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lunedì 27 giugno 2022

Medea nel paese delle streghe

 Medea nel paese delle streghe


di P4ietro Citati 


O sono come fantasmi, ombre, anch’esse inconsistenti. O come sogni, o come fumo. Non hanno più energia, né coscienza vitale, né intelligenza, né sangue, né memoria, né speranza. Quale oscuro desiderio di vita le inquieta, quale nostalgia di essere nuovamente come noi, di parlare con noi, di camminare con noi, di stringerci al petto. Sognano soltanto il latte, il miele, il vino, l’acqua, il sangue, che darà loro, per qualche ora, l’apparenza di esseri umani. L’estremo Oriente, verso il quale muovono gli Argonauti, è il regno di Elios, il Sole: «il multiveggente padre degli occhi» , l’infaticabile auriga, l’instancabile testimone, che vede e ascolta tutte le cose. Ogni mattina Elios si leva nel Paese dell’aurora: la Colchide— la Georgia di oggi. Tutto vi sovrabbonda e trabocca d’oro, che è il segno trionfale del Sole. Il palazzo è pieno d’oro; così le stalle, dove la notte vengono rinchiusi i cavalli, che una volta hanno rischiato di ardere il mondo: il simbolo della regalità è l’oro; i fiumi e i corsi d’acqua sono pieni d’oro, che i Colchi raccolgono con pelli di montone. Anche gli esseri umani, o semidivini, sanno d’oro, il quale è vita e linfa. Il re Eeta, figlio di Elios e protetto da Ares: Circe, sorella di Eeta, che non sappiamo quando e per quale ragione è fuggita verso Occidente, nell’isola boscosa di Eea, dove tesse cantando «un ordito sottile, pieno di grazia e di luce» ; Medea e Apsirto, figli di Eeta, hanno un dono in comune: il lampo degli occhi, che brillano e irradiano davanti a loro «fuochi simili a quelli dell’oro» . Sebbene riempia di luce e d’oro i palazzi, i fiumi e gli occhi, il Sole ha un rapporto segreto con tutto ciò che, nell’universo, è tenebroso, infernale, stregonesco. Quando hanno superato il Capo Acherusio, gli Argonauti incontrano nel Mar Nero la grotta dell’Ade, avvolta da rocce e foreste: senza tregua essa esala dal profondo un soffio gelido, che «tutt’intorno crea la candida brina» . Lì vicino, il fiume Acheronte si getta nel mare. Non sappiamo (o almeno non so) se questo Ade e questo Acheronte siano gli stessi che Ulisse ha incontrato nel suo viaggio notturno: o se invece esista un secondo Ade, un secondo Acheronte, di cui non abbiamo nessuna notizia precisa. In ogni caso, se gli Argonauti vogliono raggiungere il Paese del Sole, devono oltrepassare il mondo della morte. La Colchide è un paese di draghi e di streghe. Il più possente tra questi draghi occupa il bosco di querce sacro ad Ares. Esso è figlio della terra fecondata dal sangue del mostro Tifone: un fuoco feroce gli brucia negli occhi glauchi; tre lingue gli vibrano in bocca; il corpo, coperto di scaglie, è tortuosissimo, tutto volute, spirali ed anelli, che si muovono e si agitano di continuo; soffia terribilmente; e questo soffio risuona lungo il fiume Fasi e nella foresta, tenendo nel terrore i Colchi. Appeso ad una quercia, sta il vello d’oro di un ariete. Grande come la pelle di una giovenca, emana una luce simile a quella della luna piena, che si confonde con il rosseggiare degli occhi del drago. Esso incarna la sovranità regale di Eeta e della sua famiglia. Con le sue fila di denti acutissimi, il drago tiene stretto il vello d’oro nelle mascelle: lo sorveglia giorno e notte, senza addormentarsi mai, perché mai il talismano della regalità deve abbandonare la Colchide. Come la Tessaglia, la Colchide è il Paese della stregoneria. La sua regina è Ecate, signora lunare dei morti e della magia, che si aggira nella notte coperta da un abito nero. Il suo capo è cinto da serpenti, intrecciati con rami di querce, le sue fiaccole lampeggiano: intorno ululano i cani infernali; e le erbe tremano al suo passaggio, mentre le Ninfe delle paludi gettano un grido. Se Ecate si nasconde, la sostituisce Medea, che secondo una tradizione è sua figlia. La luna è il suo astro. Quando rifulge pienissima guardando la terra, nel cielo c’è una quiete profonda, che scioglie in un solo brusio le voci di uomini, uccelli e fiere: le fronde silenziose sono immobili; l’aria umida tace; e solo le stelle hanno un palpito. Medea esce dal palazzo di Eeta a piedi nudi, con la veste slacciata, le spalle coperte dai capelli sciolti e avanza sola, nel silenzio di mezzanotte. Tende le braccia verso le stelle, gira tre volte su se stessa, tre volte si bagna la chioma, tre volte schiude le labbra. Piega il ginocchio a terra, innalzando alla notte l’inno più dolce, molle e affascinato che il mondo classico abbia mai inteso. «Notte, fedelissima ai sortilegi, astri splendenti, raggi della luna, Ecate dalle tre forme, che vieni in aiuto alle formule e alle arti dei maghi, e tu, o Terra, che ci insegni erbe potenti, e voi brezze e venti e monti e fiumi e laghi, e voi, dei delle foreste e della notte, assistetemi» . L’immenso vocativo alla Notte e alla Terra culmina con l’enumerazione delle arti di Medea. «Col vostro aiuto, quando voglio, i fiumi ritornano alla fonte, fermo il mare mosso, muovo il mare fermo, scaccio le nuvole, ammasso le nuvole, scateno i venti, richiamo i venti, apro le fauci delle vipere, vivifico i sassi e li muovo, induco i monti a tremare, tiro la luna giù dal cielo, irrigidisco il corso delle stelle, faccio impallidire il carro del sole, fiorire la terra in piena estate, riempire di luce le foreste più ombrose, colmare di messi la terra in pieno inverno. Ringiovanisco i corpi stremati dei vecchi, diffondo filtri e farmaci e un sopore che addormenta e blocca ogni cosa» . Quando canta il suo canto di strega, Medea sembra una ragazza, una tenera Nausicaa: eppure la sua mente non inorridisce davanti a nessuna visione, il suo animo non teme di compiere nessun delitto. Su in alto, in fondo alla Colchide, sta il Caucaso, «elevato sino al gelo dell’Orsa» , al quale è ancora incatenato Prometeo. Mentre percorrono il Mar Nero, gli Argonauti vedono l’aquila, «il cane alato di Zeus» , volare alta sopra la nave, sconvolgendo le vele col battito delle ali e gettando uno stridore acuto. Poco dopo, dietro le rocce, odono il lamento di Prometeo: l’aquila morde il suo fegato, lo strazia e lo divora; l’aria risuona di gemiti; finché l’aquila si scaglia di nuovo sulla sua vittima indifesa. Il sangue di Prometeo cola a terra sulla montagna; e da quel sangue nasce un fiore alto, che ha il colore dello zafferano, un doppio stelo, e la radice come carne viva. Medea taglia la radice: Prometeo è legato al fiore, che è ancora una parte del suo corpo, e geme, angosciato dalla sofferenza. Dalla pianta Medea trae un filtro nero, che ricorda il succo delle querce, e lo chiude in una conchiglia del Caspio. Così anche Prometeo, la vittima colpevole di Zeus, collabora alle arti della magia. ***Nei tempi antichissimi, Zeus sventò, in Beozia, un crimine orrendo. Nel Paese, per colpa di Ino, la seconda moglie del re Atamante, si era diffusa la carestia: Atamante fece consultare l’oracolo di Delfi; e un falso messaggio decretò che la sterilità della terra sarebbe cessata, se si sacrificava a Zeus Frisso, figlio di Atamante. Mentre stava per uccidere il figlio, intervenne Eracle, che gli strappò dalle mani il coltello sacrificale. «Il padre mio, Zeus— disse— odia i sacrifici umani» . In quel momento, Ermes inviò dall’Olimpo, per ordine di Zeus e di Era, un ariete alato e dorato. Frisso salì sull’ariete, che attraversò i cieli sopra la Grecia, l’Ellesponto, il Mar Nero, fino a giungere nella Colchide. Il re Eeta accolse Frisso, offrendogli la figlia in sposa. In segno di gratitudine e venerazione, Frisso sacrificò a Zeus l’ariete, che salì vertiginosamente in cielo, diventando una costellazione: la costellazione che porta il suo nome. Quanto al vello d’oro, lo offrì a Eeta: come se soltanto un re solare potesse conservare e difendere il talismano dorato della regalità. Zeus voleva che il vello d’oro ritornasse in Grecia, assieme all’ombra di Frisso: solo allora il sacrilegio di Atamante sarebbe stato cancellato e la Beozia avrebbe conosciuto una nuova prosperità. Giasone, figlio di Esone, re della Tessaglia, accolse il suggerimento di Zeus, invitando i più famosi eroi della Grecia, tra i quali Eracle ed Orfeo. Atena costruì, o fece costruire, Argo, la prima nave della storia. Era una nave magica, di cui una trave, appartenuta alla quercia di Dodona, aveva il dono della parola e della profezia. Tutto avveniva sotto la protezione degli dei: eppure la costruzione di Argo ferì a morte l’età dell’oro, quando gli uomini non solcavano i mari sconvolgendo la quiete originaria del mondo. La nave partì verso le rive orientali del Mar Nero. Il viaggio fu lungo e faticoso, pieno di avventure, rischi e pericoli: ma Argo avanzava rapida, con le vele che si gonfiavano al vento, come «lo sparviero avanza veloce nell’alto, con le ali aperte e ferme nel cielo puro» . Giasone raggiunse la Colchide e la foce del fiume Fasi, che si avventava furiosamente nel mare. Quando si addentrò nel fiume, vide un filare di pioppi e la tomba di Frisso. «Per il sangue — gridò — per i dolori che ci congiungono, Frisso, fammi da guida in questa impresa, ti supplico: su questi lidi, proteggimi…» . Infine, Giasone incontrò Medea. Non sapeva nulla di lei. Non sapeva che, in leggende antichissime, era stata una dea madre, una dea ctonia, forse l’ipostasi di Demetra. Non sapeva nemmeno che Era e Afrodite volevano che Medea si innamorasse di lui. Mentre i due si incontravano, Eros tese il suo arco, scagliando una «freccia intatta, apportatrice di pene» , e si insinuò in segreto nel cuore della ragazza. Afrodite tentò un incantesimo per mezzo del torcicollo, l’uccello del delirio amoroso: legò le ali e le zampe dell’uccello ai raggi di una ruota mobilissima, rivolta verso il cuore di Medea, mentre pronunciava formule magiche. Giasone non vedeva in Medea nulla di divino e di stregonesco: scorgeva soltanto una ragazza con gli occhi luminosissimi, che irradiavano «fuochi simili a quello dell’oro» . Quanto a Medea, che conosceva quasi tutte le cose, ignorava la passione d’amore. Quando vide per la prima volta Giasone, fissò su di lui uno sguardo obliquo, scostando il velo che le copriva il volto: il viso, gli abiti, le parole e i gesti di Giasone la affascinarono per sempre. Il volto di Medea arrossiva e splendeva di gioia. Il cuore le batteva in petto, acceso da una fiamma incancellabile. Temeva che lui morisse; e lo piangeva come se fosse già morto. Ma non si abbandonava alla passione, perché la sua coscienza acutissima non smetteva mai di sorvegliarla. Era divisa, separata. Il desiderio, la vergogna, il pudore, il fortissimo senso di colpa, si combattevano nel suo animo. I sentimenti si alternavano e oscillavano. Non conosceva requie. Ora temeva che Giasone fuggisse, tornando in Grecia. Ora voleva fuggire con lui, come sua sposa. Ora non voleva abbandonare il padre, la sorella, il fratello, Ecate, il Sole. Il matrimonio le sembrava un delitto: l’amore una terribile colpa. La notte, quando il silenzio possedeva la terra, Medea si rifugiava nella sua stanza. Non dormiva. Non poteva dormire. Il cuore le batteva fitto, quando pensava ai pericoli o alla fuga di Giasone. Il petto si agitava: versava dagli occhi lacrime di desiderio e di compassione, la pena la rodeva senza riposo, insinuandosi sotto la pelle, fino ai nervi sottili, fino all’estremità della nuca, dove penetra il dolore più acuto. Le sembrava che la luna — la sua luna — le dicesse: «il dio del dolore ti ha dato Giasone come pena e angoscia. Va’ e preparati a sopportare infiniti dolori» . Poi le passavano nella mente tutte le dolcezze dell’esistenza, i piaceri che toccano ai vivi, le compagnie gioiose della giovinezza, e il Sole appariva più dolce ai suoi occhi. Vedeva la soglia brillare di un esile filo d’aurora. La prima luce la confortava, «come un’esile pioggia rialza le spighe inclinate» . Quando Eeta fissò il giorno della prova, Medea unse con l’ «unguento di Prometeo» la lancia, lo scudo e il corpo di Giasone, che diventò invulnerabile. I tori coi piedi di bronzo furono sottomessi senza fatica: i guerrieri nati dai denti dei serpenti si uccisero a vicenda, mentre Medea recitava l’ultima formula. Infine, giunse il giorno della fuga. Medea fissava la strada, ascoltando i rumori della notte. Quando Giasone apparve, le sembrò Sirio — l’astro bellissimo e sinistro —, alto sopra l’Oceano. I due stavano l’uno vicino all’altra, muti e senza parole, «come le querce e i grandi pini, che hanno ferme radici nelle montagne e stanno, senza vento, vicini ed immobili» . Tenevano gli occhi fissi per terra. Poi si guardavano sorridendo e non sapevano quali parole pronunciare, perché volevano dire tutto in una parola sola. Lì vicino stava il bosco sacro di Ares. Il drago tendeva verso loro il collo lunghissimo e le sue enormi volute, soffiando ferocemente. Medea parlò «con voce soave» : la sua voce di strega virginale. Invocò in aiuto «il sonno onnipotente» , perché affascinasse la fiera; e Ecate, la regina notturna, la madre. Intinse un ramo di ginepro nel filtro, e lo sparse sopra gli occhi del drago, mentre diceva le sue formule magiche. Il drago si addormentò. La bocca cadde a terra. Gli anelli si stesero nella foresta. Intanto Giasone staccava dalla quercia il vello d’oro, che faceva luce come un raggio di luna piena, arrossandogli le guance e la fronte. Quando Medea e Giasone arrivarono tra gli Argonauti, l’aurora cominciava appena a bagnare la terra. Medea sedette sulla poppa di Argo; e mentre la nave correva verso la Grecia, si slanciò indietro, tendendo, disperata, le mani verso la patria abbandonata. Alla foce del Danubio, la nave di Colchi guidata da Apsirto, il fratello di Medea, raggiunse quella degli Argonauti. Medea trasse il fratello in un agguato. La vergine dagli occhi d’oro si trasformò: il profondissimo senso di colpa, che nutriva verso il padre, chiese altre colpe, altri delitti. «Rifletti — disse a Giasone —: è necessario, dopo le cose orribili che abbiamo compiuto, pensarne un’altra, ancora più orribile» . Giasone colpì Apsirto con la spada nuda. Medea distolse gli occhi: Apsirto cadde in ginocchio; e mentre esalava l’ultimo respiro, raccolse con le mani il sangue della sua ferita, e arrossò il bianchissimo velo e il bianchissimo peplo della sorella. In quel momento, si risvegliò l’Erinni spietata, signora del mondo, regina del delitto, della punizione e della vendetta; e indusse Medea a moltiplicare i delitti e le colpe. Medea diventò l’Errante, la Straniera, la Leonessa, la Barbara. Quando giunse a Corinto fece uccidere dai propri figli la seconda moglie di Giasone; e li maledisse e li uccise. Poi salì sul suo carro trainato dai draghi alati: vi caricò i cadaveri dei figli e ritornò tra i draghi, le streghe, l’oro, il Sole della Colchide, il vento gelido del Caucaso.


Le versioni di Esiodo ed Euripide

La storia di Medea e degli Argonauti, di cui ho raccontato una parte, è un mito antichissimo, che risale probabilmente all’età micenea. Ispirò una vasta letteratura: una parte della Teogonia di Esiodo (Bur), la quarta ode pitica di Pindaro (Fondazione Valla -Mondadori), la Medea di Euripide (Bur), la Medea di Seneca (E. S. T.), le Argonautiche di Apollonio Rodio (Bur), le Argonautiche di Valerio Flacco (Bur), versi, prose, ricordi dei mitografi, come Igino (Adelphi) e lo pseudo-Apollodoro (Fondazione Valla -Mondadori). In questi giorni è uscito il quarto volume delle Metamorfosi di Ovidio (Fondazione Valla -Mondadori, a cura di Gioachino Chiarini e Edward Kenney, pagine LXXII-484, e 30): dove la storia di Medea viene mirabilmente intrecciata con quelle di Cefalo e Procri, Scilla, Dedalo, Icaro, Meleagro, Bauci e Filemone, Eracle, Io, Minosse.

lunedì 20 giugno 2022

Le Sirene – Vampiri nella Grecia Classica




Le sirene non possono essere esattamente definite “vampiri”, ma appartengono, insieme ad altre figure mitologiche che verranno analizzate prossimamente, ad una stirpe di creature ibride e femminili legate alla sensualità e alla morte, all’incanto e alla ferocia. Tutti elementi che giocano sul binomio – quello di amore e morte – tipico del topos del vampiro.

Allo stesso modo dei mostri bevitori di sangue, che sono morti eppure camminano tra i vivi e dunque appartengono ai due mondi, anche queste creature danno prova di grande forza vitale, ma in qualche modo affondano gli artigli nell’Oltretomba.


« Σειρῆνας μὲν πρῶτον ἀφίξεαι, αἵ ῥά τε πάντας

ἀνθρώπους θέλγουσιν, ὅτίς σφεας εἰσαφίκηται.

ὅς τις ἀϊδρείῃ πελάσῃ καὶ φθόγγον ἀκούσῃ

Σειρήνων, τῷ δ’ οὔ τι γυνὴ καὶ νήπια τέκνα

οἴκαδε νοστήσαντι παρίσταται οὐδὲ γάνυνται,

ἀλλά τε Σειρῆνες λιγυρῇ θέλγουσιν ἀοιδῇ,

ἥμεναι ἐν λειμῶνι• πολὺς δ’ ἀμφ’ ὀστεόφιν θὶς

ἀνδρῶν πυθομένων, περὶ δὲ ῥινοὶ μινύθουσιν »


«Tu arriverai, prima, delle Sirene, che tutti

gli uomini incantano, chi arriva da loro.

A colui che ignaro s’accosta e ascolta la voce

delle Sirene, mai più la moglie e i figli bambini

gli sono vicini, felici che a casa è tornato,

ma le Sirene lo incantano con limpido canto,

adagiate sul prato: intorno è un mucchio di ossa

di uomini putridi, con la pelle che raggrinza »


Omero. Odissea XII, 39-46


La sirena rappresenta due facce di una femminilità non incanalata nei ruoli sociali.

Il suo essere mostruoso la colloca ai margini della società, più precisamente su una linea di confine.

Il confine tra la vita e la morte, ad esempio. Tra l’oriente e l’occidente che è come dire tra ciò che è noto e l’ignoto. Non è un caso che essa sia associata alla dea Aphrodite che è una dea straniera d’oriente per la società ellenica, ma che permea le civiltà pelasgiche precedenti, che di quella ellenica sono state la culla; non è un caso che siano associate alla dea Persefone, a cavallo tra il mondo dei vivi e quello dei morti.

Il mito racconta che le sirene fossero presenti al rapimento di Persefone da parte dello sposo Ade. Con la loro presenza testimoniano il passaggio della dea dalla condizione di nymphe, fanciulla, a quella di gyne, donna sposata e regina del mondo dei morti. Ancora si racconta che le sirene siano fanciulle mutate in uccelli dalla dea Afrodite per avere trascurato l’amore: conosciamo la leggenda della sirena Partenope che, fuggita dai propri pretendenti, si tagliò i capelli e si rifugiò nel golfo di Napoli da cui la città prese il nome.

Il culto di Aphrodite e quello di Persefone sono molto legati l’uno all’altro e vengono separati anzi soltanto in un momento più tardo. Si trattava probabilmente del culto di due diversi aspetti di un’unica dea di cui la sirena era animale di riferimento.

A conferma di ciò, secondo Pausania, i templi delle due dee sorgevano l’uno di fronte all’altro, legittimandole come riflesso l’una dell’altra.

Le attività all’interno dei templi vedevano le ragazze impegnate nella musica, che aveva una grande importanza: quindi nel canto e nella danza rituale, per onorare e rendere servizio alla dea, e in mansioni che le avrebbero preparate all’ingresso della comunità cittadina come spose. Passaggio simboleggiato dal rapimento del marito che sarebbe venuto a prenderle al tempio come Ade con Persefone o Teseo con Arianna ed Elena.

La sirena è dunque l’icona di questo periodo della vita della fanciulla, della stagione selvaggia, non addomesticata dalla vita matrimoniale e dalla maternità. Come le ninfe, le sirene occupano il territorio simbolico dell’energia sessuale pura e incontaminata.

Simboleggiano il crocicchio, il passaggio: dall’infanzia all’età adulta a quello più grande e misterioso, dalla vita alla morte. Sono la zona di frontiera tra l’umano e il ferino.


« La brezza favorevole spingeva la nave, e ben presto avvistarono

la splendida Antemoessa, isola in cui le canore Sirene,

figlie dell’Acheloo, annientavano chiunque

vi approdasse, ammaliandolo coi loro dolci canti.

La bella Tersicore, una delle Muse, le aveva generate

dopo essersi unita all’Acheloo; un tempo erano ancelle

della potente figlia di Deò, quando ancora era vergine,

e cantavano insieme con lei: ma ora apparivano in parte

simili a fanciulle nel corpo e in parte ad uccelli.

Sempre appostate su una rupa munita di buoni approdi,

avevano privato moltissimi uomini della gioia del ritorno,

consumandoli nello struggimento. Anche per gli eroi

effusero senza ritegno le loro voci, soavi come gigli,

ed essi già stavano per gettare gli ormeggi sulla spiaggia:

ma il Tracio Orfeo, figlio di Eagro, tendendo la cetra

Bistonia con le sue mani, fece risuonare le note allegre

di una canzone dal ritmo veloce, affinché il suono

sovrapposto della sua musica rimbombasse nelle loro

orecchie. La cetra vinse la voce delle fanciulle: Zefiro

e insieme le onde sospinsero

la nave, e il loro canto si fece un suono indistinto. »


Apollonio Rodio. Argonautiche IV, 890-912


Il mito le vuole nate dal sangue sgorgato da un corno del dio del fiume Acheloo, raffigurato con la testa di toro. Il sangue versato da Eracle feconda la terra, facendo nascere le divine cantrici.

Altre tradizioni le vogliono figlie di Forco, divinità marina padre tra gli altri delle Gorgoni, delle Graie, di Ladone, Scilla e della terrificante Echidna.

Sappiamo dall’iconografia che si tratta di creature ibride, donne uccello. Se da una parte sono creature spezzate, né umane né uccelli, esse sono anche un intero che non ha riscontro in natura: appartengono al sacro.

Nelle mitologie di tutti i popoli venivano venerati simili ibridi femminili: donne uccello, donne pesce e donne foche, perfino donne rana e donne serpente. Tutte espongono i seni, il ventre o la vulva e tutte sono manifestazioni della sensualità divina femminile.

Nelle fonti greche più antiche sono raffigurate come grossi uccelli dal volto umano per poi acquisire con il passare del tempo braccia e mani con cui tenere gli strumenti musicali: l’aulòs (il flauto a due canne il cui suono era detto simile al canto della sirena), la lira o ancora la siringa (flauto a più canne legate insieme a formare una zattera, detto anche flauto di Pan). Tutti strumenti legati ai misteri dionisiaci, al canto e alla danza femminile.

L’origine del nome di queste creature marine è incerta: si potrebbe risalire al greco seiren, “che sorge dalla pianura”, perché erano il simbolo della piana e lucida superficie del mare, sotto la quale stavano coperti gli scogli e i banchi di sabbia. Oppure, sempre al greco seirios, incandescente o deteriorabile, a seraphin, ardere. Da qui a selas che significa splendente, ardente, lume. Da selene invece ci colleghiamo a luna. Possiamo immaginare l’ardere del sole del mezzogiorno, della canicola, della bonaccia dei mari dannosa quanto la tempesta.

Si cerca l’etimologia anche nel greco syro, attraggo; seirao, incateno, come i marinai prigionieri dell’incanto, legati alle sirene come i naviganti legano a sé i vascelli. Oppure ancora nell’ebraico sir o scir, suonare. Il greco syrigs sta per suonare la siringa, ma anche per sussurro. In latino e nelle lingue romanze le troviamo chiamate serene, in relazione alla parola serenus, asciutto, senza nuvole, cielo chiaro e disteso, rispecchiante il mare calmo sul quale apparivano.

Le sirene vengono spesso raffigurate in gruppi di tre, ognuna con uno strumento sacro, oppure alle due suonano si accompagna una terza che canta.

Nell’Odissea abitano un campo fiorito di un’isola e incantano i marinai al loro passaggio. Come molte creature idriche (le ninfe dei mari, dei fiumi e delle sorgenti) vivono nei luoghi in cui terra e acqua si incontrano: la riva del mare, gli argini di un fiume o le paludi, dove i due elementi si fondono l’uno nell’altro. L’acqua è l’elemento in cui vivono, ma che anche delimita il confine tra il loro mondo e quello della società, che è invece terrigno, organizzato, razionale.

Il confine tra il mondo conosciuto e l’ignoto.


Quello delle sirene è un culto antico che affonda le sue radici nella civiltà matriarcale agricola, legata alla terra e ai suoi segreti ctoni e tellurici. Se la Grecia classica le ingloba dando loro ruoli marginali e poco edificanti nell’economia del divino sostenuto dagli Olimpi, in alcuni luoghi il loro culto sopravvive al susseguirsi delle civiltà, dopo le prime colonizzazioni greche del Tirreno meridionale. Lungo la costa italica, in prossimità delle antiche rotte di colonizzazione, li riconosciamo lungo la costa sorrentina in un gruppo di isole chiamate Sirenusse, o presso lo Scoglio delle Sirene. In queste aree erano molti i santuari preposti alla loro cura. Si venerava perfino la “tomba della sirena” in memoria di colei che, secondo la leggenda, non essendo riuscita a sedurre Odisseo, si gettò in mare dallo sconcerto.

In questi luoghi era venerata in particolar modo la triade conosciuta con i nomi di Partenope (Voce di Vergine), Ligeia (Voce Chiara) e Leucosia (Dea Bianca). Tra gli altri nomi di sirene che ci sono pervenuti, dai quali si desumono spesso anche le qualità delle loro voci, si parla anche di Ciana (l’Azzurra), di Himeropa (Colei che Provoca il Desiderio) il cui nome subisce un adattamento posteriore nel tempo in Eumolpe (Colei che Canta Bene) e poi ancora in Molpo (L’Armoniosa).

Una seconda terna sembra essere definita da Aglaope o Aglaphonos (La Squillante), Telxièpeia (Canto che Addolcisce) e Pisinoe (la Suadente).

Una dicotomia importante vede contrapporsi le muse elleniche alle sirene e concludersi con la sconfitta di queste ultime a rappresentare la supremazia di una civiltà nuova su quella più antica.

Se le muse cantano per gli dèi, le sirene cantano per gli uomini. Se le prime rispecchiano la bellezza, la perfezione e l’armonia apollinea dell’arte, le seconde hanno tratti più foschi, più sinistri e di perdita di sé nel rituale dionisiaco: ma non sono che facce della stessa medaglia.

Secondo Pindaro (Peana 8) pare che a Delfi, prima del tempio in pietra, ne fossero stati costruiti altri tre: una capanna di rami di alloro; uno di cera d’api e piume d’uccello che poteva volare e che lo fece, scomparendo nella mitica, lontana terra degli Iperborei; un terzo di bronzo costruito da Atena ed Efesto sul cui fronte cantavano le Keledones, sei cantatrici (e incantatrici) d’oro. Statue viventi di splendide fanciulle dai tratti di uccello. Secondo la leggenda, gli Olimpi distrussero quest’ultimo tempio sprofondandolo in una voragine della Terra perché il canto delle Keledones causava negli esseri umani l’oblio, facendo loro trascurare le occupazioni quotidiane e la cura della famiglia e della casa. Prima che venisse distrutto, in questo tempio venivano custodite, appese al soffitto come uccelli, delle iynges d’oro. Si trattava di strumenti di magia dalla forma di una ruota che venivano fatti vorticare su una cordicella tesa alle estremità. Pare che la iynx fosse uno strumento inventato da Aphrodite per attirare l’amore verso chi lo usava e instillare il desiderio.

Sovrapporre le iynges e le sirene è giocoforza.

Storicamente il culto di Apollo si insediò a Delfi sottomettendo una preesistente civiltà legata al culto matriarcale della terra. Il mito delle Keledones dal canto perturbante precipitate agli inferi rappresenta molto probabilmente la supremazia sull’antica civiltà in favore di quella nuova e il canto delle sirene fu tramutato in quello delle Muse.

Le sirene erano divinità legate al mare, alla costa e alle condizioni climatiche e venivano onorate come demoni benevoli a tutela dei naviganti nei bracci di mare pericolosi.

Se nella Grecia orientale le raffigurazioni delle sirene continuano ad essere scarse e legate al loro aspetto più ctonio e funereo, nell’arte greca occidentale popolano invece l’iconografia concentrata particolarmente sul lato della sensualità.


Come si è accennato, le fonti, in primis l’Odissea che rimane la più antica testimonianza letteraria a citare queste creature, mostrano le sirene in qualità di cantrici.

Il canto rappresenta la seduzione primordiale, non a caso si parla di in-canto o di in-cantesimo. Quello del canto è la seduzione della parola che canta e incanta.

Se Platone paragona la musica delle sirene all’eloquenza di Socrate, dalla quale bisogna mettersi in salvo per non restare imprigionati dalle sue maglie, Pitagora sostiene che la musica, sorella dell’astronomia, regola le stelle: il loro decorso, il ritmo, l’ordine, l’accordo. Gli astri risuonano armonia e la musica umana non è che l’imitazione.

Il canto delle sirene dona a chi lo ascolta piaceri che sconvolgono, capaci di appagare ogni fame e ogni appetito. Cantando esse inducono all’oblio, provocano la morte nell’incauto viaggiatore che le ascolta riducendolo all’impotenza oppure sbranandolo come le fiere più spietate.

All’incontro con le sirene si può solo soccombere nell’oblio, oppure comprendere il loro canto per elevarsi fino a loro: ferme sul confine, attendono l’iniziato per un percorso spirituale.

Per anni e in molte tesi si è dibattuto sul significato del canto delle sirene. Le interpretazioni più fondate portano a pensare che esso sia collegato alla sfera rituale, a un culto agrario che vedeva le sirene come protettrici degli elementi e intermediarie tra i vivi e i morti, tra il mondo umano e quello divino.

Attraverso la voce esprimono i due aspetti più peculiari della loro natura: il canto della sensualità irrefrenabile e quello funebre dell’Oltretomba.

Dal VI secolo in Asia Minore e dal IV in Attica diventa d’uso porre delle statue di sirena nell’atto di produrre musica sulle tombe o a segnacolo di luoghi preposti alla sepoltura. Il canto di queste creature simboleggiava il canto funebre della cerimonia che aveva come compito quello di accompagnare il defunto nel suo viaggio verso l’aldilà. Secondo la leggenda, le sirene vivono nell’Ade e con la loro musica allieta gli spiriti nobili dei Campi Elisi. Allo stesso modo il loro canto poteva mettere in comunicazione il mondo dei vivi con quello dei morti e recare consolazione a chi subiva un lutto.

La natura perturbante di queste femmine ctonie si associa alle lamie, alle empuse, alle onoscelee e alle arpie. Dei parallelismi forti li troviamo anche nella semitica Lilith, demone della lussuria, ma anche del vento e della tempesta. Tutte queste creature sono accusate di rapire bambini o ucciderli nel sonno; tutte sono coinvolte in una maternità negata.

D’altra parte il canto delle sirene poteva eccitare le tempeste, le burrasche e l’impeto del mare. (Pindaro, Partenio 2, frg. 94 b) O poteva controllarle, riportare alla normalità il vento, la furia delle onde e gli altri elementi naturali.


A quale Musa devo rivolgermi con lacrime, con canti funebri o con gemiti di lutto?

Fanciulle alate, vergini figlie della Terra, Sirene, unitevi al mio lamento

portando il flauto libico, la zampogna di Pan o le cetre

rispondete con lacrime alle mie grida lugubri; dolori con dolori, canti con canti.


Elena, Euripide, v.168


Se da una parte sono creature incapaci di procreare e pronte a rapire bambini umani e a divorare gli uomini per trascinarli negli abissi, dall’altra offrono una sensualità tutt’altro che sterile, ma feconda e piena di vita.

L’aura erotica delle sirene viene espressa dal seno florido, dai gioielli preziosi e dai capelli intrecciati e ornati con nastri: un’immagine che la associa senza difficoltà alle etere. Attraverso la spiritualità orfica alla sirena viene attribuito il significato dell’immortalità dell’anima, della comunicazione con il divino e nella riunione con esso dopo la morte del corpo, attraverso un percorso di purificazione. Numerose sirene compaiono su oggetti di appannaggio femminile, in particolare sui vasi di corredi nuziali delle giovani spose insieme ad Afrodite, al cui seguito appartenevano, e agli eroti. Compaiono sugli specchi e sui pettini, ancora ad affiancare Dioniso e i satiri, spiegando come con il matrimonio si perpetui un rinnovamento della vita rappresentato da Dioniso smembrato e in seguito risorto.

Raffigurate sugli specchi delle fanciulle, spesso ne possiedono uno esse stesse: reggono uno specchio rotondo, come la dea Afrodite alla quale assomigliano (il simbolo astrologico di Venere è lo specchio rotondo che sormonta il manico a croce, del resto, e in genetica lo stesso simbolo indica il femminile). Lo specchio rimanda alla superficie dell’acqua e mostra l’abisso. Oppure lo illumina, come lo specchio del pescatore.

Le sirene, come Afrodite, si specchiano. Studiano loro stesse, si indagano, vanno in profondità, cercano la conoscenza sotto la superficie. Allo stesso modo, abbagliano il navigante che giunge fino a loro: lo illuminano, gli mostrano la verità.

Il pettine che usano serve a ravviare la lunga chioma ondulata, che rimanda al mare, al moto ondoso e alla stessa luce, che illumina.

Sono creature della seduzione: seducere significa condurre a parte, trarre in disparte, far deviare, dirottare. Sono quindi creature che costringono al cambiamento. Il loro è un segreto rituale, dal momento che “cosa seduce” non è palese, ma resta nascosto.

Rappresentano il femminile oscuro e acquatico. Quando le si ascolta, lo si fa al di là dei sensi, in una dimensione interiore.

lunedì 23 maggio 2022

Ecate


 Ecate è oggi riconosciuta come la dea delle arti magiche e della stregoneria, Il suo nome significa colei che colpisce da lontano.

Circe e Medea avevano appreso da Ecate la loro arte ed erano iniziate ai suoi misteri.

Anche questa figura mitologica ebbe inizialmente connotazioni positive in qualità di dea delle terre selvagge e del parto (assimilabili quindi alla dea madre), in seguito, quando iniziò la demonizzazione del femminile, divenne dea della stregoneria e il suo ruolo fu relegato a quello di “Regina degli Spettri”, tale attributo fu trasmesso alla cultura post-rinascimentale, dalla quale presero poi spunto gli inquisitori durante la loro opera di “pulizia religiosa”.

Era rappresentata con tre teste e un solo corpo o con tre corpi uniti per la schiena (trimorfa).

Per gli orfici era trimorfa non solo perché rappresentava le fasi lunari, ma anche per l’assimilazione al culto delle grandi divinità ctonie come Demetra, Persefone e Artemide.


Esistono due teorie circa la sua origine:

Una ritiene che fosse figlia di Zeus e della figlia di Eolo Ferea e che la sua rappresentazione infernale derivasse dall’ira di Era che, immergendola nell’Acheronte con lo scopo di purificarla, ne determinò la trasformazione in una divinità degli inferi. In qualità di dea degli inferi teneva per cento anni aldilà dello Stige le anime di coloro che erano morti senza sepoltura.


Secondo la Teogonia di Esiodo era invece figlia dei Titani Asteria e Perse:

E Asteria incinse, e a vita diede Ècate, cui sopra tutti Giove Croníde onorò, le die’ fulgidissimi doni:

parte le die’ della terra, del mare che mai non si miete:

ed anche ella ha potere nel cielo gremito di stelle,

e piú d’ogni altra, onore fra i Numi immortali riscuote.

Ed anche adesso, quando qualcuno degli uomini in terra fa sacrifizi, e placa, secondo le usanze, i Celesti,

Ècate invoca per nome. E onore accompagna un mortale, quando la Dea le sue preghiere benevole intende;

e gli concede prosperità: ché ben grande è sua possa.

Perché di quanti nacquer da Terra e da Uràno, ed onori ebbero, questa Dea parte ha degli onori d’ognuno;

perché duro con lei non fu Giove, né nulla le tolse di quanto ella avea già fra i Numi piú antichi, i Titani,

bensí tutta la parte che allor possedeva, possiede.

Né meno onor la Dea, perché figlia è unica, ottenne, non della terra parte minore, del cielo e del mare,

ma anzi assai di piú: ché molto l’onora il Croníde.

E sta presso a chi vuole proteggere, e molto gli giova.

Nell’assemblea, prevale fra gli uomini l’uom ch’ella brama: quando alla guerra, sterminio degli uomini, s’arman le genti,

Ecate qui, la Diva, si mostra, ed a quelli che vuole, volonterosa gloria concede, concede vittoria:

dove giustizia si parte, vicino ai re giusti ella siede: anche allorché negli agoni contendono gli uomini, giova:

ché anche presso a loro si reca la Diva e li assiste, e chi di gagliardia prevalse, di forza, il bel premio

agevolmente guadagna, ricopre i suoi figli di gloria.

Ai cavalieri anche sa, quando vuole, recare assistenza.

E a chi nel glauco mare travagli. , e tra l’ira dei flutti Ecate invoca, e l’Enosigèo che profondo rimbomba,

la celeberrima Dea, facilmente concede ogni preda, agevolmente, e, dopo scovata, se vuole, la toglie.

Moltiplicare il bestiame nei chiusi ella può con Ermète. Le mandre dei giovenchi, le greggi gremite di capre,

le mandrïe lanose di pecore, ov’essa lo voglia, da pochi a molti capi, da molti riduce a ben pochi.

Così costei, che fu di sua madre l’unica figlia, onor su tutti i Nomi che nacquer piú antichi, riscote.

E protettrice il Croníde dei pargoli tutti la fece che gli occhi dopo lei dischiusero ai raggi del sole:

così da prima fu tutrice onorata ai bambini


Nella tradizione più antica era probabilmente una divinità lunare della Tessaglia, più tardi confusa con l’aspetto invisibile di Artemide corrispondente alla luna nuova per la sua identificazione con Selene. Come Artemide non usciva mai dalle dimore sotterranee e vagava sulle montagne come la luna, ma proprio per questo motivo in seguito divenne la dea degli spettri e di ogni magia, le erano sacri i crocicchi e i trivi nelle strade (per cui   chiamata anche Trivia) e la sua presenza era annunciata dai latrati dei cani da battaglia.

Anche questo animale merita una breve riflessione perché nel corso dei secoli subì interpretazioni ora positive, ora negative, in relazione ai personaggi che affiancavano o che rappresentavano (si pensi all’iconografia domenicana). Si riteneva che i cani fossero in grado di salvaguardare gli uomini dai pericoli invisibili perché in grado di vedere gli spiriti, in relazione al dio Anubi, che prese la forma di un grande cane simile allo sciacallo, ebbero anche il ruolo di guidare le anime nell’aldilà, però durante l’azione repressiva intrapresa dall’Inquisizione, i cani neri entrarono a far parte del novero dei simboli demoniaci presenti nei diversi trattati di demonologia perché considerati accompagnatori demoniaci delle streghe o dei maghi.


NOTIZIE TRATTE DA:

Rosalba Mulas“Iconografia delle streghe dall’antichità all’età moderna e stregoneria in Sardegna”

in Salvatore Loi “Inquisizione, magia e stregoneria in Sardegna”

H. Biedermann “Enciclopedia dei simboli”

Esiodo “Teogonia,

sabato 21 maggio 2022

La Norma

 


Il termine Norna deriva dall'antico Norreno "Norn" (Nornir al plurale) che significa "[colei che] bisbiglia [un segreto]", esse vivono presso la fonte di Urðarbrunnr, ove tessono il filo del destino dei mortali.

Le Norne dimoravano presso l'Urðabrunnr, il Pozzo di Urd, descritto come bianchissimo e risplendente. Si racconta che presso tale fonte ci sia la piana dove gli Æsir tengono consiglio, detta Idavall. Esse avevano il compito di irrorare ogni giorno Yggdrasil con acqua e argilla per evitare che seccasse o marcisse, dove tessono l'arazzo del destino. La vita di ogni persona è un filo nel loro telaio e la sua lunghezza corrisponde alla lunghezza della vita dell'individuo.
Nell'Edda vengono descritte anche come intagliatrici di Rune, che incidono su assicelle e tavolette, forse per trascrivere le diverse vite delle creature dell'universo, infatti si dice che nella trama del destino sono tessute le Rune.
Al loro potere sul destino si fa risalire la ragione per cui sull'unghia della Norna sono incise le Rune ("segreti sussurrati").
Le Norne stabilivano il destino degli uomini, lo svolgimento della vita delle creature dell'universo, nessuno escluso: uomini, animali, piante, esseri sovrannaturali, persino le divinità erano sottoposte al criterio delle Norne, le uniche creature che veramente possono essere definite "eterne" nella cosmogonia dei popoli nordici. Peculiare della mentalità nordica era, infatti, che tutto avesse una fine, e che nulla fosse eterno, neanche gli dei che infatti sono destinati a perire nel Ragnarǫk. L'unica cosa eterna è il Destino, che era appunto gestito dall'operato delle tre Norne.
Delle Norne si parla sempre al plurale e compaiono molto spesso in diversi passi della poesia eddica e scaldica, prevalentemente nella loro figura di Norne ostili che stabiliscono un destino di sfortuna e morte, seppur non manchino riferimenti anche al loro lato positivo. Questo perché rappresentano le dee del destino, incarnazione di un fato superiore e ineluttabile che tutto sovrasta, uomini e dei che siano.
Nel "Dialogo di Fáfnir" si precisa come esse siano di diversa natura, alcune appartenenti agli Æsir, altre ai Vanir, altre ancora agli Elfi, poiché vengono descritte come un gruppo numeroso di divinità dal carattere indistinto. Solamente Snorri nella Völuspá ne definisce solo tre di suddetto gruppo, che dimorano presso l'Albero Cosmico, Yggdrasil, accanto alla fonte del destino, Urðarbrunnr. Queste tre Norne ricordano molto non solo le Parche romane, ma anche le Moire greche. Solo Urðr, il cui nome significa "destino", è la più anziana; Verðandi risulta essere infatti una figura ben più tarda e il suo nome deriva dal verbo "verða" "divenire". Skuld, definita da Snorri la più giovane, porta con sé il significato di "debito", "colpa" e viene nominata anche nella schiera delle Valchirie. Il legame tra le Norne e le Valchirie viene sottolineato anche in un passo del "Dialogo di Fáfnir", dove si dice che i lupi sono i "cani delle Norne" poiché pongono fine a molte vite; nello stesso passo si evince anche il legame tra le Norne e le Dísir.
La credenza nelle Norne era così fortemente radicata nel mondo e nella cultura nordici, che in alcune saghe la venerazione di esse viene indicata tra le consuetudini a cui doveva rinunciare chi si convertiva al cristianesimo.

Crono e Filira

 


Un mito greco racconta che la ninfa Filira, figlia di Oceano, viveva nell’isola del Ponto Eusino che porta il suo nome. Un giorno Crono si unì a lei ma, sorpreso dalla moglie Rea, si trasformò in uno stallone e si allontanò al galoppo. Dall’unione fra Crono e Filira nacque Chirone, una strana creatura, mezzo uomo e mezzo cavallo. Filira provò un tale dispiacere per il figlio mostruoso che chiese al padre Oceano di trasformarla in un albero: il Tiglio, che infatti in greco porta il nome della ninfa. Chirone divenne un celebre guaritore, anche grazie al potere ereditato dalla madre, albero dalle numerose virtù medicinali.

domenica 14 febbraio 2021

Janas: fate e streghe della tradizione popolare della Sardegna


Le janas o gianas sono gli esseri fantastici più conosciuti delle leggende sarde. Descritte generalmente come piccole donne magiche abitanti nelle tombe prenuragiche scavate nelle rocce (dette appunto domus de janas o domos de gianas), sono le protagoniste di numerosi racconti popolari, favole e fiabe in varie parti della Sardegna.

Oggi vengono identificate principalmente con le fate della tradizione europea e orientale. Tuttavia, è importante sapere che in Sardegna esistono numerose leggende sulle janas e che non sempre queste figure mitiche vengono descritte come fate ma bensì anche come streghe, maghe e vampiri.

Da Cabras a Pozzomaggiore, da Ghilarza al Supramonte di Orgosolo, da Esterzili al pozzo sacro di Santa Cristina, in ogni località dell’isola è possibile trovare leggende sulle janas streghe o fate. Ognuna di queste, come vedremo, è a suo modo unica: non cambiano solo i nomi delle janas ma anche le loro qualità fisiche, morali e spirituali.
Nella fantasia dei sardi, col termine janas o gianas, si indicano per lo più delle creature fantastiche di minuscola statura. La denominazione più diffusa nelle varie parlate dell’isola per indicare questi esseri è appunto quella di janas, gianas o giannèddas.

Tuttavia, in varie località dell’isola il loro nome in sardo cambia. Per esempio, a Perdas de Fogu vengono indicate col termine mergianas, a Isili margianas, in Barbagia con quello di bírghines e, nel territorio sassarese e tempiese, si chiamano per lo più li faddi. Ma non solo. I
Ad Aritzo la mitologia sulle janas ci racconta di piccole fate, alte non più di venticinque centimetri, dotate di un’intelligenza superiore a quella umana. Vivevano in piccole case scavate nelle rocce ed erano molto industriose. Infatti, si erano costruite “tutti gli arredi delle loro piccole case e tutti gli strumenti necessari alla vita”, coltivavano il grano e facevano il pane, e andavano alla ricerca di varie erbe officinali nonché a caccia di animali che mangiavano crudi.

Miti, favole e leggende sulle janas della Barbagia narrano inoltre che nelle belle giornate di sole, le fate sarde erano solito porre all’aria aperta i loro arredi e i loro oggetti più preziosi. Ma poiché temevano gli esseri umani per la loro statura, ritiravano tutto alla svelta e si nascondevano nelle loro domus de janas chiudendone gli ingressi con grosse pietre. Ciò perché queste piccole fate non amavano entrare in contatto col mondo esterno, preferendo al contrario vivere la loro magica esistenza lontano dalla realtà umana, verso la quale non si dimostravano né malefiche né benefiche.n alcuni paesi esistevano anche janas di sesso maschile, in altri le janas erano fate buone mentre in altri ancora rassomigliavano piuttosto a streghe se non addirittura a vampiri.
A Fonni le leggende sulle janas raccontano di esseri minuscoli sia di sesso femminile che di sesso maschile. Una delle loro peculiarità era la bellezza e venivano descritte come incantatrici. Ciò era legato anche al fatto che avessero una voce tanto deliziosa quanto ammaliante. Vivevano nelle domus de janas che si scavavano con maestria da soli grazie all’utilizzo di vari arnesi come ad esempio le accette.

A Belvì, paese poco distante da Tonara ed Aritzo, le janas venivano descritte come bellissime e ricchissime donne, giunte da paesi molto lontani. All’inizio amarono gli uomini, regalando loro ogni sorta di ricchezza e facendo loro del bene, come trasportare magicamente gli oggetti pesanti o badare alle greggi al pascolo.

Erano fate generose e mansuete, che vissero a contatto con gli esseri umani fino a quando questi furono buoni e si comportarono bene. Ma siccome il genere umano, col tempo, divenne sempre più egoista, malvagio e interessato solamente alle loro ricchezze che custodivano nelle rocce o in altri siti magici, le janas decisero di abbandonarli e scomparire. Ed è per questo motivo che non si vedono più in giro.

A Tortolì in Ogliastra le janas sono sempre state descritte in maniera del tutto particolare. A differenza di quelle della Barbagia e del Mandrolisai, la mitologia e il folklore di questa regione della Sardegna hanno consegnato ai posteri delle gianas con delle mammelle lunghissime che erano solite gettarsi a mo’ di capelli dietro le spalle. Tale gesto si dimostrava quanto meno necessario sia per non far toccare i lunghi seni a terra quando lavoravano, ma anche per allattare i bambini. Infatti, le janas ogliastrine si portavano sempre dietro i loro figlioletti, inserendoli in particolari ceste che si legavano sulla schiena.

Inoltre, queste creature erano caratterizzate dall’avere delle lunghissime unghie di ferro o d’acciaio, grazie alle quali si erano scavate le loro domus nelle rocce senza l’ausilio di alcun arnese. Ma non solo. Le unghie potevano anche essere utilizzate contro gli esseri umani da queste maghe e streghe, considerate dalla mitologia sarda molto dannose.

Per nulla indifferenti alle sorti degli uomini, con i quali hanno convissuto a lungo, a Tempio le janas sono state spesso descritte, come già accennato, alla stregua di janas streghe o janas malefiche.

A Oniferi così come a Nuoro le janas sono streghe o maghe dannose per gli esseri umani che devono far di tutto per non incontrarle, men che mai entrare nelle domus de janas dove, oltre alle loro proverbiali ricchezze, avrebbero trovato ad attenderli terribili mostri divoratori di uomini.

A Isili le janas hanno sempre avuto il dono di leggere nel futuro ma fare profezie anche decidere il destino degli esseri umani. La loro presenza è storicamente associata a quella dell’antico e bellissimo nuraghe Is Paras alle porte del paese. Ancora oggi, secondo alcuni, è possibile sentire il rumore del telaio d’oro, specialmente la notte, quando si mettono al lavoro per tessere le loro incredibili stoffe.

Un telaio d’oro sarebbe custodito nell’affascinante quanto tenebrosa gola di Gorroppu e nel Supramonte di Orgosolo. Secondo alcune leggende sarde janas e altre creature magiche avrebbero abitato a lungo in questi luoghi inaccessibili agli esseri umani. In particolare, una bellissima fata si nascondeva in una grotta, il cui ingresso era celato da piante e arbusti, all’interno della quale lavorava col suo telaio dorato. A dire di qualcuno, questa sarebbe stata anche un’abile amazzone.

Anche a Nuragus le janas erano descritte come donne molto ricche e incredibilmente belle, che non si facevano mai vedere di giorno per paura che il sole rovinasse e bruciasse la loro candida pelle. Dotate di dita fini e delicate, tessevano tutto il giorno delle splendide stoffe e dei preziosi broccati in favolosi telai d’oro. Si trattava di creature dalla duplice natura: erano, infatti, gentili e soavi, ma si trasformavano in creature terribili se venivano guardate e molestate dagli esseri umani.

Proprio per quest’ultima ragione, a Cabras come a Pozzomaggiore e a Ghilarza, le janas sarebbero scomparse dal mondo degli uomini. Fuggendo, però, avrebbero lasciato il loro tesoro nascosto da qualche parte, ma sino ad oggi nessuno l’ha ma trovato. Uno dei più celebri sarebbe nascosto sulla collina di Montoe, dove una volta esisteva un magnifico palazzo abitato dalle janas.

Un’altra celebre dimora delle janas è stata individuata dalla tradizione popolare di Esterzili in un antico tempio, simile a quelli che edificavano i greci e denominato Sa domu ‘e Orgia (Orgìa). Questa era infatti una jana strega, per nulla amata dalla gente, che la cacciò via dal tempio. Ma prima di partire, la donna si vendicò, lasciando due vasi: uno pieno di api e l’altro di musca macedda. A quanto pare, i due orci stanno ancora là, sotterrati chissà dove.

A Laconi le janas sono simili alle panas, le anime delle donne morte di parto, che si riuniscono sulle rive dei fiumi e lavano i panni dei loro neonati.

Anche a Orosei si sono tramandate alcune leggende che identificano le janas a fantasmi di donne morte. Uno degli esempi più noti è quello di Maria Mangrofa, l’ultima custode del villaggio scomparso di Ruinas, dal quale avrebbe portato con sé un telaio dorato, delle stoffe d’impareggiabile bellezza e un immenso tesoro. Donna bellissima, fata e strega, la jana di Orosei sarebbe ancora oggi la vera custode della sorgente di Su Gologone e avrebbe il potere di far guarire dalle malattie degli occhi.

Anche a Tonara le leggende più antiche riportano come fosse impossibile distinguere tra janas femmine e janas maschi. Questo perché gli individui dei due sessi erano uguali se osservati esteriormente dagli esseri umani: vestivano in maniera identica e avevano tutti una figura piccola e tozza.

Vivevano in caverne e antiche domus alle porte del paese. Quando qualcuno si avvicinava alle loro abitazioni, le janas stendevano un meraviglioso velo tutto bianco e magicamente filato, che ricopriva tutta la campagna. Le persone che non erano a conoscenza di questo artificio ne rimanevano estasiati e affascinati, e allo stesso tempo ammaliati. In questo modo, il velo si rivelava essere simile alle tele dei ragni e lo sfortunato passante veniva catturato dalle piccole creature e gettato in una buca insieme ad altre vittime.

Un triste destino lo attendeva, però. Egli, infatti, diventava la preda della Jana Maista, la malefica regina delle janas, che gli succhiava il sangue.
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Patrizia de Ciuceis, Antonella D'alfonso e altri 5
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domenica 31 gennaio 2021

Atena e il Mito di Aracne



La dea Atena, la romana Minerva è dea della sapienza nella mitologia greca, figlia di Zeus che la partorisce già adulta. Fra i tanti miti associati alla dea ci soffermiamo su quello di Aracne che ci permetterà di fare alcune considerazioni. Riassumiamo brevemente il mito.

Aracne era una valente filatrice, che abituandosi ad essere elogiata incominciò a vantarsi di essere non solo la più brava fra i mortali, ma addirittura in grado di gareggiare con gli dei. Atena, dea dai molteplici ingegni, sia muliebri sia guerrieri, protettrice dei filatori, è irritata dalla superbia della donna. Non può sopportare che una comune mortale affermi di essere più brava di una dea nell’arte della tessitura. Sotto forma di vecchia si reca dalla fanciulla e le consiglia di non offendere gli dei. Per tutta risposta Aracne, ribadisce di essere migliore di Atena, al che la dea riprende le sue sembianze e sfida la giovane ad una gara di tessitura. La dea tessé un arazzo rappresentante lo scontro fra Poseidone e la città di Atena, mentre Aracne un’immagine degli amori di Zeus. La dea non potendo ammettere di essere stata sconfitta distrugge l’opera di Aracne e per punirla della sua superbia la trasforma in ragno, costretta a filare in eterno la sua tela. Questo mito evidenzia le capacità muliebri della dea Atena.

La dea è sinonimo di sapienza, tra l’altro nasce dalla testa di Zeus, ma possiede caratteristiche piuttosto varie. È dea guerriera ed è rappresentata spesso con elmo, lancia e scudo. Certo lo scudo potrebbe rappresentare la difesa della sua verginità, quindi potrebbe essere assimilata sempre alle caratteristiche di una dea femminile, ma la lancia è strumento di offesa e quindi questa interpretazione non regge: Atena è anche una dea guerriera. Essendo una dea della sapienza, le sue capacità guerriere non sono guidate dal furore come nel caso del dio Ares, dio della guerra, e la sua protezione è più sulle decisioni tattiche e strategiche. Non a caso è protettrice di Ulisse, soldato valente, ma soprattutto esperto di stratagemmi e in qualche modo diverso dagli altri eroi Achei. Basti pensare al pessimo carattere e all’irascibilità di Achille che lo fa essere rappresentante terreno del dio della guerra.

Ci si chiede perché Atena unisca tutte queste qualità contraddittorie. Il mito di Aracne lega la dea al ragno, che in molte mitologie è legato ai miti della creazione. Il ragno tesse la tela creando un mondo e attende al suo centro lo svolgersi degli eventi. Ogni parte della ragnatela è collegata, ogni elemento della creazione è collegata, come indicato dal famoso detto della tavola Smeraldina, ciò che è in basso è come ciò che è in alto. Il ragno tira le fila della creazione. Ciò fa ritornare in mente un altro mito, quelle delle Parche che governavano il destino degli uomini. Filavano ed ogni filo corrispondeva la vita di un uomo, ne decidevano lo svolgimento e al momento opportuno recidevano il filo, ovvero ponevano termine alla vita dell’uomo. È evidente che le Parche richiamano il simbolismo del ragno.

Qual è il legame fra Atena e il ragno? Atena è una dea che protegge le arti femminili regala l’ulivo alla città di Atene e nello stesso tempo è una vergine guerriera. L’ipotesi più probabile è che la figura della dea sia il risultato di una trasformazione, ad opera dei conquistatori greci, di un’antica divinità femminile adorata da una popolazione organizzata in una società di tipo matriarcale. I greci avendo una cultura patriarcale modificheranno la figura della dea che diverrà figlia di Zeus, ovvero di un dio-padre e quindi sottomessa ad un uomo.

Il legame con il ragno potrebbe lasciar intendere di essere stata, prima della conquista greca, una dea-madre, quindi generatrice del cosmo.

Questo spiegherebbe le varie caratteristiche della dea un misto di una divinità agricola e feconda e di una divinità guerriera, ma mitigata dalla sapienza. Per i greci il dio della guerra è Ares, non a caso una divinità maschile, mentre la bellicosità della dea viene temperata dalla sapienza come si addice ad una divinità femminile. Per i maschilisti greci sarebbe stato inaccettabile una divinità guerriera femminile.