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sabato 7 maggio 2022

Il rito di Beltane (il Maggio della tradizione contadina)




Il rito di Beltane (il Maggio della tradizione contadina) è la festa più importante dopo Samonios, poiché determina l’inizio della metà luminosa dell’anno, dedicata al Dio maschile: è il trionfo dell’amore sessuale, della fecondità, della luce e del conscio.

Tutta la natura è ormai in fiore, impegnata nella fecondazione e nella proliferazione. Il rito, che prevede l’accensione di uno o più falò, è incentrato ovviamente intorno al potere trasformante del fuoco e ruota intorno alla figura mitica della Fanciulla dei Fiori. Ella accoglie il Maponos, il Fanciullo Divino incarnazione della giovane virilità maschile che con Lei si accoppia per assicurare abbondanza materiale e spirituale alla tribù (lui) insieme alla Terra (lei). Si rinnova il matrimonio sacro. Altri temi collegati sono la sconfitta del Gigante Biancospino, rappresentante le forze caotiche e distruttive della natura, e il potere di guarigione del fuoco (maschile) nell’acqua (femminile).

lunedì 17 agosto 2020

Bruciare erbe: la guarigione spirituale secondo gli indiani d'America


I nativi del nord America usano bruciare alcune piante a scopo cerimoniale e nei riti di guarigione. E' anche una forma di aromaterapia.

Certamente una delle piante più utilizzate a questi scopi è la gliceria (Hierocloe odorata), con cui formano lunghe trecce che si possono bruciare, ma anche indossare o riporre come offerta sugli altari. Spesso il suo fumo si unisce al vapore acqueo nelle capanne sudatorie. Come i nostri incensi comuni, si ritiene che il fumo abbia un'azione purificatrice: l'intento non è di inalare il fumo ma di immergersi in esso per favorire le attività spirituali. La gliceria ha un leggero effetto soporifico, l'aroma ricorda la vaniglia e, secondo alcuni, favorisce gli stati meditativi. 

Ne parla Barrie Kavasch*, ricercatrice e storica delle culture degli indiani d'America: «Potete offrire il fumo a voi stessi. Muovete la treccia in alto e in basso per circondare di fumo la testa e il busto. Mettendo le mani a coppa, accostate il fumo al vostro cuore, questo porterà amore e attenzione. Poi portate le mani con l'offerta di fumo alla testa per ottenere chiarezza di giudizio e buoni pensieri. Se lo passate sulle braccia e sulle gambe scacciate ogni rabbia, tensione e sconforto». 

Altre erbe, spesso miscelate, formano gli incensi tradizionali di queste popolazioni. Una pianta molto popolare è la Salvia ma non quella che troviamo nei nostri supermercati (meglio non bruciarla, può far venire mal di testa). Si tratta di specie autoctone come la Salvia bianca (Salvia apiana) e la Salvia del deserto (che però non è una Salvia ma un'Artemisia). Ancora oggi sono preparate e vendute: ogni tribù ha il suo blend specifico in cui alla Salvia si aggiungono cedro, ginepro, gliceria, mesquite, uva ursina e molte altre sostanze vegetali.

Al fumo generato dalla combustione di queste piante si attribuisce la capacità di generare stati d'animo positivi, scacciando le negatività. Calmano e rilassano. Si trovano bastoncini di Salvia ma si può anche riporre la Salvia o le miscele in un bruciatore. Di solito si tratta di momenti da vivere insieme ad altre persone.

Ancora la Kavasch: «Potete passarvi il bruciatore da uno all'altro: ciascuno gode del fumo e trascorre un momento in silenzio, a pregare, prima di passarlo al prossimo. Le preghiere collettive e le energie positive di questi incontri sono stupefacenti: spesso, un reale senso di guarigione spirituale può pervadere tutti i presenti».

Ma la cosa più importante non è il fumo, che si compra, ma l'inclinazione mentale, che dobbiamo riscoprire in noi stessi.

Queste erbe da bruciare sono in vendita negli shop delle varie comunità indiane e anche nei musei e nei negozi specializzati. Ovviamente sono reperibili via internet.

*Barrie Kavasch è autrice di un testo che raccoglie un'intensa attività di ricerca sui sistemi di guarigione naturale degli indiani del nord America: 'American Indian healing arts'.

domenica 7 giugno 2020

Iris, il fiore della Bellezza


Come la dea greca da cui prende il nome, questo fiore è un arco colorato che unisce Cielo e Terra (Iris in greco significa “arcobaleno”)

domenica 17 maggio 2020

Il tarassaco

Il tarassaco è noto fin dai tempi antichi per le sue proprietà depurative, tanto è vero che il suo nome deriva dal greco “tarakè” ossia “scompiglio, turbamento” e da “akos” che significa “rimedio”, da cui Taraxacum, nome datogli dagli Apotecari alla fine del Medioevo. Le foglie, facilmente riconoscibili nei prati con il loro profilo a grandi denti, sono ricche di vitamine del gruppo A, B, C e D mentre le radici hanno proprietà fortemente depurative per l’organismo. Attorno a questa pianta sono fioriti miti e leggende. Grazie al tipico “soffione”, che viene fatto volare via in un fiato, gli innamorati si scambiano promesse d’amore: se gli acheni, dopo il soffio, volavano via tutti, disperdendosi nel vento, i loro desideri, si dice, verranno realizzati. Il tarassaco viene anche definito scherzosamente “Piscialletto” per le sue forti azioni drenanti e depurative e perchè, ai bimbi viene raccontato che chi lo raccoglie, avrà problemini di incontinenza tutta la notte.Il tarassaco può essere utilizzato in cucina in svariati modi. Le foglie fresche possono essere aggiunte alle insalate (da mescolare ad altre a causa del loro gusto particolarmente amaro), o alle frittate (magari queste?), le foglie più grandi e coriacee, invece, sono ottime per minestre e zuppe. I boccioli dei fiori, messi sotto aceto e sale, sostituiscono i capperi e le radici tostate sono un buon surrogato del caffè (quello che si trova in vendita sotto il nome di “caffè di cicoria”). Con i fiori, infine, può essere realizzata un’ottima marmellata.

lunedì 30 marzo 2020

Caterina Sforza - La tigre di Forlì e l'alchimia


Caterina Sforza nasce a Milano nel 1463, figlia “bastarda” di Galeazzo Maria Sforza e Lucrezia Landriani, moglie del cortigiano Gian Piero Landriani.
Vorrei spendere due parole sul padre di Lucrezia, un padre che ella adorerà ma allo stesso tempo temerà fino al giorno delle sue nozze che segnarono un punto di svolta non indifferente nella vita di Caterina.
Galeazzo Maria Sforza fu un uomo estremamente squilibrato e violento. Era noto a corte per la sua crudeltà e per i suoi repentini sbalzi di umore e nessuno osava contraddirlo per paura delle sue rappresaglie. Quei pochi che lo fecero, subirono durissime conseguenze come ad esempio narra il caso di un maniscalco che ebbe, come sua unica colpa, quella di sposare una bellissima fanciulla su cui posò gli occhi Galeazzo Maria. Il maniscalco tentò di ribellarsi, poiché sapeva in quali perversi modi lo Sforza violava le ragazze (prima ne godeva lui e poi a turno, davanti a lui, la poveretta era costretta a congiungersi con tutta la corte) e si ribellò.
In cambio gli vennero amputate le mani e la ragazza, dopo che fu violata, venne uccisa barbaramente.
Lucrezia Landriani, madre di Caterina, venne letteralmente sottratta a suo marito Gian Piero nel 1460 e fu costretta a convivere con Galeazzo Maria fino all’assassinio di lui avvenuto nel 1476.
Da Sforza ebbe quattro figli: Carlo, Caterina, Alessandro e Chiara che vennero legittimati dalla consorte di Galeazzo Maria, Bona di Savoia Sforza.

Caterina ereditò il carattere forte e combattivo da sua nonna Bianca Maria e la passione per le armi e la strategia militare da suo nonno Francesco. Date le sue spiccate propensioni, sin da piccolissima venne istruita nel campo militare e nelle tecniche di combattimento con la spada. Cominciò, inoltre, a frequentare il giardino botanico dello speziale di Bona Sforza, Cristoforo de Brugora, che la formò sulle proprietà curative delle erbe e la introdusse all’alchimia.
A nove anni, nel 1473 venne data in sposa a Girolamo Riario, nipote di Papa Sisto IV, dopo che Gabriella Gonzaga, madre di sua cugina, Costanza Fogliani, undicenne, rifiutò l’unione che comprendeva la consumazione immediata del matrimonio.
Galeazzo Maria non ebbe altra scelta che fare sposare la piccola Caterina con Girolamo, che all’epoca aveva circa 28 anni. Per conservare le apparenze, venne dichiarato un semplice fidanzamento tra i due e il “vero” matrimonio venne celebrato non appena Caterina raggiunse la maggiore età, secondo i dettami della Chiesa dell’epoca, nel 1477.

Nonostante le innumerevoli difficoltà che Caterina incontrò nel corso della sua vita, lo studio e la pratica dell’alchimia rimarrà una costante e un pilastro inamovibile della sua esistenza.
Alla sua morte venne ritrovato il manoscritto, chiamato “Experimenti de la Excellentissima Signora Caterina da Furlj matre de lo Illuxtrissimo Signor Giovanni de Medici”, contenente oltre 400 ricette, di salute, bellezza, tra cui si annovera anche la formula della pietra filosofale o elisir di lunga vita.
Nel manoscritto si possono trovare ricette per la creazione di rossetti, tinture per capelli (prediligendo il rosso e il biondo), trattamenti per la cura dell’infertilità, dell’epilessia, degli stati febbrili, per l’impotenza e uno dei primi anestetici.

Ecco alcune ricette, la prima è l’acqua di talco, soluzione a base mineraria utilizzata dagli alchimisti della prima età moderna:
El talcho è stella de la terra et ha le scaglie lucide e se trova ne l’isola di Ciprij et il suo colore è simile al cetrino et guardandolo essendo insieme in massa dimostra verde e vedendolo verso l’aria dimostra come cristallo et ha le infracripte virtù senza le altre che non sonno in libro noctate quale seria el desiderio de li alchimisti saperlo: prima per fare le donne belle e levarsi omni segno o machia del viso de sorte che se una donna de sesanta annj la farà parere de vinti... ancora dicta acqua de talcho o vero polvere de esso chi ne bevesse in vino biancho guarisse uno che fusse avenenato et chi in quel giorno ne havesse preso in vino biancho serà sicuro di veneno et de omni morbo e peste... Ancora se fa mentione che dicta acqua fa de lo argento oro, et de le zoie false le fa perfecte et fine (dagli Experimenti de la Ex[ellentissi]ma S]igno]ra Caterina da Furlj Matre de lo inllux[trissi]mo S[ignor] Giovanni de Medici, in Caterina Sforza, ed. Pier Desiderio Pasolini, v. 3, 617-618, Roma: Loescher, 1893. La trascrizione cinquecentesca di Cuppano è conservata in un archivio privato).

Per la libido maschile
“Contra el difecto de natura in alcuno homo o persona non posente usare cum femmina Cap. xlij. Piglia bac[ch]e de lauro ben trite confecte insieme e de quelle ungi li reni e le parte da ingenerare potentemente excita la uolunta – Ancora tolli euforbia [[16]] bac[ch]e de lauro, radice de satirione [[17]] tucte queste cose trita e fa bulire in olio siche sia como unguento et unge parte generatiua e li reni mareuigliosamente excita la uirtu generatiua. – Ancora dia satirion a beuere molto uale. – Ancora ungase la uerga cum questo unguento Piglia piper bianco lungo et nigro piretro galanga an. omnium. on. j et polueriza e mistica cum tanto mele che basti. Ancora in lo terzo nodo de la spina de lo stinco et una petra la quale se lo gallo la beue o mangia incontinente sale sopra la gallina e sopra li galli et se homo la mangiara o beuera sara libidinoso intanto che non se pora astenere[18]. – Ancora la petra la quale se troua in la masciella de la talpa da la parte deritta portata fa stare asai deritta la uerga et il contrario fa quella che sta de la parte sinistra – Ancora li testiculi de la uolpe mangiati molto uale et excita – Ancora chi uole sempre usare de luxuria beua oncie una de merolla de perdalij [sic] oltra modo face lebidine. – Ancora la radicata del satilione beuta cum uino forte excita – Ancora lo masculo destemperato cum uino et unge li reni et li membri uerili potentemente excita – Ancora li testicoli del tassone beuti cum acqua per tre di face libidine la quale non manca. – Ancora piglia semen urtice puluerizatum et mistum cum pipere et melle et in uino bibito excita totum. – Ancora la radicata cum setrion [satirione] tenuta in mane excita luxuria – Ancora la simente de lino mista cum piper e data a beuere cum uino fortemente accende la luxuria [linosa]. – Ancora li testiculi del ceruio ouero la somita de la coda de la uolpe eli testiculi del caulo acende la femina a libidine – Ancora se la uerga de lhomo e unta cum fele de uerro e de porco seluagio excita da fare tosto la luxuria delecta ale femine.

Per ringiovanire
Aqua celeste che fa regiovanire la persona, et de morto fa vivo:
pilglia garofani, noce moscata, zenzero, pepe lungo, pepe rotondo, grani di ginepro, scorza di cetrangoli, foglie di salvia, di basilico, di rosmarino, di maggiorana fine et di menta, fior di samnbuco, rose bianche et rosse (e altri 20 ingredienti, compresi fichi secchi uva passa e miele) Che ogni cosa sia ben polverizzata o pezzi metti in aqua vite (anche l’acquavite o grappa è spesso consigliata nelle ricette di Caterina). Metti in una bottiglia ben chiusa et lasciala doi giorni poi metti nel fornello coti alambicco et distilla cinque Volte, con fuoco lento, uscirà un’aqua rarissinma e preziosa.

Curare spirito e corpo
A far guarire omne persona lunatica, fantastica et malenconica:
piglia nove chieri di aqua di nove mulini et piglia doi bicchieri di aqua spremuta da radice di nibbi et fa bollire et dalle da bere ogni mattino a digiuno per nove mattine et poi fa questa unzione: prendi grasso di maiale et terra et pesta insieme poi ungi il collo il petto e lo stommaco, et più volte, et sarai guarito.

A fugare gli spiriti et le ombre, et le fanctasie:
fai leggere sopra il capo il vangelo nove giorni. Incommmincia la prima domenica d’avvento et seguita tutti i vangeli fino all’ascensione fatta eccezione per il vangelo della domenica delle palme.
Fai fumo per nove sere con incenso, palma e cannella metti, mirra, ruta, zolfo, savina, radice di optimna, issopo e comodi cervo. Se bisognasse fa cime si legga anche la leggenda di Santa Margherita et il Breviario di San Crispino.

A far dormire una persona per tal modo che porrai operare in chirurgia quel che vorrai e non ti sentirà et est probatumn.
La composizione che Caterina riporta verso la fine del 1400 è molto simile a quella di un anestetico, a base di oppio, di succo di more acerbe, di foglie di mandragola, di edera, di cicuta e altre piante, riportata su un manoscritto del nono secolo conservato nel Monastero di Montecassino e anche su di un libro di chirurgia uscito a Bologna nel 1265.

mercoledì 25 marzo 2020

La mitologia degli alberi


Sia nelle tradizioni nordiche che romane e greche, gli alberi hanno sempre rappresentato il mezzo di interconnessione tra la superfice della terra, il sottosuolo e il cielo.
La terra rappresentava il mondo dei mortali, al sottosuolo veniva associato il mondo degli inferi mentre il cielo era considerato la dimora degli dèi.
In particolare, la figura dell’albero rappresentava l’unione tra il passato (simboleggiato dalle radici) il presente (simboleggiato dal tronco) e il futuro (rappresentato dalla chioma).

martedì 26 novembre 2019

L'acqua Tofana

«L'uomo uccide con la forza
e la lama è la sua arma,
la donna uccide con astuzia
e il veleno è il suo espediente»
Il veleno è da sempre l'arma di difesa e offesa di moltissimi animali e piante, ma l'uomo ha saputo estrarlo ed usarlo per uccidere i propri simili per poter affermare e continuare il proprio albero genealogico.
In passato si usava dire che il veleno era l'arma preferita dalla donne perché procura una morte invisibile, atroce e molte volte senza lasciare tracce. In realtà il veleno è ed è stato largamente usato anche dagli uomini, che ne hanno fatto il mezzo più adatto per sviare i sospetti e simulare una morte naturale.
Anche in Italia abbiamo avuto alchimisti e erboristi che hanno estratto e sperimentato veleni mortali, ma uno dei più letali è sicuramente "l'acqua tofana", conosciuta anche come acqua perugina, acqua di Napoli o Manna di San Nicola.
Tra il XVII e il XIX secolo l'acqua tofana venne ampiamente utilizzata da Roma in giù, specialmente dalle donne che, insoddisfatte dei propri mariti (o smaniose di denaro), volevano diventare vedove il prima possibile.
La scoperta (o meglio la prima fabbricazione) viene attribuita a Giulia Tofana, una cortigiana originaria di Palermo che nel 1640 elaborò la ricetta della pozione mortale. Incolore, insapore e inodore, era un'arma micidiale con cui eliminare una persona senza destare alcun sospetto, anche perché l'effetto era ritardato di giorni e nessuno riusciva a ricondurre la morte ad altro che un attacco di cuore.
Giulia Tofana con la sua acqua divenne ricchissima e le richieste erano talmente numerose che dovette comprare una distilleria per poter far fronte a tutti. La donna assunse la nomea di "fattucchiera", ma nonostante questo ogni giorno alla sua porta si presentavano persone di ogni età e casta a comprare il suo veleno. Eri insoddisfatto del coniuge? Il tuo vicino ti rubava il raccolto? Un giovanotto faceva smanceria a tua figlia? Il tuo rivale politico ti metteva in ridicolo? Nessun problema: gli si offriva da bere e tutto finiva nel migliore dei modi, ovviamente non per chi beveva…
L’acqua tofana aveva la stessa consistenza dell'acqua e poteva essere tranquillamente diluita in ogni bevanda senza creare reazioni sospette. Secondo gli scritti del tempo per crearla bisognava seguire alla lettere la ricetta originale stilata da Giulia Tofana, che era più o meno questa:
Si metteva dell'acqua in una pentola e si aggiungeva arsenico macinato e limatura di piombo o di antimonio e si metteva il tutto a bollire premurandosi di coprire la pentola in modo che l'acqua non evaporasse. Quando l'acqua tornava limpida e incolore la pozione era pronta e poteva essere imbottigliata. E' probabile che la mistura contenesse anche belladonna, ma non venne mai dimostrato. In ogni caso ne risultava una soluzione di sali di arsenico e piombo ad altissimo tasso di tossicità che bastava versare nel vino o in una minestra.
In genere provocava vomito e dopo qualche giorno sopraggiungeva la febbre; la morte per avvelenamento avveniva qualche giorno dopo, a seconda della dose ingerita dalla vittima.
Per celare il reale scopo della sua acqua Giulia Tofana la vendeva come cosmetico o come acqua benedetta di san Nicola (più tardi addirittura la si imbottigliò in fialette recanti l'immagine del santo) e in pochi anni, solo a Roma, le morti sospette legate a quell'intruglio furono centinaia.
A svelare il veleno mortale fu una donna pentita di aver ucciso il suo consorte che si andò a confessare e fece anche i nomi dei fornitori e delle comari che lo avevano utilizzato.
Lo scandalo culminò nel famoso “processo dei veleni” del 1659 in cui vennero imputate 46 donne. Nessuna di loro ricevette la grazia e, per monito alla gente, alcune furono impiccate nel Campo de’ Fiori, altre furono murate vive nelle carceri dell’Inquisizione.
Una variante dell'acqua tofana era già in voga nel 1630 e veniva chiamato "liquore mortifero". Lo scopo era lo stesso (eliminare una persona scomoda), ma in realtà era acqua in cui venivano messi a mollo topi morti di peste o presi dalle fogne. Si diceva che poche gocce bastassero per essere contagiati dal terribile morbo.
La paura del contagio portò ad una vera e propria isteria di massa, e a Roma si diffuse l'idea che alcuni uomini scellerati usassero il liquore mortifero per versarlo in fontane, pozzi e in ogni luogo dove vi fosse dell'acqua. perfino le acquasantiere delle chiese. Quella credenza scatenò il sospetto in chiunque si immettesse in luoghi comuni come taverne o il mercato e a volte nascevano risse o discussioni per le cose più frivole. La leggenda vuole che nessuno entrando in chiesa osasse più bagnarsi la mano con l’acqua benedetta e un giorno, quando il sacrestano della chiesa di S. Lorenzo Damaso vide un poveretto intingere le dita per farsi il segno della croce, cominciò a gridare all'untore provocando nella basilica un fuggi fuggi generale

mercoledì 1 maggio 2019

Il Sorbo (Luis) è il secondo albero dell’alfabeto arboreo celtico


Il Sorbo (Luis) è il secondo albero dell’alfabeto arboreo celtico e i suoi rami rotondi, coperti di pelli di toro appena scuoiato, erano usati dai druidi come estrema risorsa per incitare gli spiriti a rispondere a domande difficili. Nelle isole britanniche, il Sorbo è l’albero più utilizzato come protezione contro i fulmini e i malefici in genere.

Nell’antica Irlanda i druidi di due eserciti nemici accendevano fuochi di Sorbo e vi recitavano sopra incantesimi per chiamare gli spiriti a prendere parte al combattimento. Nell’epica celtica (Il Romanzo di Diarmuid e Grainne) la bacca del Sorbo, insieme alla mela e alla noce rossa, viene definita “cibo degli dei”, espressione che porta a interpretare il tabù alimentare su tutto ciò che è rosso come un’estensione di quello comune sul fungo rosso dell’Amanita muscaria, considerata “cibo degli dei” anche presso Greci e Romani (nella Grecia antica tutti i cibi di colore rosso -aragoste, pancetta, triglia, gamberi, frutta e bacche rosse – erano soggetti a tabù tranne che nelle festività in onore dei morti. Il rosso, forse anche per l sua connessione con il colore del sangue, era il colore della morte in Grecia e nella Britannia dell’Età del Bronzo, come mostra l’ocra rossa rinvenuta nelle sepolture megalitiche della piana di Salisbury, così come in altre sepolture dell’Europa Neolitica – cfr. M.Stone, Quando Dio era una donna).

Il Sorbo è considerato dai Celti l’albero del ritorno in vita e del risveglio, profondamente legato al prevalere della luce sul buio. Il suo mese nel calendario celtico va dal 21 gennaio al 17 febbraio, e a metà di questo periodo cade la festa di Imbolc (1 febbraio), una delle quattro feste stagionali che scandivano l’anno pagano (insieme a Beltane, Lammas e Samain). Imbolc è la festa del ritorno della luce, segna la fine dell’inverno e l’inizio della rinascita della vegetazione. Imbolc e il Sorbo sono protetti dalla dea Brigid (o Birgit, Brigitta, Brigantia), divenuta poi con il Cristianesimo Santa Brigida, che un tempo era la Dea Bianca, la Triplice Dea protettrice del Fuoco, del risveglio alla vita, delle arti, della filatura e della tessitura. Anche per questa ragione, tradizionalmente, i fusi erano in legno di Sorbo. Il legame tra il Sorbo e il Fuoco, la Luce, si trova anche nel suo nome celtico: Luis, che ha la stessa etimologia di luisiu, ovvero “fiamma”.

Le bacchette da rabdomante un tempo usate per trovare i metalli erano in legno di Sorbo e il suo legno veniva spesso usato nella divinazione. Il suo uso oracolare spiega forse, secondo Graves (Graves R., La Dea Bianca) la presenza di boschetti di quest’albero a Rugen e nelle altre isole baltiche dell’ambra, un tempo sedi oracolari, nonché la frequente ricorrenza del Sorbo notata da John Lightfoot (Lightfoot J., Flora Scotica) nei pressi di antichi cerchi di pietre. Il Sorbo era considerato protettore delle soglie e portatore di luce, custode del passaggio tra i mondi e dei risvegli a nuova vita.

Nei miti norreni ritroviamo ancora il Sorbo come simbolo di protezione. Un mito islandese narra che Thor, dio dei tuoni e dei fulmini, un giorno stava per annegare in un fiume, ma riuscì a salvarsi aggrappandosi a un ramo di Sorbo. Da allora, oltre alla Quercia, anche il Sorbo divenne sacro al dio. Poiché Thor è il dio dei fulmini, questo spiegherebbe anche come mai il Sorbo è considerato nel nord l’albero che meglio protegge contro di essi (statisticamente, quest’albero è in effetto uno dei meno colpiti durante i temporali).

Tradizionalmente, nel Galles avere un Sorbo vicino alla propria casa era considerata una fortuna e le donne si appuntavano al petto bacche di Sorbo per proteggersi dalle stregonerie.

Infine, è interessante notare come in molte leggende irlandesi si trovino serpenti e draghi in qualità di guardiani di alberi di Sorbo, ed essendo il serpente uno degli animali-simbolo della Grande Dea nella sua versione ctonia, questo dato ci parla della connessione tra il Sorbo e la Dea così come di quella tra il Sorbo e le forze della Terra. Infatti se consideriamo che molto spesso i cerchi di pietre megalitici sorgono lungo le linee in cui scorrono le correnti energetiche della Terra (una sorta di meridiani del corpo di Gaia, un tempo chiamati “linee del drago”, e il drago non è in fondo che una versione potenziata del serpente che, guarda caso, sputa fuoco), e che spesso vicino a questi siti si rinvengono Sorbi o tracce di essi, vediamo come serpenti, Sorbi e siti megalitici siano legati dal filo rosso del culto della Dea Madre, che altro non è se non il pianeta-organismo su cui viviamo e di cui facciamo parte. Le antiche popolazioni, che intuivano e conoscevano l’anatomia energetica della Terra, costruivano mandala di pietra in luoghi in cui l’energia era particolarmente forte, per favorire la comunicazione tra i mondi, le dimensioni temporali e i piani di coscienza, e ponevano il Sorbo come guardiano di questi portali.

sabato 29 dicembre 2018

La mitologia e la magia del basilico


Il nome deriva dal greco  “basilikos”, che significa “erba degna di un re”, come detto dal filosofo e botanico greco Teofrasto, nel 3 ° secolo aC. Il  Basilico ha  avuto origine in India ed è stato portato in Occidente dai mercanti di spezie; gli Egiziani, i Greci e i Romani erano già a conoscenza dei suoi sapori e delle sue proprietà curative.

I Greci e Romani credevano che, per  far crescere una piantina sana di basilico, fosse necessario seminare, accompagnando tale operazione con insulti e maledizioni. Ma a parlare  più seriamente  di questa erba aromatica è stato lo scrittore romano Lucio Giunio Moderato Columella, che spiega come il basilico sia  una pianta da seminare in abbondanza “dopo le idi di maggio fino al solstizio d’estate”. Tra i romani veniva considerata una pianta magica e sacra a Venere, come molte altre erbe aromatiche, e doveva essere raccolto  dopo precisi rituali.

Alcuni autori hanno sostenuto che non dovrebbe essere mai  reciso con strumenti di ferro perché il metallo annulla tutte le sue qualità. E ‘proprio vero, in effetti, se proviamo a tagliare le foglie di basilico con un coltello, a causa dell’ossidazione,diventano immediatamente nere, quindi, dovrebbe essere tagliato solo a mano.
Il famoso naturalista romano Plinio era convinto che i semi del basilico, e non le foglie, fossero potenti afrodisiaci; in alcune zone, ancora oggi, gli agricoltori  lo fanno mangiare ad asini e cavalli durante il periodo riproduttivo per aumentare la loro forza sessuale.

In seguito, grazie a queste caratteristiche afrodisiache, è diventato il vero simbolo degli innamorati. Anche i Galli ritenevano il basilico una pianta sacra, tanto che le sue foglie venivano raccolte solo da coloro che avevano seguito un complesso rituale di purificazione. I Galli coltivavano il basilico in luglio / agosto fino a quando era in fiore. I mietitori di questa pianta sacra dovevano sottoporsi a rigorosi rituali di purificazione: dovevano lavare  la mano con cui raccogliere le piante nell’ acqua di tre diverse sorgenti,  dovevano indossare  abiti puliti, mantenersi a distanza dalle persone impure (per esempio, le donne durante le mestruazioni) e non utilizzare strumenti di metallo per tagliare i gambi. La santità del basilico è stata tenuta  in grande considerazione  anche dagli egiziani, che lo usavano per la preparazione di balsami adoperati nell’ imbalsamazione dei morti.
Nel Medioevo, al fine di raccogliere il basilico, si doveva purificare la mano destra  in tre diverse sorgenti,poi si doveva  utilizzare un ramo di quercia e indossare vestiti di lino bianco. Nel Decamerone di Boccaccio troviamo una delle più strane storie d’amore che ha come protagonista la pianta del basilico. Boccaccio nella  V Novella, giornata IV, racconta la storia di Elisabetta da Messina che ha seppellito la testa del suo amato Lorenzo, barbaramente assassinato dai suoi fratelli gelosi, in un grande vaso di basilico, che ha innaffiato tutti i giorni con le lacrime.

Nel Medioevo, inoltre, il basilico è stato utilizzato anche per gli  esorcismi e quindi per scacciare  i demoni dal posseduto, e si credeva che esso potesse compiere  miracoli in caso di peste e che potesse curare  la debolezza fisica dell’uomo. Nel Rinascimento le proprietà culinarie e terapeutiche del basilico sono state definitivamente riconosciute quando Cosimo de’ Medici lo ha  incluso  tra i profumi del ‘Giardino dei Semplici'(1545). Ma in tutto il mondo il basilico è noto soprattutto per il suo utilizzo nella preparazione della salsa più cotta sulla terra … il  pesto!

La storia del pesto
Storicamente il basilico è arrivato in Liguria tra la  seconda metà dell’XI e l’inizio del XII secolo e, in particolare ,a Genova seguendo le imprese del comandante genovese Guglielmo Embriaco, noto come Capo di Chainmail. Il capo  lo coltivava in  una delle sue galee  e ha  affidato  questo suo segreto al capitano Bartolomeo Decotto. Il capitano ha sperimentato  le caratteristiche terapeutiche del basilico, quando era in Palestina durante le crociate e al suo  ritorno a Genova portò con sè alcuni sacchi di semi.E così è nata una vera e propria  leggenda sul basilico. In un primo momento, le foglie di basilico sono state utilizzate solo come medicina, ma poi lavorando con il pestello per ottenere unguenti, è accaduto che qualcuno ha pensato bene di aggiungere l’olio d’oliva da utilizzare come crema per le irritazioni della pelle. Si dice che accidentalmente la crema  sia caduta sul pane e così è nato … il pesto!.

Leggende e superstizioni hanno sempre accompagnato la storia delle spezie e delle erbe aromatiche.Una di queste leggende, dice che alcuni inglesi che vivevano in India si aggiravano regolarmente con una collana di legno e   basilico per neutralizzare gli impulsi elettrici, tenere lontano il fulmine, come sostiene la religione indù. Nello stesso periodo, ma solo nelle eclissi, il basilico è stato mangiato e messo in riserve idriche per evitare la contaminazione.

In molti si sono chiesti se  il basilico è in realtà una pianta ‘magica’ o no, ma sappiamo,ad esempio,  che Napoleone l’ ha utilizzato per le sua capacità di stimolare la concentrazione intellettuale.Napoleone , infatti, era convinto che il suo profumo lo avrebbe aiutato a preparare i piani per manovrare gli eserciti. E la storia non è leggenda …

mercoledì 26 dicembre 2018

L'ulivo pensante...

“Contorti, nodosi, tormentati, corrosi dal tempo, svuotati all’interno, piegati dal vento e tesi in un supremo sforzo.
Con le loro radici aggrappate tenacemente più alla roccia che al sottile strato di terra, simboleggiano le difficoltà
del vissuto quotidiano e, nello stesso tempo, la forza della vita, vittoriosa su ogni avversità”. Così descrive gli ulivi Carmelo Formica.
E poi ancora Francesco Barberi che scrive:
“Dove l'ulivo prevale non hai nemmeno il senso della stagione. Le stagioni non mutano l'aspetto dell'ulivo; la sua età appare decrepita.
E come nei vecchi uomini le particolarità fisionomiche si accentuano deformate, così che gli ulivi rappresentano un campionario infinito d'individualità.
Rari sono i tronchi "regolari" che posano sul terreno tranquilli, equilibrati: brevi colonne muscose, come faggi nani.
I più a furia di produrre hanno perduto polpa e volume: sono ridotti alla corteccia, che ha fuori una scabrosità petrigna e dentro pare raschiata e bruciata,
sono ridotti a un solo lato della corteccia in piedi per miracolo, a una cinghia spirale.
Divaricati fin dalla base, o ruderi privi di rami con in cima un ciuffo di foglioline; spaccati in due da una fenditura ovvero multipli;
con basamenti enormi di radici sproporzionate; contorti e sformati; pieni di tumori e di buchi; cascanti; scoppiati;
vuoti come camini: eppure la loro vitalità permane intatta, la fecondità inesausta.
S'abbarbicano tenaci alla roccia; si chinano verso terra, da mille volti traspare un simbolo unico:
muscolature aggroppate, nervi tirati, contorcimenti, labbri di scorza intorno a ferite, scavature di ceppaie,
scarnimenti supremi: esprimono tutti più che in ogni altra specie vegetale la fatica e la consumazione del generare, il sacrificio dell'offerta.
L'ulivo appare il più disperato degli alberi, pertanto il più umano.
I rami dell'ulivo non si irraggiano dal tronco armonicamente, non si sovrappongono in palchi paralleli, non nascono l'uno dall'altro secondo uno schema naturale;
ma guizzano in lunghezze e in direzioni impreviste con pentimenti, rigiri e capricciosità, opera sapiente della potatura,
la quale sfoltisce la chioma cresputa per esporre ogni ramicello al beneficio del sole.
Come il tronco, neanche il fogliame dell'ulivo ha volume né corpo: lo schizzano in alto a ciuffi i virgulti pasquali dritti e lisci;
i serpentelli esterni lo lasciano cadere misuratamente diradato.
In confronto all'ulivo poco interessano le olive preziose,
che di autunno incupiscono il fogliame - finchè il contadino, infrascato sulla scala tra i rami,
col gesto del pastore che munge le schizza sul telo spiegato. Il colore dell'ulivo è senza stagione.