamo ai suoi piedi. Anche nei bassorilievi della corrispondente dea ittita (Kubaba) compare un leone ai piedi del trono. Non solo in Anatolia: nel 1200 a.C. l’iconografia di una donna nuda in equilibrio sulla schiena del leone era presente in una vasta area del bacino mediterraneo orientale che interessava Assiri (Ishtar), Fenici (Astarte) ed Egiziani (Quadesh). La criniera del leone e le sue fauci spalancate sono l’emblema del pube femminile. Solo più tardi, quando le società patriarcali hanno sviluppato concezioni misogine, nel pelo leonino è stata proiettata l’immagine raggiata della corona solare. Non deve stupirci la banalità dell’attribuzione sessuale, l’idea dell’antro genitale femminile è insita nel nome stesso di Cibele, che significa grotta. Bisogna considerare che in Cibele c’è la continuità con le semplici concezioni religiose dell’uomo del neolitico e che in Anatolia, già nel 6.000 a. C., la grande dea veniva rappresentata seduta in trono fra due leonesse.


      


La MAGNA MATER                                                                                                                
Patrona dei Mermnadi di Lidia, nel mito greco fu assimilata a Rea e associata a Demetra e venerata ovunque, in genere sotto l'appellativo di Grande Madre o Madre degli dei.  

Perciò essa sola fu detta Gran Madre degli dei
e madre delle fiere e genitrice del nostro corpo.
Di lei cantarono un tempo i dotti poeti di Grecia
che dal trono su un cocchio guidasse due leoni aggiogati,
significando così che l'immensa molte terrestre
è sospesa negli spazi dell'aria e che la terra non può poggiare sulla terra.

Lucrezio, De Rerum Natura

    
La Magna Mater altri non è che la dea Cibele, la grande divinità della Frigia, il cui culto è importato a Roma nel 204 a. C., durante le guerre con Cartagine, quando il senato decide di far venire da Pessinunte la "pietra nera" (magica, perché caduta dal cielo), simbolo della dea e di costruirle un tempio sul Palatino. Nelle intenzioni del senato il culto di Cibele avrebbe forse rinfrancato il sentimento religioso e il morale della popolazione, stremata dalla guerra. L'adozione del culto di Cibele sarebbe stata suggerita dagli auguri, che avevano consultato i Libri Sibillini e ne avevano ricavato un'allusione alla dea e all'opportunità di introdurla in Roma, per avvantaggiarsi nella situazione bellica. Per questo vengono mandati ambasciatori al re Attalo, che acconsente, dietro assicurazione che alla dea sarà tributato il culto che le compete. A Roma la pietra sacra doveva essere accolta dall'uomo e dalla donna migliori tra i cittadini. Per gli uomini fu scelto Publio Scipione Nasica, lo strenuo avversario dei Gracchi. Più confusa, nelle fonti antiche, l'identità della donna prescelta per il delicato incarico. Insieme a Cibele giungono a Roma anche i suoi sacerdoti, detti Galli, il cui capo è l'Arcigallo. Il culto di Cibele,  rappresentata con la testa coronata di torri, accompagnata da leoni, o su un carro trainato da questi animali, sopravvive a lungo nella storia dell'impero romano.

Dal 4 aprile iniziavano le feste dedicate alla dea Cybele, Magna Mater. Avevano termine il 10 aprile. Nello stesso periodo si svolgevano i Ludi Megalenses. L'11 si celebrava la dedicatio del tempio sul colle Palatinus.


Ave, Grande Madre dell'Ida, Madre degli Dei!
Ave, O piu'antica Sacra Dea!
io ti offro preghiere devote, O Cibele,
Berecinziana Madre di Dindymus!
Accoglici sotto la Tua protezione
Che Tu possa difenderci!
A Te offro questa supplica
Per garantire pace, sicurezza,
E salute alla nostra famiglia.
Possa tu essere benevolente e a noi propizia
e non abbandonare mai la Tua progenie.
se si presenta un'offerta di vino:
Per queste cose sii Tu onorata da questa libagione.
Sii Tu benevola e a noi propizia!

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NOTE:*Il mito pelasgico della creazione
In principio la grande Dea emerse nuda dal Chaos.
Non trovando nulla ove posare i piedi, divise il mare dal cielo e intrecciò sola una danza sulle onde. Danzando si diresse verso sud e il vento che turbinava alle sue spalle le parve qualcosa di nuovo e di distinto, pensò allora di cominciare l’opera della creazione: si voltò all’improvviso, afferrò il vento del nord e lo sfregò tra le sue mani finché apparve un enorme serpente.
La Dea danzava accaldata, danzava con ritmo sempre più selvaggio e il serpente, acceso dal desiderio, l’avvinghiò nelle sue spire e si unì a lei.
Volando a pelo dell’acqua la Dea assunse forma di colomba e poi, a tempo debito, depose l’uovo cosmico.
Ordinò allora al serpente di avvolgere l’uovo per sette volte: il guscio si dischiuse e ne uscirono tutte le cose esistenti. Ma ben presto il serpente si vantò d’essere egli stesso il creatore e irritò così la grande Madre che lo relegò nelle buie caverne.
E’ questo il mito Pelasgico, che alcuni Autori ascrivono ad un’origine anatolica. Si tratta di una versione in accordo con la tradizione indoeuropea degli antichi Veda (i testi sacri degli invasori giunti in India da nord e attraverso le steppe caucasiche). V’è un parallelo con Vinata, dea primordiale che guarda verso dove il limite dell’oceano si unisce con il cielo: dall’uovo cosmico che ella depone nasce un figlio alato il cui primo compito sarà di riscattare la madre dal potere dei serpenti.


________________________________________________________________________________IMMAGINI:
Dea sul trono (Chatal Huyuk, 6.000/5.000 a. C.)
Bassorilievo con Cibele e Attis, Roma, II d.C.
Cybele, bassorilievo votivo, Ai-Khanoum (Alessandria di Oxus), II a.C
Cybeele, bassorilievo votivo romano (alla mater Dei) .
Cibele, statua romana
Cybele Formiae, 60 a.C:
Cybele frigia, 1.600 a.C.
Cybele-Rhea su vaso greco, V a.C.


Fonti:
https://www.geocities.com/kubyla/Dea_anatolica.htm
https://www.aztriad.com /cybeleit.html

https://www.romanoimpero.com/2010/03/il-culto-di-cibele.html

Caterina Sforza - La tigre di Forlì e l'alchimia


Caterina Sforza nasce a Milano nel 1463, figlia “bastarda” di Galeazzo Maria Sforza e Lucrezia Landriani, moglie del cortigiano Gian Piero Landriani.
Vorrei spendere due parole sul padre di Lucrezia, un padre che ella adorerà ma allo stesso tempo temerà fino al giorno delle sue nozze che segnarono un punto di svolta non indifferente nella vita di Caterina.
Galeazzo Maria Sforza fu un uomo estremamente squilibrato e violento. Era noto a corte per la sua crudeltà e per i suoi repentini sbalzi di umore e nessuno osava contraddirlo per paura delle sue rappresaglie. Quei pochi che lo fecero, subirono durissime conseguenze come ad esempio narra il caso di un maniscalco che ebbe, come sua unica colpa, quella di sposare una bellissima fanciulla su cui posò gli occhi Galeazzo Maria. Il maniscalco tentò di ribellarsi, poiché sapeva in quali perversi modi lo Sforza violava le ragazze (prima ne godeva lui e poi a turno, davanti a lui, la poveretta era costretta a congiungersi con tutta la corte) e si ribellò.
In cambio gli vennero amputate le mani e la ragazza, dopo che fu violata, venne uccisa barbaramente.
Lucrezia Landriani, madre di Caterina, venne letteralmente sottratta a suo marito Gian Piero nel 1460 e fu costretta a convivere con Galeazzo Maria fino all’assassinio di lui avvenuto nel 1476.
Da Sforza ebbe quattro figli: Carlo, Caterina, Alessandro e Chiara che vennero legittimati dalla consorte di Galeazzo Maria, Bona di Savoia Sforza.

Caterina ereditò il carattere forte e combattivo da sua nonna Bianca Maria e la passione per le armi e la strategia militare da suo nonno Francesco. Date le sue spiccate propensioni, sin da piccolissima venne istruita nel campo militare e nelle tecniche di combattimento con la spada. Cominciò, inoltre, a frequentare il giardino botanico dello speziale di Bona Sforza, Cristoforo de Brugora, che la formò sulle proprietà curative delle erbe e la introdusse all’alchimia.
A nove anni, nel 1473 venne data in sposa a Girolamo Riario, nipote di Papa Sisto IV, dopo che Gabriella Gonzaga, madre di sua cugina, Costanza Fogliani, undicenne, rifiutò l’unione che comprendeva la consumazione immediata del matrimonio.
Galeazzo Maria non ebbe altra scelta che fare sposare la piccola Caterina con Girolamo, che all’epoca aveva circa 28 anni. Per conservare le apparenze, venne dichiarato un semplice fidanzamento tra i due e il “vero” matrimonio venne celebrato non appena Caterina raggiunse la maggiore età, secondo i dettami della Chiesa dell’epoca, nel 1477.

Nonostante le innumerevoli difficoltà che Caterina incontrò nel corso della sua vita, lo studio e la pratica dell’alchimia rimarrà una costante e un pilastro inamovibile della sua esistenza.
Alla sua morte venne ritrovato il manoscritto, chiamato “Experimenti de la Excellentissima Signora Caterina da Furlj matre de lo Illuxtrissimo Signor Giovanni de Medici”, contenente oltre 400 ricette, di salute, bellezza, tra cui si annovera anche la formula della pietra filosofale o elisir di lunga vita.
Nel manoscritto si possono trovare ricette per la creazione di rossetti, tinture per capelli (prediligendo il rosso e il biondo), trattamenti per la cura dell’infertilità, dell’epilessia, degli stati febbrili, per l’impotenza e uno dei primi anestetici.

Ecco alcune ricette, la prima è l’acqua di talco, soluzione a base mineraria utilizzata dagli alchimisti della prima età moderna:
El talcho è stella de la terra et ha le scaglie lucide e se trova ne l’isola di Ciprij et il suo colore è simile al cetrino et guardandolo essendo insieme in massa dimostra verde e vedendolo verso l’aria dimostra come cristallo et ha le infracripte virtù senza le altre che non sonno in libro noctate quale seria el desiderio de li alchimisti saperlo: prima per fare le donne belle e levarsi omni segno o machia del viso de sorte che se una donna de sesanta annj la farà parere de vinti... ancora dicta acqua de talcho o vero polvere de esso chi ne bevesse in vino biancho guarisse uno che fusse avenenato et chi in quel giorno ne havesse preso in vino biancho serà sicuro di veneno et de omni morbo e peste... Ancora se fa mentione che dicta acqua fa de lo argento oro, et de le zoie false le fa perfecte et fine (dagli Experimenti de la Ex[ellentissi]ma S]igno]ra Caterina da Furlj Matre de lo inllux[trissi]mo S[ignor] Giovanni de Medici, in Caterina Sforza, ed. Pier Desiderio Pasolini, v. 3, 617-618, Roma: Loescher, 1893. La trascrizione cinquecentesca di Cuppano è conservata in un archivio privato).

Per la libido maschile
“Contra el difecto de natura in alcuno homo o persona non posente usare cum femmina Cap. xlij. Piglia bac[ch]e de lauro ben trite confecte insieme e de quelle ungi li reni e le parte da ingenerare potentemente excita la uolunta – Ancora tolli euforbia [[16]] bac[ch]e de lauro, radice de satirione [[17]] tucte queste cose trita e fa bulire in olio siche sia como unguento et unge parte generatiua e li reni mareuigliosamente excita la uirtu generatiua. – Ancora dia satirion a beuere molto uale. – Ancora ungase la uerga cum questo unguento Piglia piper bianco lungo et nigro piretro galanga an. omnium. on. j et polueriza e mistica cum tanto mele che basti. Ancora in lo terzo nodo de la spina de lo stinco et una petra la quale se lo gallo la beue o mangia incontinente sale sopra la gallina e sopra li galli et se homo la mangiara o beuera sara libidinoso intanto che non se pora astenere[18]. – Ancora la petra la quale se troua in la masciella de la talpa da la parte deritta portata fa stare asai deritta la uerga et il contrario fa quella che sta de la parte sinistra – Ancora li testiculi de la uolpe mangiati molto uale et excita – Ancora chi uole sempre usare de luxuria beua oncie una de merolla de perdalij [sic] oltra modo face lebidine. – Ancora la radicata del satilione beuta cum uino forte excita – Ancora lo masculo destemperato cum uino et unge li reni et li membri uerili potentemente excita – Ancora li testicoli del tassone beuti cum acqua per tre di face libidine la quale non manca. – Ancora piglia semen urtice puluerizatum et mistum cum pipere et melle et in uino bibito excita totum. – Ancora la radicata cum setrion [satirione] tenuta in mane excita luxuria – Ancora la simente de lino mista cum piper e data a beuere cum uino fortemente accende la luxuria [linosa]. – Ancora li testiculi del ceruio ouero la somita de la coda de la uolpe eli testiculi del caulo acende la femina a libidine – Ancora se la uerga de lhomo e unta cum fele de uerro e de porco seluagio excita da fare tosto la luxuria delecta ale femine.

Per ringiovanire
Aqua celeste che fa regiovanire la persona, et de morto fa vivo:
pilglia garofani, noce moscata, zenzero, pepe lungo, pepe rotondo, grani di ginepro, scorza di cetrangoli, foglie di salvia, di basilico, di rosmarino, di maggiorana fine et di menta, fior di samnbuco, rose bianche et rosse (e altri 20 ingredienti, compresi fichi secchi uva passa e miele) Che ogni cosa sia ben polverizzata o pezzi metti in aqua vite (anche l’acquavite o grappa è spesso consigliata nelle ricette di Caterina). Metti in una bottiglia ben chiusa et lasciala doi giorni poi metti nel fornello coti alambicco et distilla cinque Volte, con fuoco lento, uscirà un’aqua rarissinma e preziosa.

Curare spirito e corpo
A far guarire omne persona lunatica, fantastica et malenconica:
piglia nove chieri di aqua di nove mulini et piglia doi bicchieri di aqua spremuta da radice di nibbi et fa bollire et dalle da bere ogni mattino a digiuno per nove mattine et poi fa questa unzione: prendi grasso di maiale et terra et pesta insieme poi ungi il collo il petto e lo stommaco, et più volte, et sarai guarito.

A fugare gli spiriti et le ombre, et le fanctasie:
fai leggere sopra il capo il vangelo nove giorni. Incommmincia la prima domenica d’avvento et seguita tutti i vangeli fino all’ascensione fatta eccezione per il vangelo della domenica delle palme.
Fai fumo per nove sere con incenso, palma e cannella metti, mirra, ruta, zolfo, savina, radice di optimna, issopo e comodi cervo. Se bisognasse fa cime si legga anche la leggenda di Santa Margherita et il Breviario di San Crispino.

A far dormire una persona per tal modo che porrai operare in chirurgia quel che vorrai e non ti sentirà et est probatumn.
La composizione che Caterina riporta verso la fine del 1400 è molto simile a quella di un anestetico, a base di oppio, di succo di more acerbe, di foglie di mandragola, di edera, di cicuta e altre piante, riportata su un manoscritto del nono secolo conservato nel Monastero di Montecassino e anche su di un libro di chirurgia uscito a Bologna nel 1265.

domenica 29 marzo 2020

Artemide, dea della Luna e della Natura selvaggia


Artemide è la forma che assunse presso la civiltà greca una dea di origini preelleniche legata al culto delle foreste, degli animali selvaggi, della Luna e più in generale del potere rigenerativo della Natura.

La sua figura, come spesso accade alle divinità femminili presso le civiltà patriarcali, assume diverse forme, si nasconde e riappare, accogliendo al suo interno altre divinità, cambiando nome, trasfigurandosi, ma rimanendo sempre riconoscibile a chi la cerca, grazie ad alcuni aspetti fondamentali. C’è chi sostiene che un tempo fosse la dea Astarte (Ishtar, Inanna), dea dell’amore e della guerra che poi presso i Greci venne “fatta a pezzi” in più dee specializzate.
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Del resto, la stessa etimologia del nome Artemide è misteriosa e rimane incerta nonostante siano state avanzate svariate ipotesi. Secondo alcuni deriva dalla radice persiana *arta, che significa grandiosa, sacra, eccellente, in questo caso identificandola ancora di più con la Grande Madre di Efeso. Secondo altri deriva dalla radice greca strat o rat, che significa scuotere. Altri fanno risalire il nome al greco arktos, che significa orso, e questa ipotesi sarebbe supportata sia dal fatto che il culto di Artemide, soprattutto in Attica, era legato a quello dell’orso, sia dalla storia di Callisto, che originariamente era Artemide stessa (di cui Callisto era l’epiteto arcadico, come spiegato meglio in seguito). Questo culto era ciò che sopravviveva di antichissimi rituali totemici e sciamanici, e faceva parte di un più ampio culto dell’orsa già riscontrato nelle culture indoeuropee (per esempio la dea orsa celtica Artio). Una forma arcaica di Artemide veniva venerata nella Creta minoica come dea delle montagne e della caccia chiamata Britomartis.
In ogni caso, le forme più antiche attestate del nome sono in greco miceneo: Artemitos e Artimitei, scritte nell’alfabeto della Lineare B, nomi cui gli studiosi riconoscono un’origine preellenica. In Lidia era venerata con il nome Artimus.
Artemide era la dea protettrice dalle Amazzoni, donne forti e indipendenti, abilissime guerriere, che dalla Libia, per non sottomettersi al patriarcato, si erano spostate sui monti della Tracia e dell’Anatolia e lì vivevano in totale libertà.
A lei era dedicato il tempio di Artemide a Efeso, una delle sette meraviglie del mondo antico, dove si trovava una statua che la rappresentava con centinaia di mammelle, come madre-animale-natura, grande nutrice divina, dispensatrice di vita.
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In Arcadia, un luogo in cui gran parte della cultura dell’Europa pre-indoeuropea era stata conservata, la chiamavano Callisto, la “bellissima”, oppure Agrotera, la “selvaggia”. Omero si riferisce a lei con l’epiteto di potnia theron, “Signora degli animali selvaggi”.
Presso i Greci, Artemide era una delle dodici maggiori divinità dell’Olimpo. Era figlia di Zeus e Leto, sorella gemella di Apollo. Artemide era la Luna, Apollo il Sole. Ma Artemide nacque prima di Apollo e aiutò poi sua madre a dare alla luce il fratello, assistendola durante i nove lunghi giorni di travaglio. Per questo è considerata anche la dea protettrice delle donne che partoriscono.
Artemis and Actaeon. Detail from an Athenian red-figure clay vase, about 480 BCE. Museum of Fine Arts, Boston
Artemide è una delle dee vergini, è indipendente ed è un’abilissima arciera. Con il suo arco e le sue frecce d’oro, costruite su misura per lei da Efeso e dai Ciclopi, Artemide, che i Romani chiamavano Diana, non sbaglia mai la mira. E’ una dea competitiva, vendicativa, che si scaglia verso il suo obiettivo senza lasciarsi distogliere da nulla. Artemide ottiene sempre ciò che vuole e punisce senza pietà chi manca di rispetto a lei o a qualcuna delle sue sorelle ninfe.
Artemide protegge le donne (sono molte le occasioni in cui impedisce o vendica stupri ai danni di una delle sue ninfe o di donne che hanno invocato il suo aiuto), le partorienti, i cuccioli, gli animali selvatici, i boschi.
Più in generale, si può dire che Artemide protegge la natura incontaminata, il potere rigeneratore della Natura nella sua forma più pura, più primordiale. E’ la dea di ciò che non appartiene all’uomo, di quello che l’uomo non può e non deve controllare né violare, la parte più misteriosa di Gaia, il suo cuore verde. E’ la dea della Vita che si rigenera, e come tale è una dea giovane, irruente, indomabile, piena di forza.
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Può comparire sotto forma di lepre, di cervo, di quaglia, di orsa, di leonessa o di falce di Luna.
Il suo essere dea della caccia non è da vedere come una contraddizione: infatti Artemide è più che altro dea dell’istinto predatorio, così come dell’Istinto in generale: è l’Orsa che caccia per sfamare i suoi cuccioli, la leonessa che diventa tutt’uno con la preda. E’ l’istinto di sopravvivenza, la fame di vita. Così come non bisogna vedere contraddizioni nel suo essere vergine e al tempo stesso protettrice delle partorienti: Artemide protegge tutte le donne, le aiuta, le difende con la sua forza adamantina. La donne che danno alla luce meritano ancor più la sua protezione in quanto stanno mettendo al mondo dei cuccioli, stanno propagando la Vita, e in quel momento sacro, in quel rito di iniziazione e passaggio che è il parto, divengono Natura allo stato puro, pervase da un dolore-gioia che accomuna tutte le madri del mondo.
Artemide è vergine per i Greci perché in una società patriarcale una donna libera, indipendente e incontaminata doveva per forza essere una vergine, per essere considerata rispettabile, degna di onore pur non appartenendo a nessun uomo. In un mondo di uomini, la verginità la rendeva libera, mentre se si fosse “conceduta” a qualcuno il suo potere sarebbe diminuito.
Questo non implica che anche la divinità preellenica da cui Artemide deriva fosse vergine. In una società matrifocale, dove la donna non è considerata una proprietà dell’uomo, la verginità non costituisce necessariamente un valore, anche se può essere una scelta.
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In ogni caso, la verginità di Artemide la identifica con l’aspetto bianco della Triplice Dea: quello della fanciulla giocosa che va alla scoperta della vita, l’adolescente che scorrazza per i boschi posseduta dalla Spirito della Natura.
Gli attributi di Artemide sono l’arco e le frecce, la luna crescente, una veste gialla con il bordo rosso che arriva solo alle ginocchia per permettere di correre, una muta di cani da caccia (sei maschi e sette femmine), 60 oceanine e 20 ninfe bambine che si prendono cura dei suoi cani quando la dea non c’è.
Sono numerosi i miti che narrano di lei e delle sue imprese, mettendo in luce il suo temperamento. Tra i più famosi c’è quello di Aretusa e Alfeo. La ninfa dei boschi Aretusa, di ritorno da una battuta di caccia, si era spogliata e si stava rinfrescando con un bagno in un fiume quando il dio di quel fiume, Alfeo, la scorse e, acceso dal desiderio, la inseguì. Aretusa mentre fuggiva chiamava aiuto invocando il nemo di Artemide che, udite le grida della ninfa, arrivò in suo soccorso, la nascose in un alone di nebbia e la trasformò in fonte d’acqua cristallina.
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Alfeo e Aretusa rappresentati nella statua che si trova presso la fonte Aretusa, sull’isola di Ortigia, a Siracusa.
In un altro mito si racconta del cacciatore Atteone che, mentre vagava con i suoi cani per la foresta s’imbattè per caso nella dea e nelle sue ninfe che si bagnavano in uno stagno nascosto e rimase attonito a guardare. Quando se ne accorse, offesa da quell’indiscrezione, Artemide gli spruzzò dell’acqua sulla faccia, trasformandolo in un cervo, così che i suoi cani si scagliarono contro il loro stesso padrone. Preso dal panico, Atteone cercò di fuggire ma venne raggiunto e sbranato.
Artemide uccise anche un altro cacciatore, Orione, secondo alcune versioni del mito l’unico uomo da lei amato, con cui trascorreva lungo tempo nei boschi. Apollo, che si sentiva offeso dall’amore della sorella, quando un giorno vide Orione nuotare in mare con la testa a pelo dell’acqua, chiamò Artemide, che si trovava poco distante, le indicò un oggetto scuro nell’oceano e le disse che non sarebbe mai riuscita a colpirlo. Provocata dalla sfida del fratello e non sapendo che l’oggetto contro cui mirava fosse la testa del suo amato, Artemide scoccò una freccia e lo uccise. Successivamente, la dea pose Orione fra le stelle e gli diede uno dei suoi cani, Sirio, la stella principale della costellazione del Cane, affinché lo accompagnasse nei cieli. Così, il solo uomo da lei amato fu vittima della sua natura competitiva.
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Secondo altre versioni invece Artemide non amava Orione, e lo uccise facendolo mordere da uno scorpione quando egli la provocò dicendole di essere un cacciatore più abile di lei. Per questo in cielo la costellazione dello Scorpione insegue sempre quella di Orione…
Affascinante e misterioso è anche il mito che narra la storia di Callisto (che in origine non era altro che una manifestazione di Artemide stessa, e ci riporta all’argomento della verginità e della castità). Callisto era figlia di Licaone, Re dell’Arcadia, ed era anche una compagna di caccia di Artemide. Come tale, decise di prendere il voto di castità. ma un giorno Zeus le apparve sotto le sembianze di Artemide, o di Apollo in alcune versioni, conquistò la sua confidenza e le sedusse (o la violentò, secondo Ovidio). Il frutto di questo incontro fu la nascita adì un figlio, Arcas.
Irata, Artemide (o secondo altre versioni Era) trasformò Callisto in un’orsa. Arcas, quando la vide, non riconoscendo sua madre, quasi la uccise: Zeus lo fermò appena in tempo. Preso dalla compassione, Zeus mise l’orso Callisto in cielo, dando origine alla costellazione dell’Orsa. Alcune storie raccontano che egli posa sia Arcas che Callisto in cielo come orsi, formando le costellazioni Ursa Minor e Ursa Major.
Ursa major
Ursa major
Questo mito contiene probabilmente tracce sia degli antichissimi culti sciamanici dell’orso in uso nell’Europa neolitica, sia sull’evoluzione della figura di Artemide: considerando infatti che, come detto prima, in origine Callisto era un epiteto della stessa dea, è interessante notare come quest’ultima punisca quella che in fondo non è altro che una parte (arcaica) di se stessa per non aver rispettato il voto di castità (così caro ai Greci), proprio trasformandola in un’orsa, simbolo antichissimo della Dea Madre, dell’istinto e della potenza della Natura.
Artemide, dea della Luna, si sentiva perfettamente a suo agio nella notte, quando vagabondava per il suo regno selvaggio nella luce lunare o di una torcia. Nelle sembianze di dea della Luna crescente era collegata con altre due dee: Selene, la Luna piena, ed Ecate, la Luna nuova. Insieme le tre dee erano considerate una trinità lunare: Selene aveva potere in cielo, Artemide sulla Terra, Ecate nel misterioso mondo sotterraneo.
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Riporto un brano molto interessante a proposito della visione lunare, tratto da Le dee dentro la donna, di Jean S. Bolen:
La chiarezza con cui la cacciatrice Artemide centra il bersaglio è uno dei suoi tipici modi di ‘vedere’. Caratteristica di Artemide in quanto dea della luna è la ‘visione lunare’. Visto al chiaro di luna, un paesaggio si trasforma, i particolari si fanno indistinti, belli e spesso misteriosi. Lo sguardo viene attratto verso l’alto, verso i cieli stellati, oppure verso un’immagine ampia, allargata della natura. Al chiaro di luna chi è in contatto con la dimensione Artemide diviene parte inconsapevole della natura, per qualche istante in essa e tutt’uno con essa. Nel suo libro Women in the Wilderness, China Galland sottolinea che quando le donne vagano per luoghi selvaggi compiono anche un percorso interiore: “Andare per luoghi selvaggi implica il riconoscimento di una dimensione ‘selvaggia’ dentro di noi. Questo è forse il valore più profondo di una simile esperienza, il riconoscimento della nostra affinità con il mondo della natura.” Le donne che seguono Artemide nelle regioni impervie scoprono se stesse e per questo diventano più riflessive. Spesso fanno sogni più vividi del consueto e ciò favorisce in loro uno sguardo interiore. Vedono i luoghi interiori e i simboli onirici ‘al chiaro di luna’, per così dire, in contrasto con la realtà tangibile, e questo, alla vivida luce del giorno, lo si apprezza ancora di più.
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Invochiamo questa dea indomabile ed elusiva quando vogliamo attivare in noi l’archetipo della vergine guerriera, dell’Amazzone, della donna-dea completamente focalizzata sul suo obiettivo, che tende l’arco, prende la mira e scocca la freccia dorata centrando perfettamente il bersaglio. Artemide ci dona la forza dell’indipendenza, della concentrazione, della libertà di spirito. Inoltre accende in noi quella visione lunare che ci permette di vedere noi stesse e il mondo che ci circonda sotto un’altra luce, con lo sguardo proprio di un essere della Natura. Artemide risveglia il nostro sesto senso, l’esattezza di chi agisce guidato dall’istinto e dall’intuizione anziché dal ragionamento. Ci pervade di Vita, di forza rigenerante. Ci permette di intuire con estrema lucidità che siamo Natura divina, che fra noi e la foresta non c’è alcuna differenza, che dentro di noi ci sono boschi illuminati solo da una falce di Luna, abitati da animali selvaggi, che abbiamo dalla nostra parte l’immensa e inesauribile energia della Vita, che ci sostiene proprio quando decidiamo di ascoltare il nostro istinto, di seguire nuotando il suo flusso.
Artemide protegge tutte le donne in difficoltà, in particolare coloro che subiscono abusi da parte di uomini, e tutte le madri che stanno dando alla luce i loro cuccioli. Inoltre protegge gli animali, i boschi e i luoghi incontaminati.
Celebriamo la dea recandoci in boschi o in luoghi selvaggi, se possibile durante notti di luna crescente, sintonizzandoci con il battito del cuore della Natura, con il respiro animale che ci anima, sviluppando la nostra visione lunare e ascoltando il nostro istinto. Se vogliamo, corriamo per il bosco, oppure bagnamoci in fiumi o cascate. Sentiamoci vive, forti, libere, intere. Abbiamo tutto il diritto di esserlo. Sentiamo che la dea è tutt’intorno a noi: è il corpo del bosco, lo sguardo della Luna, il respiro degli alberi e della Terra, canta con la voce dei ruscelli, ci sfiora con il vento entrando dentro di noi e vivificando ogni nostra cellula. Al tempo stesso la dea è anche già dentro di noi, da sempre, in quei luoghi del nostro inconscio ricoperti da foreste inesplorate, che attende tra i tronchi che noi la scopriamo, stringendo in una mano il suo magnifico arco d’oro, carezzando un lupo con l’altra. E, a volte, si trasforma in un’orsa…
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Bibliografia e sitografia:
-Bolen J.S., Le dee dentro la donna, Astrolabio, Roma 1991
-Monaghan P., Dizionario delle dee e delle eroine, Edizioni Red!, Milano 2004
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Noi ci nutriamo dell'escremento delle piante


L'aria, o meglio ancora, l'ossigeno che noi utilizziamo, che cos'è, lo sapete? E' il sotto prodotto di un processo della fotosintesi clorofilliana: le piante prendono l'anidride carbonica, l'acqua e attraverso una sostanza, che è la clorofilla, utilizzano l'energia solare per produrre gli zuccheri. Gli zuccheri sono l'alimento della pianta ma, sono anche l'alimento degli animali erbivori che di quella pianta si cibano e degli animali carnivori che di quegli animali erbivori si cibano, a loro volta. Il sotto prodotto di questo processo, lo scarto, il rifiuto, è l'ossigeno. Noi ci nutriamo dell'escremento delle piante. Facciamocene una ragione: anche noi siamo inseriti nel ciclo naturale, e guai se le piante non producessero questo “escremento”: l'ossigeno è un gas molto reattivo, e quindi tende a combinarsi molto velocemente con i prodotti che sono in giro per la Terra, e, dopo qualche mese, sarebbe completamente sottratto all'atmosfera. Quindi se noi viviamo, se siamo qua, se respiriamo, è grazie agli escrementi delle piante!