lunedì 30 dicembre 2019

Mormo – Vampiri nella Grecia Classica


La Mormo (Μορμώ, Μορμών) è uno spirito che morde i bambini per berne il sangue.
E’ una figura che si trova nella mitologia greca e che poi viene ereditata da quella romana e che somiglia molto alle rappresentazioni dei vampiri femminili a cui la letteratura gotica ci ha abituati.
Come alle streghe delle fiabe o ai folletti maligni, veniva attribuita a queste creature il provocare di disordini e rumori notturne nelle case o nelle botteghe.
Le sue sembianze erano quelle femminili (come al solito ci troviamo di fronte a donne splendide oppure a orrende megere) che presentavano tratti equini o si presentavano in forme di cavalli o di farfalle, come vuole un’ampia tradizione degli spettri.
Come le Lamie e le Empuse, anche le Mormo fanno parte del seguito di Hekate e talvolta ne annunciano l’arrivo o la rappresentano con il loro palesarsi.
Dall’epoca antica ci sono pervenute ben poche informazioni su queste figure mitologiche, ma pare accertato che avessero un ruolo iniziatico consistente nei culti misterici di Hekate.
Nelle commedie di Aristofane troviamo citate queste creature, ma pare che il commediografo greco utilizzasse il termine alla stregua di “uomo nero” o di “spauracchio”.
In questi casi Aristofane faceva riferimento a una tipologia di maschere particolari, le mormolykeia, modellate appunto sulla figura della Mormo con le quali si spaventavano i bambini.

Il teologo cristiano Ippolito di Roma (Asia, 170 circa – Sardegna, 235) nel suo Philosophumena redasse un paragrafo sulla forma di divinazione della piromanzia in cui accanto a Hekate e altre dee ctonie o lunari (Bombo, Gorgo, Luna) veniva invocata Mormo.
Da ciò possiamo presumere che le Mormo avessero connessione con i poteri del fuoco.
Probabilmente, considerata la triplice forma di Hekate e della Luna, e le tre Gorgoni, possiamo immaginare Mormo come una delle tre facce di una divinità più ampia.

Altre divinità simili, utilizzate nell’antichità dai genitori come spauracchio per i bambini che non volevano dormire – analoghe al più moderno uomo nero – erano, oltre a Mormo, anche Eurinome – tra le tante della mitologia greca, ci riferiamo alla divinità infera

dedita a divorare i corpi dei morti – Gello, Alifto e Acco. L’etimologia di quest’ultima è affascinante: deriva probabilmente dalla radice del verbo akkìzomai (“faccio smorfie”, “ghigno”). Presso i romani divenne Acca, che significa “madre”, “tata” e quindi allude a una vicinanza molto stretta, quasi intima alla dimensione domestica e del bambino dalla quale addirittura veniva o poteva venire accudito.
Il personaggio più importante in riferimento a questa tradizione è sicuramente Acca Larenzia, di cui parleremo in relazione alla mitologia romana, successivamente.

domenica 29 dicembre 2019

Lilith - Vampiri in Medioriente


Troviamo Lilith nelle religioni mesopotamiche e nell’ebraismo delle origini e le sue radici sono probabilmente babilonesi.

In accadico troviamo dei riferimenti al suo nome nel termine Lili-itu, riferito dalla divinità Ninlil. Entrambi i termini significano “signora dell’aria” e con Ninlil era chiamata la dea del vento meridionale, la moglie del dio celeste Enlil. Nell’antico Iraq, il vento del sud è associato con l’aggressione portata dalle tempeste di polvere meridionali e in generale con le malattie.

Līlītu (accadico) e לילית (lilith, ebraico) sono aggettivi femminili che derivano dalla radice linguistica proto-semitica <L-Y-L> notte (con l’aggiunta della nisba t a significare della notte o notturna), e traduce letteralmente un essere femminile della notte, demone. Con tutto quello che dalla connotazione notturna deriva.
La stessa radice – che non esige letteralmente uniformità di concetti – in ebraico e nell’arabo Layla/Leyla, Lela o Lel significa sera o notte.

Lilith è un demone femminile associato al vento e alla tempesta. Porta con sé malattia, pestilenza e morte con un battito d’ali. E’ infatti raffigurata nella forma di donna uccello, così come molte altre figure femminili a metà tra il mondo umano e quello demonico. Oltre ad avere le ali, Lilith possiede lunghi e folti capelli (simbolo di sensualità e fertilità) di colore rosso (la lussuria senza controllo).

Nella mitologia babilonese i demoni (a differenza dei diavoli, di natura simile a quella divina) sono creature a metà tra la condizione umana e quella divina.
Lilitu è una demonessa, compagna di Lilu. Dai due nasce la figlia Ardat Lili.
Di Lilitu si dice: “è il demonio che l’uomo crea sul letto durante il sonno”.
Secondo gli ebrei, Lilith era la prima moglie di Adamo, nata non come Eva da una costola dell’uomo, ma modellata da Dio con la stessa terra. Lilith rifiutò di sottomettersi al marito e se ne andò via, oltre i confini dell’Eden, laddove dimoravano gli angeli caduti dopo la battaglia celeste condotta da Lucifero. Lilith lo trovò e lo scelse come compagno (riferimenti nello Sefer ha-Zohar,il Libro dello Splendore, uno dei principali testi cabalistici ebraci e nell’L’alfabeto di Ben-Sira, anonimo del X sec.d.C.).

 “Ella disse ‘Non starò sotto di te,’ ed egli disse ‘E io non giacerò sotto di te, ma solo sopra. Per te è adatto stare solamente sotto, mentre io sono fatto per stare sopra.”
Alfabeto di Ben-Sira

Lilith si infuriò e pronunciò ad alta voce il nome di Dio: un tale atto è tabù nella religione ebraica. Se è un essere umano a commetterlo, genera scandalo. In un mito, designa e legittima una natura sovrumana. Abbandonò l’Eden prima della caduta dell’uomo e non avendo toccato l’Albero della Conoscenza non fu condannata alla mortalità.
Adamo chiese a Dio di riportare indietro Lilith, cosi tre angeli, chiamati Senoy, Sansenoy e Semangelof, furono mandati per ricercarla. Quando i tre angeli trovarono Lilith e le ingiunsero di tornare minacciandola di morte, lei rispose che non sarebbe potuta tornare da Adamo dopo aver avuto relazioni con i demoni, e che non sarebbe potuta morire in quanto immortale. Ma quando gli angeli minacciarono di uccidere i figli che lei aveva generato con i demoni e Lilith li supplicò di non farlo, promettendo che non avrebbe toccato i discendenti di Adamo ed Eva, se solo si fossero pronunciati i nomi dei tre angeli.

La dea Ishtar - che in uno dei suoi aspetti condivide le sembianze rapaci con Lilith
La dea Ishtar - che in uno dei suoi aspetti condivide le sembianze rapaci con Lilith
Viene descritta come un demone notturno, nelle sembianze di una civetta che lancia il suo grido, si aggira con altri demoni della tempesta e del vento. E’ fonte di grande pericolo per i bambini di sesso maschile (per proteggerli si usavano amuleti con nomi di angeli, oppure si tracciava un cerchio sacro attorno alla culla) e connota gli aspetti della femminilità che la religione ebraica aborriva: l’adulterio, la lussuria e la pratica di arti magiche e stregonesche da parte delle donne.

Le sue forme e la connotazione sensuale e sessuale la avvicinano all’antica dea Ishtar (Astarte o Inanna), divinità dell’amore e della guerra che spesso recava sembianze di donna uccello, conosciuta come “la giovane dea che ama sorridere”. Questa dea, così come poi Aphrodite, praticherà la prostituzione sacra.

Il passaggio da una religione profondamente matriarcale a una di stampo patriarcale vedrà connotare la grande sessualità femminile della dea da fonte di vita, piacere e fecondità a qualcosa di malsano da arginare.
Un’altra figura che concorre a formare il simbolo Lilith è Lamashtu.
Si tratta di un demone metà donna e metà asina o vacca, laddove la vacca rappresenta la lussuria, ma anche la fertilità, al nutrimento. Nelle religioni greche, associate alla vacca erano grandi dee madri come Hera o Europa. Lamashtu era la controparte femminile di Lamassu (riferimenti sempre nel post relativo a Lamashtu: Vampiri nel Medioriente II), il famoso bue alato con volto umano barbuto dell’iconografia assira. Nella cultura greca, la Lamassu diventa la lamia. La sua sola presenza significava distruzione e l’immagine veniva utilizzata come simbolo apotropaico, per incutere terrore e a protezione delle città e degli edifici.

Lilith rapisce i bambini piccoli o ne succhia via il respiro; provoca le eiaculazioni notturne negli adolescenti per cibarsi della loro energia sessuale e del loro sperma. Nei loro letti, poi, genera demoni.

Le zampe da rapace notturno e le ali (oppure, talvolta, una coda di pesce) rimandano all’aspetto con cui conosciamo le sirene. Sono tutte caratteristiche che sottolineano il legame di questa creatura con la luna, astro femminile di luci e ombre.

lunedì 23 dicembre 2019

La birra, un liquido divino


La storia della birra si perde nell'alba dei tempi, tanto che non si ha la certezza assoluta su quale popolo debba ritenersi l'inventore della bevanda. Ne parlano iscrizioni sumere, papiri egizi e addirittura si ricordano tradizioni azteche e cinesi di produzione della birra a partire rispettivamente da mais e riso. 
 Per quanto riguarda l'area mesopotamica, una stele sumera di circa 6000 anni fa documenta l'esistenza della birra. Tra i Sumeri, infatti, esistevano già diverse varietà di birra (chiare, scure, rosse, leggere, forti, ecc.), che era stata inventata, secondo la mitologia, dalla dea Ninkasi. Proprio l'inno a questa divinità costituisce una delle più antiche ricette della birra:

Ninkasi, tu sei colei che cuoce il bappir [pane d'orzo cotto due volte] nel grande forno, 
Che mette in ordine le pile di cereali sbucciati,Tu sei colei che bagna il malto posto sul terreno...
Tu sei colei che tiene con le due mani il grande dolce mosto di malto...
Ninkasi, tu sei colei che versa la birra filtrata del tino di raccolta, 
È [come] l'avanzata impetuosa del Tigri e dell'Eufrate

 Sempre in Mesopotamia, troviamo tracce della birra anche nel codice del re babilonese Hammurabi che, tra le altre cose, regolamentava il comportamento delle ostesse (la birra era infatti venduta solo da donne) nel commercio della birra. Questa bevanda, presso i Babilonesi, aveva un'importanza fondamentale nei riti funebri, durante i quali veniva consumata in onore del defunto in qualità di rito propiziatorio. Inoltre la stessa Ishtar, la dea madre del pantheon babilonese, traeva forza proprio dalla birra.  
 Anche nell'antico Egitto questa bevanda era ricollegata a delle divinità. E non erano divinità qualunque, visto che si trattava di Iside e Osiride, ritenuti gli inventori della birra. Oltre a usare tale bevanda nelle cerimonie funebri, gli Egizi la impiegavano anche a scopo medicinale e nell'alimentazione quotidiana; infatti, perfino i bambini venivano abituati a bere birra, poiché rappresentava sia un nutrimento sia una medicina. Il liquido veniva offerto in particolar modo alle gestanti, per favorire l'allattamento.

 Si può così notare come nel mondo antico questo liquido venisse associato alle divinità femminili della terra e dei cereali. Oltre alla dea babilonese Ishtar, la birra nel mondo romano venne chiamata cerevisia in onore di Cerere, la dea delle messi. Come succedeva spesso nella cultura romana, si trattava della ripresa di una tradizione greca, che prevedeva il consumo della bevanda durante le feste in onore di Demetra, l'equivalente greca della Cerere romana sopra citata. Nonostante nel mondo classico il vino la facesse da padrone, dunque, anche la birra si ritagliò un ruolo importante, soprattutto durante le Olimpiadi, dove agli atleti era proibito bere vino.
 Altre leggende provenienti da vari paesi dimostrano l'esistenza dell'associazione birra-donna in quanto simbolo di fertilità. Una di queste vuole che fosse stata proprio una donna a produrre per prima la birra. Questa si era dimenticata fuori dalla propria abitazione un contenitore con dei cereali durante la pioggia. I cereali macerarono nell'acqua e fermentarono naturalmente grazia al successivo calore solare.
 Una saga nordica narra di un re vichingo che, dovendo scegliere una moglie tra due donne, volle sposare quella che avrebbe prodotto la birra migliore. La futura prescelta invocò Odino, il quale usò la propria saliva come lievito fermentante nella preparazione della bevanda. Da quel momento in poi, la birra fu investita del potere di trasmettere la conoscenza esoterica e la donna doveva vegliare durante il momento della fermentazione.
 Anche in Scandinavia e nelle repubbliche baltiche la donna aveva un rapporto particolare con la birra. Il Kalevala, il più grande poema epico finlandese, nel ventesimo runo parla di Osmotar, la ragazza che scoprì il segreto del processo di fermentazione attraverso l'uso di ingredienti e riti she simboleggiano un'unione mistica sessuale. In Lituania, invece, un rito della fertilità praticato fino al XVI secolo prevedeva che la ragazza più alta del villaggio, in equilibrio su un solo piede sopra una panca, bevesse e offrisse birra al dio Waizganthos, che presiedeva alla crescita delle messi di lino.
 Ovviamente, se le donne potevano propiziare la produzione della birra, potevano anche porre degli ostacoli alla fermentazione, come nel caso delle streghe. In alcuni casi, si pensava che durante particolari giorni del ciclo, le donne esercitassero un'influenza negativa sul lievito, minacciando la buona riuscita della fermentazione.

 La birra però non è associata solo alle figure femminili. Se ci spostiamo verso il nord Europa, infatti, essa si insinua nei rituali e nei miti che non sono necessariamente connessi con la fertilità o con le donne.
 Vi sono diverse leggende che individuano vari personaggi come inventori della birra, quali il mitico re Gambrinus delle Fiandre, Radigost, il dio slavo dell'ospitalità o un certo Charlie Mopps, protagonista di una canzone diffusa nei pub inglesi:

Molto tempo fa, indietro nella storia
quando tutto quello che c'era da bere erano solo tazze di the, 
arrivò un uomo chiamato Charlie Mopps 
ed egli inventò la meravigliosa bevanda, e la fece con il luppolo.
  
 Tacito racconta che tra i Germani c'era l'usanza di bere birra a volontà nelle assemblee prima di deliberare, poiché in questo modo credevano che si favorisse il contatto con gli dèi e i defunti. 
 Inoltre, nella tradizione vichinga la birra è concepita come una bevanda sacra adatta ai guerrieri, poiché poteva conferire loro la forza della terra. Odino stesso raccomandava ai guerrieri di consumarla per favorire le proprie prestazioni durante la battaglia, a patto che poi l'uomo riacquistasse il senno. I guerrieri bevevano la birra in corni con incise rune sacre, di modo che se un nemico vi avesse aggiunto del veleno, il corno si sarebbe spezzato. 
 Sempre nei paesi nordici, vi sono leggende che si intrecciano con gli spiriti maligni. Questi si annidavano nei locali dove si preparava la birra a andavano esorcizzati con spruzzi di mosto e della bevanda stessa. Nel caso questo non bastasse, la notte, nella stanza dove si produceva la birra, veniva lasciato di guardia il gatto di casa, che aveva il compito di scacciare il più malvagio degli spiritelli, Okorei. Costui, infatti, protetto dalle tenebre notturne, rubava la birra e faceva inacidire quella che non riusciva a portare via con sé.  
 In generale, poi, vi era la credenza secondo la quale non si dovevano sbattere le porte o far vibrare i pavimenti di legno della stanza dove si preparava la birra per non "spaventare" il lievito. Ciò era dettato dal fatto che, per far avvenire regolarmente la fermentazione, bisognava evitare ogni corrente d'aria e ogni minimo scuotimento del mosto.    

 Infine, non si può non menzionare la cultura celtica, dove la birra compare praticamente ovunque. Queste popolazioni stimavano molto le proprietà della birra e dei grandi e preziosi calderoni come quello di Gunderstrup, risalente al II secolo a. C., venivano riempiti fino all'orlo della bevanda in occasione di vari rituali.
 Ovviamente, una bevanda così importante a livello religioso, non può essere assente nelle narrazioni e nella mitologia delle popolazioni celtiche. In primo luogo ricordiamo due "signori della birra": Cernunno, il dio degli animali e il fabbro Goibniu, che in Irlanda serviva la birra ai potenti Tuatha Dé Danann, degli esseri divini in possesso di facoltà straordinarie.
 Sempre in Irlanda si narra la leggenda di Mag Meld, un eroe che carpì il segreto della fabbricazione della birra ai terribili Fomori, i dominatori dell'isola prima dell'arrivo degli uomini. Mag Meld svelò il segreto agli antenati degli Irlandesi, che poterono godere delle virtù della mistica bevanda, la quale conferiva ai Fomori forza straordinaria e immortalità. Grazie all'opera di Mag Meld, assimilabile in qualche modo al classico Prometeo, i mostruosi Fomori perdettero il loro potere e vennero in seguito scacciati dall'isola. Proprio da questo eroe prese nome la mitica terra dell'Oltremondo del folklore irlandese, chiamata anche Avalon, Tir Na Nog o Anwynn. Si trattava di una terra sotterranea, dove non esistono né morte né malattie e dove l'esistenza è sempre piacevole e dolce, comparabile a un'eterna primavera.

il 1° Chimico della Storia fu una Donna dell’Antica Babilonia

Tapputi Belatekallim: il 1° Chimico della Storia fu una Donna dell’Antica Babilonia

E’ lunga la lista di scienziate che, con il loro talento e la loro genialità, hanno influito in modo decisivo sul corso della storia. Una fra le più antiche di tutte risale a un’epoca davvero remota, ai tempi dell’antica Mesopotamia, e il suo nome è Tapputi, nota anche come “Belatekallim”, un titolo che significava “sovrintendente donna di palazzo”. Tapputi visse attorno al 1.200 avanti Cristo durante il periodo medio-babilonese, e lasciò tracce di sé e della sua aiutante, nota soltanto per la parte finale del nome “-ninu”, su di una tavoletta cuneiforme scoperta fra le rovine di Babilonia.

Scritta in caratteri cuneiformi e incisa sull’argilla, la tavoletta parla di Tapputi Belatekallim e -ninu, creatrici di profumi alla corte del Re, e cita per la prima volta uno strumento molto particolare:

l’Alambicco

Nell’età del bronzo dell’antica Mesopotamia, il profumo era un prodotto ampiamente utilizzato dalle classi sociali più abbienti, e richiedeva abilità particolari per la sua distillazione. I profumi venivano utilizzati durante le cerimonie religiose, e avevano un forte significato simbolico.

Il profumo e l’incenso erano considerati un ponte tra gli dei e gli uomini, e offrivano la possibilità di comunicare con le divinità. Si pensava inoltre che i profumi dolci fossero graditi agli dei, e quindi i morti venivano trattati con una grande varietà di fragranze per renderne più gradevole il passaggio alla vita eterna.

Realizzare dei profumi in quell’epoca non era semplice, e il lavoro richiedeva una grande abilità e conoscenza delle materie prime da trattare. Oltre al talento, erano fondamentali anche le capacità tecniche nella distillazione delle materie, oltre un attento uso dei componenti, costituiti da oli appositamente preparati, mirra, fiori, resine naturali e altri ingredienti minori, pressati, manipolati e combinati in modo da creare profumi “degni degli dei”.

La tavoletta babilonese fa riferimento a un trattato scritto da Tapputi, la prima opera dell’uomo riguardante la preparazione di fragranze e il primo lavoro sulla chimica nella storia.

Il trattato non è pervenuto a noi moderni, ma i produttori di profumo fecero certamente riferimento alle ricette di Tapputi e -ninu. Fra queste, una è attribuita all’antichissima chimica:

Un balsamo per il re fatto di fiori, olio e calamo, una canna usata spesso per trattare i problemi di stomaco

Tapputi rivoluzionò la preparazione dei profumi, usando i primi solventi in grado di rendere le fragranze più durature e dolci. Il suo ruolo nella storia non fu solo quello di creatrice di profumi, ma fu anche supervisore di palazzo e membro della ristretta corte attorno al Re di Babilonia, una “conferma” all’importanza che le era attribuita dal sovrano in persona.

domenica 22 dicembre 2019

4500 anni fa in Egitto...

"Carezza la tua donna, soddisfa ogni suo desiderio per tutta la vita. Apri le tue braccia così che lei possa trovarvi rifugio. Dille che l'ami e ancora di più dimostraglielo..."
Sembrano parole di oggi, Invece sono state scritte 4500 anni fa, in terra d'Egitto, da quella civiltà che é nota soprattutto per averci lasciato tesori inestimabili in campo artistico, ma che aveva anche una visione assolutamente moderna e paritaria del rapporto tra l'uomo e la donna.

Il Profumo

Gli Antichi ritenevano che il fuoco fosse un dono degli dei e credevano che il fumo odoroso che si liberava dai falò fosse uno strumento di comunicazione tra l’uomo ed il mondo ultraterreno grazie alla sua capacità di diffondersi liberamente negli spazi celesti fino a raggiungere le divinità. Da qui il termine “Profumo”, dal latino per-fumum che significa “attraverso il fumo”.

sabato 21 dicembre 2019

Dieta vegetariana per i gladiatori

I gladiatori romani erano vegetariani in soprappeso che vivevano di orzo e fagioli, secondo uno studio scientifico sul più grande cimitero di gladiatori mai trovato.Analisi delle ossa di più di 70 gladiatori recentemente trovate presso Efeso, la capitale romana dell´Asia Minore, rivede la tradizionale immagine hollywoodiana dei carnivori pieni di muscoli con un fisico da pugile.
Le scoperte circa la dieta degli antichi combattenti, effettuati dagli scienziati dell´Università di Vienna, saranno spiegate nel dettaglio in un documentario per un canale televisivo inglese, e ci potrebbero essere delle sorprese.
L´immagine stereotipata deve essere ulteriormente modificata in quanto i gladiatori combattevano a piedi nudi e non in sandali.
L´autopsia di massa al sito sepolcrale lungo la costa occidentale della Turchia ha sfidato l´assunto generalmente riconosciuto, che l´allenamento di un gladiatore fosse brutale quasi come il contesto.
Gli antichi mosaici romani ritraggono i gladiatori come uomini forti e tarchiati, ma gli storici tendono a considerare questo come un tributo alla loro immagine di virilità, piuttosto che un ritratto letterale della loro taglia.
Nel frattempo, gli esperti sono stati incuriositi dai paralleli riferimenti ai gladiatori come "assidui consumatori d´orzo".
Karl Grossschmidt, antropologo forense all´Università di Vienna, ha usato test chimici sulle ossa, per scoprire che i gladiatori si attenevano ad una dieta di orzo e fagioli per irrobustirsi. Era certo un´alimentazione piuttosto poco variata, ha ammesso. "Avevano sufficienti quantità di questi alimenti ogni giorno per renderli grandi e forti" ha dichiarato. Ha concluso che pianificassero una dieta simile primariamente per proteggersi da ferite e tagli e danni ai nervi ed ai vasi sanguigni, con lo strato di grasso che suppliva all´assenza di armatura.
Il dr. Grossschmidt ha notato dall´analisi delle ossa che, contrariamente alle usuali finalità dell´allenamento intensivo, i gladiatori mettevano su peso prima di un incontro, piuttosto che tentare di perderlo.
Campioni di ossa sono stati sottoposti ad analisi chimiche. In una dieta equilibrata, composta di carne e vegetali, si sarebbero evidenziato livelli bilanciati di zinco e stronzio; le ossa dei gladiatori erano invece alquanto elevate in stronzio, e basse di zinco, un´altra indicazione di dieta vegetariana.
La densità del tessuto osseo era significativamente più elevata del normale, esattamene quel che si trova nei moderni atleti, ha dichiarato. L´allargamento delle ossa era particolarmente spiccato nei piedi  prova del fatto che combattessero a piedi nudi nella scivolosa sabbia dell´arena.
Gli storici hanno a lungo discusso quali conseguenze implicasse la scelta della "Morte", in lungo della "Grazia" al termine degli incontro di lotta. Il Dr Grossschmidt ha scoperto una serie di graffi sulle spine dorsali dei gladiatori caduti. Ritiene che significhino tentativi di accoltellarli al cuore dalla gola.
"Questa" conclude "è la prova che il pollice verso era, in effetti, un´istruzione fatale  conficcare la spada giù per la gola e fino al cuore del perdente.

Tristano e Isotta la Leggenda



Quella di Tristano e Isotta è la più celebre storia d’amore del Medioevo. Ispirata a leggende dei popoli celtici, forse trovò una prima elaborazione scritta alla corte di Enrico II Plantageneto e di Eleonora d’Aquitania subito dopo la metà del XII secolo.
La versione originaria è andata perduta, come sono andate perdute, o sono giunte molto frammentarie, le opere che a essa si ispiravano (quella di Chrétien de Troyes ad esempio). La storia di Tristano e Isotta ebbe un successo e una straordinaria diffusione. Secondo il modo di produzione del testo tipico del Medioevo, infatti, il suo contenuto si modificava di volta in volta, entrava nella memoria dei lettori e degli ascoltatori e diventava materia di nuove compilazioni: così, fra il XII e il XIII secolo, il romanzo di Tristano e Isotta dette origine a una ricca fioritura di testi e soprattutto a un romanzo in prosa, che fa confluire nella storia di Tristano anche quella di Lancillotto (fu questo testo ad avere maggiore fortuna nel Medioevo).

Tristano, nipote di re Marco di Cornovaglia, vive alla corte dello zio compiendo grandi imprese. Un giorno parte alla ricerca della fanciulla a cui appartiene il capello biondo lasciato cadere da una rondine: lo zio, re Marco, la vuole in sposa.
Approda in Irlanda, uccide un drago e ottiene per il re la mano di Isotta la Bionda a cui appartiene il capello. Durante il viaggio, Tristano e Isotta bevono per sbaglio il filtro d’amore destinato a re Marco. Una passione fatale legherà d’ora in poi i due giovani amanti.
Ricorrono a diversi espedienti per tenere segreto il loro amore, a cominciare dalla sostituzione di Isotta la Bionda con l’ancella Brangania la prima notte di nozze. Alla fine sono scoperti: Tristano è condannato a morte e Isotta è abbandonata ai lebbrosi. Ma una spettacolare fuga di Tristano salva Isotta e i due si rifugiano nella foresta di Morrois.
Un giorno re Marco, andando a caccia, li sorprende mentre dormono: i loro corpi sono separati dalla spada di Tristano. Il re commosso da questo segno di innocenza, richiama a corte Isotta e manda in esilio Tristano.
Tristano fugge in Bretagna, dove incontra e sposa Isotta dalle Bianche Mani, ma non riuscirà mai ad amarla; pensa sempre a Isotta la Bionda e fa più volte ritorno alla corte di re Marco, travestito ora da mercante, ora da pellegrino, ora da mendicante pazzo, pur di rivederla. Ormai senza speranze, Tristano si lancia in imprese temerarie e, infine, resta ferito a morte. Solo Isotta la Bionda può guarirlo e Tristano la manda a chiamare: il suo arrivo sarà annunciato da una nave con le vele bianche. Arriva nel porto la nave con Isotta, ma la moglie, spinta dalla gelosia, mente e annuncia a Tristano che la vela è nera. Tristano allora si lascia morire. Isotta, scesa dalla nave, cade morta di dolore al suo fianco.

La mummia seduta

Ricordiamo in proposito il raccapricciante episodio di cui fu protagonista, millenni dopo la sua morte, il faraone Ramsete II, che regnò in Egitto durante la cattività degli Ebrei e che è ospitato sin dal 1886 al Museo Nazionale del Cairo. Un pomeriggio particolarmente afoso e umido, il numeroso pubblico presente nella sala di Ramsete II udi’ un forte scricchiolio seguito dal rumore forti  di vetri infranti e, voltosi verso il feretro del sovrano, vide uno spettacolo davvero impressionante: la mummia del faraone, distesa nel sarcofago, s’era d’improvviso alzata a sedere, aprendo la bocca come per gridare, volgendo di scatto il capo a nord, spalancando le braccia incrociate sul petto e fracassando con la destra la vetrina.
Alcuni visitatori svennero, altri, precipitandosi verso l’uscita caddero per le scale, altri ancora, per far più presto, saltarono dalle finestre. Vi furono decine di feriti, il guardiano della sala si licenziò senza che gli si potesse trovare un sostituto, il governo egiziano dovette pagare forti indennità agli infortunati, ed il museo venne a lungo disertato dal pubblico, timoroso di vedersi cadere il palazzo sulla testa. 
Tuttavia non successe più nulla, e gli esperti chiarirono subito la causa del fenomeno, d’altronde non unico: la mummia, abituata all’aria fredda e asciutta della camera sepolcrale sotterranea aveva semplicemente subito gli effetti del mutamento climatico, reagendo a quel modo all’umida afa del Cairo. Ma oggi (la prudenza non  mai troppa) essa riposa col capo rivolto a settentrione, proprio come aveva prescritto la preghiera sepolcrale.
Da “Terra senza tempo” di Peter Kolosimo.

venerdì 20 dicembre 2019

YULE - il solstizio d'Inverno


L'etimologia della parola "Yule" (Jól) non è chiara. È diffusa l'idea che derivi dal norreno Hjól ("ruota"), con riferimento al fatto che, nel solstizio d'inverno, la "ruota dell'anno si trova al suo estremo inferiore e inizia a risalire". I linguisti suggeriscono invece che Jól sia stata ereditata dalle lingue germaniche da un substrato linguistico pre-indoeuropeo. Nei linguaggi scandinavi, il termine Jul ha entrambi i significati di Yule e di Natale, e viene talvolta usato anche per indicare altre festività di dicembre. Il termine si è diffuso anche nelle lingue finniche per indicare il Natale (in finlandese "Joulu"), sebbene tali lingue non siano di ceppo germanico.

Non si sa molto sulla festa di Yule nella tradizione nordeuropea. È certo che la celebrazione avveniva durante il solstizio invernale in epoca precristiana. Nonostante vi siano numerosi riferimenti a Yule nelle saghe islandesi, vi si trovano solo pochi e parziali resoconti circa la natura delle celebrazioni. Si trattava comunque di un periodo di riposo e danze, che in Islanda continuò a essere celebrato per tutto il Medioevo, fino all'epoca della Riforma. Si sa anche che durante la festa avveniva il sacrificio di un maiale in onore del dio norreno Freyr, una tradizione che è rimasta nella cultura scandinava, in cui a Natale si consuma carne di maiale.

Lo storico francese Michel Rouche riporta che le confraternite di artigiani del IX secolo (che in seguito divennero gilde), furono denunciate dal clero cattolico per i loro patti di reciproco sostegno, formulati in banchetti annuali che si tenevano il 26 dicembre, "giorno di festa del dio pagano Jul", in cui venivano evocati demoni e spiriti dei morti.

L'etimologia del termine gilde sembra essere gi(u)l-day.

Quando i missionari iniziarono la conversione dei popoli germanici, adattarono alla tradizione cristiana molti simboli e feste locali (fu lo stesso Gregorio Magno, tra gli altri, a suggerire apertamente questo approccio alle gerarchie ecclesiastiche). La festa di Yule venne quindi trasformata nel Natale, mantenendo però alcune delle sue tradizioni originarie. Fra i simboli moderni del Natale che parrebbero derivare da Yule compare, fra l'altro, l'uso decorativo del vischio e dell'agrifoglio e l'albero di Natale (anche se, probabilmente, la tradizione dell'albero di Natale è collegata al mito di Attis - Cibele: un tempo l'anno nuovo iniziava all'equinozio di primavera, in gran parte dei paesi mediterranei: a Roma il 21 marzo si addobbavano grandi pini in omaggio all'anno nuovo e alla nuova stagione). Così come gli alberi da frutta, anche i sempreverdi sono un elemento fondamentale delle celebrazioni del solstizio invernale. L'albero sempreverde, che mantiene le sue foglie tutto l'anno, è un ovvio simbolo della persistenza della vita anche attraverso il freddo e l'oscurità dell'inverno. La birra e il pane venivano offerti agli alberi in Scandinavia. L'albero di Yule rappresentava la fortuna per una famiglia così come un simbolo della fertilità dell'anno che sarebbe arrivato.

Nella Wicca Yule è una delle feste minori degli otto Sabbat e viene festeggiata il 21 dicembre. In alcune tradizioni si commemora la morte dello Holly King ("Re Agrifoglio") che simboleggia l'anno vecchio ed il sole al declino, per mano del suo successore, Oak King ("Re Quercia"), che simboleggia l'anno nuovo ed il sole che inizia la sua ascesa. In altre tradizioni si celebra la nascita del nuovo dio Sole bambino, (vedi anche l'antica festività Romana del Sol Invictus).

Il rituale tradizionale è una veglia celebrata dal tramonto all'alba successiva (la notte più lunga dell'anno) per assicurarsi che il sole sorga nuovamente. Fra i sabbat neopagani, Yule è preceduto da Samhain e seguito da Imbolc.

Poiché, nell'emisfero meridionale, Natale cade nel periodo più caldo dell'anno, alcuni australiani celebrano una seconda festa nel solstizio d'inverno a giugno; questa festa è nota come Yulefest.

mercoledì 18 dicembre 2019

I Saturnali

I Saturnali erano un ciclo di festività della religione romana, dedicate all'insediamento nel tempio del dio Saturno e alla mitica età dell'oro. In epoca imperiale si svolgevano dal 17 al 23 dicembre, periodo fissato da Domiziano.
I saturnali avevano inizio con grandi banchetti e sacrifici. I partecipanti usavano scambiarsi l'augurio io Saturnalia, accompagnato da piccoli doni simbolici, detti strenne.

Durante questi festeggiamenti era sovvertito l'ordine sociale: in un mondo alla rovescia, gli schiavi potevano considerarsi temporaneamente degli uomini liberi, e potevano comportarsi di conseguenza; veniva eletto, tramite estrazione a sorte, un princeps - una sorta di caricatura della classe nobile - a cui veniva assegnato ogni potere.

Tuttavia la connotazione religiosa della festa prevaleva su quella sociale e di "classe". Il "princeps" era in genere vestito con una buffa maschera e colori sgargianti, tra i quali spiccava il rosso (colore degli dèi). Era la personificazione di una divinità infera, da identificare di volta in volta con Saturno o Plutone, preposta alla custodia delle anime dei defunti, ma anche protettrice delle campagne e dei raccolti.

In epoca romana si credeva che tali divinità, uscite dalle profondità del suolo, vagassero in corteo per tutto il periodo invernale, quando cioè la terra riposava ed era incolta a causa delle condizioni atmosferiche. Dovevano quindi essere placate con l'offerta di doni e di feste in loro onore e indotte a ritornare nell'aldilà, dove avrebbero favorito i raccolti della stagione estiva. Si trattava insomma di una sorta di lunga "sfilata di carnevale".

L'equivalente greco del dio romano Saturno era Kρόνος, Krono, il padre di Zeus. Quando i Romani sovrapposero Saturno a Kronos, la divinità ellenica era già da tempo assimilata a Xρόνος, Chrònos, il tempo che scorre. Tale associazione ha generato la figura di Saturno come sovrano di una mitica Età dell'Oro. Esiliato da Zeus e dagli Olimpi suoi figli al termine della Titanomachia, si diceva che Krono avesse spostato il suo regno in un luogo che, Greci prima e Romani poi, chiamavano "Isole Beate".

martedì 17 dicembre 2019

I Pelasgi, discendenti dagli dei.

Il mito li vuole discendenti dagli Dei e la storia ufficiale li identifica con le popolazioni preistoriche autoctone della penisola balcanica che lentamente si evolvettero in quelli che conosciamo come Greci. Di fatto archeologicamente, linguisticamente, geneticamente non esistono popoli dei Pelasgi, ma i tratti distintivi della loro cultura, tramandati dagli storici, sono identificabili in moltissime aree del nostro pianeta. Dunque chi erano i Pelasgi? Un enigma vasto, intricato e soprattutto carente di documentazione.
Il naturalista Alexander Von Humboldt (1769 – 1859) botanico tedesco diceva: “... i pre-ellenici abitanti Pelasgi d'Arcadia si definivano Preseleni, perché si vantavano di essere venuti al mondo prima che la Luna accompagnasse la Terra. Pre-ellenica e pre-lunare erano sinonimi”. E ancora: “Nei tempi più remoti, prima che la Luna accompagnasse la Terra, secondo la mitologia degli indiani Muysca o Mozca, gli abitanti della piana di Bogotà vivevano come barbari, nudi, senza alcuna forma di leggi o di culto religioso”.

domenica 15 dicembre 2019

Il mito di Chirone



Solo il guaritore ferito può guarire” Jung


Carl Gustav Jung diceva che il “terapeuta può guarire gli altri nella misura in cui è ferito egli stesso”. L’archetipo del guaritore ferito era quello di Chirone (wiki) centauro e personaggio della mitologia greca, considerato il padre della medicina.chironegr.gif
Qui la storia:
Chirone è figlio di Crono e di una Ninfa, ed è un centauro anche se, a differenza dei suoi simili, è gentile e benevolo e sapiente.
Rifiutato dai suoi genitori (primo trauma), cresciuto da Apollo, Chirone non solo è una creatura generosa e delicata, ma è anche colto, e conosce l’arte medica; è talmente bravo che questa diviene suo mestiere ed è tutore addirittura di alcuni dei dell’Olimpo.
Solo che, a un certo punto, una freccia lo ferisce gravemente, una ferita che non guarirà mai. Il dolore è enorme, tanto che Chirone decide di rinunciare alla propria immortalità piuttosto che convivere con questa pena straziante.
Nell’inutile ricerca di una guarigione per se stesso, Chirone diviene esperto di erbe medicinali, conosce la sofferenza e fa sì che la sua lacerazione impossibile da risanare possa servirgli per aiutare gli altri.
Mette a disposizione ciò che ha imparato a servizio di chi è attorno, divenendo appunto il “guaritore ferito”
Proprio attraverso la sofferenza che Chirone impara l’arte della cura e a tenere sempre presente la propria ferita, che è simbolicamente lo spazio attraverso cui il dolore e la sofferenza possono entrare in lui.
Come Chirone, così il terapeuta può comprendere la sofferenza dell’altro solo riconoscendo e integrando la propria sofferenza, non come debolezza o fragilità, ma come forza e strumento per poter lasciare entrare ed entrare in contatto con l’altro.
Spesso sembra che il terapeuta sia entità astratta che ha in sé le tecniche e gli strumenti appresi teoricamente per poter guarire l’altro, che possiede la verità, immune dalla sofferenza, infallibile. In realtà un buon terapeuta è un uomo o una donna ferito/a, che è entrato in contatto con la propria sofferenza e che ci ha “fatto i conti”, che l’ha affrontata, l’ha integrata, e da questa ferita ha trovato la via per prendere contatto con le ferite altrui. 
La domanda è: qual’è la mia ferita che sta alla base del desiderio di aiutare gli altri?
Non intendo né essere definito terapeuta, né (ancor peggio) usare il termine guaritore.
Ho sentito risuonare in me la frase di Jung nell’ambito della Biodinamica Craniosacrale. E definendomi un educatore somatico, o un facilitatore, o ancor più semplicemente con una capacità di presenza, ascolto e accoglienza.
Mi interrogo sulla mia ferita e mi rendo conto che non c’è né una specifica, ma un evolversi di lacerazioni, strappi più o meno violenti che si susseguono e toccano diverse aree e parti del corpo-mente-spirito, alimentati dalla ferita originaria della separazione.
Paolo Maderu Pincione

sabato 7 dicembre 2019

Ancora sulla costruzione del Natale cristiano

Laura Fezia
ANCORA SULLA COSTRUZIONE DEL NATALE CRISTIANO
Nel mese di dicembre i Paesi occidentali vengono ipnotizzati dall’imminente celebrazione del Natale. Le aziende e i centri commerciali, addirittura, iniziano ben prima a sbandierare pubblicità di sapore natalizio o a offrire articoli per addobbare la casa, organizzare cene, spendere in regali.
Già: i regali. Sono certamente il piatto forte delle cosiddette “feste”, quello sul quale si fiondano i commercianti per realizzare incassi che, spesso, rappresentano il 90% del fatturato annuale di un piccolo o medio negozio.
Ma l’usanza dei regali di Natale non è un’invenzione recente: come tutto ciò che concerne la più importante festività occidentale affonda le sue radici in un tempo molto lontano.
Abbiamo già visto in precedenza (e chi non sa di cosa stia parlando può andarsi a ripescare i post del 21/11 e del 27/11) come la data del 25 dicembre fu fissata dalla Chiesa per sostituire la celebrazione dei Saturnalia, feste pagane nate intorno al solstizio d’inverno in uso nell’antica Roma dal 17 al 21 dicembre, con un prolungamento fino al 25 per il “Dies Natalis Solis Invicti”.
I Saturnalia traevano il loro nome da Saturno, padre di Giove, che si favoleggiava fosse stato il signore della mitica Età dell’oro. In quel periodo, venivano rivoluzionate tutte le regole sociali: gli schiavi si sostituivano ai padroni, si organizzavano BANCHETTI che spesso si trasformavano in orge, veniva eletto una sorta di “re” della festa che sfilava vestito di rosso ed era simbolicamente sacrificato al termine delle celebrazioni. Inoltre, c’era lo SCAMBIO DI REGALI: sia da parte degli schiavi ai padroni per conquistarne la benevolenza, sia per blandire le anime dei defunti, attirate dai clamori dei festeggiamenti a varcare la soglia che separa il regno dei morti da quello dei vivi.
L’organizzazione di banchetti (che oggi finiscono in una tombolata, più morigerata di un’orgia) e lo scambio di regali, dunque, sono rimasti nella celebrazione del Natale cristiano.
Ma ci sono alcune tradizioni natalizie inventate ex novo per colpire l’immaginario popolare e altre che appartengono a culture del tutto estranee al cristianesimo.
Partiamo dalla più nota, ossia il presepe e per prima cosa chiariamo che il termine non significa «rappresentazione della nascita di Gesù» come la maggior parte del pubblico è indotta a credere, ma – dal latino “praesepe” – vuole dire “mangiatoia/stalla/recinto per gli animali” . E ci hanno anche raccontato che il primo “presepe” fu organizzato da Francesco d’Assisi a Greccio nel 1223. È vero… ma ricordiamo cosa significa “presepe”: nella rappresentazione di Francesco, infatti, c’erano solo la mangiatoia, un bue e un asino, niente Divin bambinello, niente Maria, niente Giuseppe, niente pastori né Re Magi. Tutto il contorno fu aggiunto successivamente, ricordando quale effetto scenografico avevano realizzato coloro che si erano recati ad ammirare il presepe francescano illuminando il set con le fiaccole.
Ma c’erano davvero un bue e un asino a riscaldare il neonato Gesù? Certamente no. Luca, l’unico che parla di una mangiatoia/stalla, non li cita; a maggior ragione non lo fa Matteo, il quale afferma che i Re Magi trovarono il pupo in una casa «con Maria sua madre». Dunque da dove sono spuntati i due animali? Tanto per cambiare, da un’interpretazione di comodo di un passo di Isaia (1,3), che non si è mai sognato di profetizzare la venuta del Messia e da una errata traduzione di un passo del profeta Abacuc (3,2), dove la frase ebraica «nel mezzo del tempo» nella Bibbia dei Settanta era stata tradotta «in mezzo a due animali», confondendo due parole greche quasi identiche (ζωῷον e ζῷον). Di bue e asinello, infatti, si parla nel vangelo dello Pseudo-Matteo e nel protovangelo di Giacomo, due testi apocrifi databili al VIII/IX secolo il primo e al II/III secolo il secondo.
Nel racconto della nascita di Gesù, quella rappresentata – seppur brevemente – nei vangeli di Luca e Matteo, però, c’è un’altra stranezza: si tratta di quel censimento che avrebbe indotto Giuseppe e Maria, incinta al nono mese, a lasciare Nazareth e la Galilea per recarsi a Betlemme, in Giudea, affrontando un viaggio irto di pericoli. Nell’Impero romano i censimenti venivano ordinati per motivi fiscali o militari, ma senza obbligare le folle a spostarsi: era sufficiente rilasciare una dichiarazione a un incaricato locale circa la propria situazione patrimoniale e famigliare. Mai nessun imperatore ne organizzò uno imponendo alla gente di trasferirsi nei rispettivi luoghi di provenienza, per tornare poi nei posti dove aveva preso residenza o domicilio. Luca cita esplicitamente «un editto di Cesare Augusto che ordinava un censimento di tutta la terra» (Lc 2, 1). Tuttavia risulta che Augusto indisse tre censimenti universali: nel 28 a.C., quando ancora non era imperatore, nell’8 a.C. e nel 14 d.C.; sempre sotto il suo regno, furono banditi alcuni censimenti provinciali e ormai è assodato che Luca fa riferimento a quello del governatore Publio Sulpicio Quirino, che riguardò la Siria e la Giudea, avvenuto, però, sei anni dopo la nascita di Gesù. Inoltre, cosa poteva importare ai Romani che Giuseppe appartenesse alla Casa di Davide, una classificazione che interessava strettamente il mondo ebraico? Infine, il censimento di Quirino fu di tipo fiscale, riguardò, cioè, non le persone, ma i loro beni: Giuseppe possedeva forse delle proprietà a Betlemme che era necessario censire? In tal caso, ossia se fosse stato un ricco possidente, avrebbe forse avuto la possibilità di viaggiare e alloggiare più comodamente, soprattutto con una moglie alle soglie del parto ed è anche curioso che la coppia abbia intrapreso il lungo cammino da sola, senza aggregarsi a una carovana, come era consuetudine dei viaggiatori per evitare gli assalti dei predoni.
Insomma: il Natale cristiano è stato costruito ad arte non solo per sostituire i Saturnalia, ma anche per provocare nel gregge quel senso di colpa evocato da un bambino che nasce «in una grotta al freddo e al gelo» dopo che ai suoi genitori era stato negato il conforto di un alloggio. L’apoteosi di questo quadretto di sofferenze avverrà a Pasqua con la crocifissione.
Ci sono molti altri particolari del Natale cristiano che non tornano: ma, come sempre, questa è un’altra storia che racconterò in seguito.

Dal Malleus Malleficarum


Una delle tecniche di tortura in voga presso Santa Romana Chiesa, nel periodo che va dal 1480 al 1650, inflitte alle streghe ed agli eretici, consisteva nel prendere un topo vivo e di inserirlo nella vagina o nell’ano con la testa rivolta verso gli organi interni della vittima e spesso, l’apertura veniva cucita. La bestiola, cercando affannosamente una via d’uscita, graffiava e rodeva le carni e gli organi dei suppliziati.