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giovedì 10 febbraio 2022

PANTÀSEMA: stregheria negli abruzzi (XV) – I nomi delle Streghe



La strega si manifesta sotto varie forme e assume nomi e caratteristiche differenti in base alle località in cui vive. Ogni regione d’Italia possiede un proprio folclore e conferisce alle streghe i nomi più disparati, contribuendo a creare per queste creature una famigliola popolosa e variegata.
Spesso per esorcizzare le nostre paure sentiamo il bisogno di rappresentarle, nella speranza che passino. Il mistero, ma anche l’ignoranza, che circonda questa immagine di donna-strega fa ancora molto discutere.
In passato tutte le negatività erano imputate alle streghe: per spaventare i bambini: “attenti alla strega!”; per gli uomini potenti: “sortilegio di strega!”. Non dimentichiamo, però che “la strega” è anche una donna, una donna volutamente raffigurata con sembianze repellenti…
Ma, in realtà, chi era la Strega?
In Calabria e in Basilicata incontriamo le Abitatrici dei campi che rapiscono i bambini dalle culle e li nascondono nei tronchi delle querce. La loro natura non è ben chiara e alcuni le definiscono Fate.
In Sicilia sono presenti le Animulari che hanno venduto la loro anima al diavolo; con opportuni unguenti e formule magiche passano attraverso le fessure di porte e finestre. Di notte volano azionando l’arcolaio. Il loro nome deriva dal termine dialettale anunulu, che significa arcolaio.
Le Bàzure sono nei dintorni di Savona: vengono chiamate anche streghe marinare, perché possono sia navigare durante le tempeste che scatenarle, rovinano la farina per il pane nei mulini, il vino nelle botti e rapiscono i neonati per succhiargli il sangue.
Le Bele butèle sono molto avvenenti quando si mostrano nell’aspetto umano. In realtà hanno zampe caprine o equine, braccia di scimmia e orecchie lunghe
Le Beate donnette sono popolari nelle province di Trento e Vicenza e talvolta vengono scambiate per le Fate traendo in inganno. Le Bele butèle, proprie della tradizione veneta (come le Beate donnette), hanno un nome che inganna gli incauti e sono molto avvenenti quando si mostrano nell’aspetto umano. In realtà la loro natura è ben diversa: hanno zampe caprine o equine, braccia di scimmia e orecchie lunghe. Le bele butèle vanno in cerca di uomini che si attardano la sera prima di rincasare, dopo l’Ave Maria. È in quell’ora che sono pericolose. Bambini e donne, quando in casa non sono presenti gli uomini, corrono un pericolo maggiore perché possono essere prelevati e scannati.
Le Genti beate è un altro nome delle streghe che trae in inganno. Sono diffuse nel veronese e qualcuno le ascrive alla famiglia delle Fate, più precisamente alle anguane¹. Vivono nelle grotte e si riuniscono la notte per tenere i loro concili. Vanno a caccia di serpenti, uccelli e caprioli, di cui si nutrono. Per qualcuno si tratta perfino di spiriti, che vivono nei pressi delle sorgenti.
Le Cogas sono streghe della tradizione sarda. Una coga è la settima figlia in una famiglia in cui sono nate sette femmine. La leggenda la vede volare a cavallo di una scopa e succhiare il sangue dei neonati. Può persino trasformasi in una mosca per entrare nelle case. Per combattere le cogas è sufficiente lasciare un abito rovesciato nella stanza in cui il bambino dorme. Nel caso si avvertisse l’arrivo della strega, simile al rumore della caldaia battuta, era sufficiente rovesciare un indumento e la coga cadeva a terra nuda. Ad Agosto, in provincia di Cagliari, viene celebrata una festa in suo onore, che dura tre giorni. Delle cogas esiste anche la versione maschile, i cogus.
Le Gatte masciare possono trasformarsi in gatti e girovagare per la città di notte operando i loro malefici.
Le Gatte masciare si trovano a Bari, possono trasformarsi in gatti e girovagare per la città di notte operando i loro malefici. Al tramonto, si dice, queste donne si ungono di olio masciaro, che permette loro di potersi gettare nel vuoto dai tetti delle case, e volare. Ecco dunque che ritorna l’unguento come uno degli strumenti magici delle streghe. Il termine masciaro sembra derivi dal latino megaera, da cui appunto proviene il nostro megera, che significa strega, maga. C’è un piccolo collegamento fra le gatte masciare pugliesi e le cogas sarde: se un uomo era convinto che un gatto fosse in realtà una strega, poteva recitare una formula magica e il gatto si sarebbe immediatamente trasformato in una donna nuda. I masciari erano coloro i quali si erano venduti al demonio e potevano così entrare in possesso di poteri straordinari.
Le Janare sonno terribili streghe della Campania, brutte e con lunghe zanne di cinghiale. Nei pressi di Caserta esiste il monte Ianaro, che da loro ha preso il nome. Vestono con un mantello nero macchiato di sangue. Diventando vento potevano penetrare nelle fessure delle finestre; si dice che rubassero asini e cavalli nelle stalle riportandoli all’alba stremati. Il nome probabilmente deriva da Dianare, le sacerdotesse di Diana.
L’elemento che accomuna queste creature è l’acqua.
Le Lavandaie hanno diverse appartenenze: possono essere fate, ma anche fantasmi. In alcuni casi si tratta però di streghe. L’elemento che accomuna queste creature è l’acqua. Sono donne viste nei pressi di una sorgente a lavare panni. Si fanno aiutare dai viandanti incauti, che sono così costretti a strizzare i panni finché si ritrovano spezzate le ossa delle braccia. Le streghe lavandaie possono anche rapire bambini dalle case e la loro sorte è in questo caso peggiore, perché le piccole vittime sono sbattute sulle rocce in continuazione, come fossero delle lenzuola. Questa leggenda è propria della penisola d’Istria.
Le Masche: la tribù di queste streghe è attiva in Piemonte, ma ve ne sono tracce anche in Lombardia e Liguria. Il termine sembra di origine celtica. Contro i malefici e le fatture delle masche si usavano diversi rimedi, come alcune gocce d’acqua nel latte o sale benedetto nel burro o foglie di ulivo benedetto nelle sorgenti.
La Missuia è una strega particolare, perché ha la facoltà di trasformarsi in scrofa. Con sé ha dodici maialini, uno per ogni mese dell’anno. È una strega che si trova in Svizzera, ma che può anche comparire in Italia. Si limita a fare baccano con la sua dozzina di figli e a cantare in coro.
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Le Tempestare controllano gli agenti atmosferici e sono proprie di tutta la nostra penisola.
Le Tempestare sono proprie di tutta la nostra penisola e si tratta di streghe e stregoni, che hanno ormai da tempo imparato a controllare gli agenti atmosferici. Possono procurare bufere, tempeste, grandinate e rovinare così i raccolti. Si dice che la bora, il ben conosciuto vento triestino, sia causata da streghe del luogo. Nella zona di Brescia due disastri, che hanno causato la perdita di centinaia di alberi, sono attribuiti all’azione di queste streghe. Nella provincia di Belluno impazza la Stria della Diassa, altrimenti detta “strega del ghiaccio“. Padrona degli elementi atmosferici invernali, può scatenare bufere di neve e valanghe. Nessuno ne conosce l’aspetto.
La Vecia barbantana: questa strega arriva dal Veneto e la sua caratteristica, molto temuta dai bambini, è di camminare in continuazione per i centri abitati, catturando i bambini sperduti e nutrendosene.
La Zöbia: si tratta di una tribù si streghe che vive in Lombardia. Il nome potrebbe significare giovedì, poiché è il giorno del loro sabba. Sono anche dette zöbiane o giubbane. Non sembra molto malefica, anzi si limita a entrare nelle case dai camini attendendo il risotto tradizionale, oppure fa sparire i vestiti delle donne, trasformandoli in gomitoli di refe², in modo che esse si ritrovino in strada quasi nude.
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Infine le Madri: il nome, che non dovrebbe ricondurre a esseri demoniaci, si ricollega alle ben note tre madri³ della cinematografia, nei film di Dario Argento. Nel folclore della provincia di Trapani le madri sono streghe brutte, orribili, che hanno occhi gialli e pupille ovali, elemento caratteristico dei gatti. Sono in grado di lanciare malefici e sortilegi e conoscono le arti magiche. In Calabria queste streghe sono conosciute come magare e magarat.
Nomi di donne, nomi di streghe.
Paese che vai, strega che trovi. Nei precedenti articoli sulla Pantàsema, antica figura femminile legata ai riti agricoli della cultura pagana del centro Italia, ho cercato di fornire al lettore qualche notizia in più a completamento del semplice appellativo strega, il cui equivalente è donna saggia. Durante tutto il periodo dell’Inquisizione erano proprio le donne sagge, le donne di potere, che dovevano sparire, e così è stato.
Note:
¹Anguana: creatura legata all’acqua, dalle caratteristiche in parte simili a quelle di una ninfa e tipica della mitologia alpina.
² Refe: Filo molto robusto, ottenuto dall’intreccio di più capi.
³Le Tre Madri: trilogia cinematografica horror italiana. E’ composta dai film: “Suspiria” (1977), “Inferno” (1980) e “La terza madre” (2007) diretti dal regista Dario Argento. Ciascun film tratta di una delle “Madri,” una triade di antiche e malvagie streghe che con i loro poteri possono manipolare gli eventi del mondo su scala globale.
Fonti: I nomi delle streghe sono tratte dall’articolo di Daniele Imperi pubblicato il 22/08/2012 “Stregoneria, streghe e stregheria: le origini, la storia, le tipologie” [divider]

martedì 21 luglio 2020

La Masca, la strega maligna del folclore piemontese



La masca è un personaggio piemontese di solito femminile, dotato di poteri straordinari, affini a quelli attribuiti alle streghe della tradizione...


Il folklore popolare affonda le sue radici nella volontà di spiegare e giustificare avvenimenti inattesi, banali o drammatici, che non potevano essere gestiti dalla sola ragione: malattie, morti e disastri naturali come tempeste, alluvioni o carestie.

Vengono così create figure cui attribuire la responsabilità di tutto ciò che poteva alterare l’equilibrio della comunità: nella società agricola del Piemonte meridionale, fino alla prima metà del secolo scorso, la responsabilità di ogni fatto, più o meno traumatico, era della Masca.

Bocca nera era la masca di San Pietro. Un giorno è passata vicino alla casa di Pinotin e ha visto che aveva riempito le botti di vino. "Siete sicuro, Pinotin, che questi cerchi tengano?"
"Cribbio, da quando metto il vino, non si sono mai rotti."
Oh, non era ancora al Bricchetto che il vino correva tutto. Lui arrabbiato ha preso il fucile e le è corso dietro per ammazzarla. Non c’era più e al suo posto, in mezzo alla strada, c’era una bella tacchina grossa.
(Testimonianza, raccolta nel 1975, di Maria Sacco, classe 1895, vissuta a San Donato di Mango tratta da "Masche" di Donato Bosca, Priuli & Verlucca editori)
La Masca: un ritratto della solitudine


Personaggio di solito femminile, dotato di poteri straordinari, affini a quelli attribuiti alle streghe della tradizione, la masca non era uno spirito, un’entità potente e inafferrabile, ma una persona comune, che viveva tra la gente e operava i suoi sortilegi su parenti, compaesani o semplici viandanti che per un qualche motivo urtavano la sua suscettibilità, accendevano la sua invidia o stuzzicavano la sua gelosia.

La sua fama cresceva di racconto in racconto nel corso delle vijà, le veglie che riunivano la famiglia e i vicini al caldo tepore della stalla, dove, dopo una giornata di intenso lavoro nei campi, le donne recitavano il rosario, cucivano e si scambiavano pettegolezzi, gli uomini giocavano a carte, i giovani corteggiavano le ragazze mentre i bambini ascoltavano rapiti i vecchi che, con le loro storie, perpetuavano la tradizione.

Il termine masca pare indicare, nella lingua longobarda, uno spirito ignobile, simile alla striga romana che divorava gli uomini, o un morto avvolto in una rete per ostacolarne il ritorno sulla terra e infatti, nella figura folklorica della masca si uniscono le caratteristiche delle streghe, maligne per definizione, e dei fantasmi, anime insoddisfatte e alla ricerca di rivalsa.
La Masca: caratteristiche, poteri, usanze


La masca è prevalentemente una figura femminile: la condizione di subalternità delle donne dell’epoca, il cui ruolo le vedeva esclusivamente dedite alla cura della casa, dei figli e al lavoro nei campi, faceva sì che la conoscenza delle proprietà medicinali delle erbe, la capacità di far da levatrici o di procurare aborti, creasse intorno a queste figure un’aura di mistero e di timore.

Del resto, poi, le donne accusate di essere masche erano di solito anziane, spesso segnate nel fisico (gobbe, cieche, claudicanti), nate settimine, dirette discendenti di una presunta masca o semplicemente persone dal temperamento bizzarro, asociale e scorbutico.

Esistevano, però, anche i Masconi, uomini che avevano ricevuto i poteri da una masca, ma non erano in grado di trasmetterli ad altri. Talvolta anche i preti erano ritenuti delle masche , in particolare i sacerdoti con alcune conoscenze mediche o particolarmente arcigni e severi.

La masca opera quasi sempre di notte o all’imbrunire, quando la vita della comunità si ferma e ognuno resta isolato in seno alla propria famiglia o solo lungo la strada buia, popolata di rumori e suoni animali, che possono stimolare l’immaginazione e la paura. Infatti i luoghi scelti dalle masche per i malefici erano quelli che caratterizzavano le comunità agricole del passato come la casa, la stalla, il bosco, i grandi alberi, le strade di campagna e i campi coltivati.

Le masche si incontrano e riuniscono in luoghi lontani dai centri abitati: questo punto è piuttosto controverso, in quanto secondo alcune fonti, in conformità con la più classica tradizione della stregoneria, le masche si riuniscono quattro volte all’anno in luoghi deputati (la cui tradizione "nera" è rilevabile ancora nella toponomastica, come, ad esempio, "Pian delle Streghe"): 2 febbraio (candelora), 1 maggio (crocefissione), 1 agosto (raccolto), 31 ottobre (vigilia di Ognissanti).

Secondo la maggior parte delle storie di masche, il Sabba non rientra tra le prerogative di queste fattucchiere, che non avrebbero rapporti diretti col demonio.

La masca vive ai limiti del paese: si tratta in genere di persone dal carattere scontroso, che si ritraggono nella loro solitudine e non socializzano col resto della comunità, creando in tal modo un circolo vizioso nel loro isolamento sociale.

La masca può mutarsi in animali: pipistrello, maiale, capra, biscia, gatto sono alcune delle sembianze che possono essere assunte dalla masca, che può comparire all’improvviso davanti al viandante notturno lungo i sentieri di campagna e spaventarlo a morte.

Le masche sono in grado spostarsi in volo e temono il sacro, ma possono frequentare le funzioni in chiesa, anche se, quando il prete fa il segno della croce, non sono in grado di guardare l’altare ma costrette a voltarsi.

La masca talvolta provoca malattia e morte dei neonati: la morte neonatale per cause sconosciute, il pianto incessante di un neonato in preda alle coliche gassose e le malformazioni congenite sono qualcosa che ha bisogno di una spiegazione il più possibile soddisfacente e non avendo a disposizione strumenti razionali, la masca è il capro espiatorio perfetto per eventi tanto traumatici e dolorosi, soprattutto se è una donna che non ha avuto figli (in altre località si dà la colpa a qualche strano animaletto).

È una profonda conoscitrice delle pratiche naturali: talvolta, anche se raramente, la masca agisce usando i suoi poteri e le sue conoscenze anche per aiutare il prossimo, ma il più delle volte erbe e piante medicinali sono utilizzate per creare pozioni venefiche e mortali.

È in grado di scatenare le forze della natura generando temporali violenti, tempeste che distruggono i raccolti, nebbie che disperdono i viandanti.

Il potere è trasmesso per via diretta a una figlia, una nipote o una conoscente semplicemente tramite il tocco. Una masca che non cede il suo potere è condannata a una morte lenta, tra indicibili sofferenze.
Se non ha nessuno a cui cedere il potere può scagliarlo su un albero di noce che seccherà all’istante o chi le sta accanto in punto di morte può metterle in mano il manico di una scopa, il cui legno dovrà essere bruciato nel fuoco del camino per purificare tutto e allontanare i poteri che ha assorbito.

Queste caratteristiche sono proprie della cosiddetta masca putasca, mentre un secondo tipo di masca, la masca anciarmà, è una donna che compie azioni malvagie senza rendersene conto perché a sua volta vittima di un maleficio, ovvero ammascata, condizionata dalla volontà di un'altra masca.
Le Masche e il Libro del Comando


Secondo molti racconti le masche derivavano il loro potere da un libro, il Libro del Comando, vergato direttamente dalla mano di Satana.

Ovviamente in un’epoca di scarsa alfabetizzazione, le persone che possedevano libri e in grado di leggere, in particolare il latino, destavano sospetto e paura, per cui il possesso di un tomo, magari avuto in eredità da un lontano parente e di cui non si era nemmeno in grado di decifrare i segni, metteva in sospetto la comunità.

Ci sono documenti parrocchiali che riportano notizia di roghi di libri ritrovati in casa di sospette masche, e le testimonianze orali di chi, alla fine del XIX secolo è stato testimone di tali eventi, coloriscono tali ricordi di ulteriore folklore, attribuendo alle fiamme generate dal rogo colori sgargianti e forme umane che si contorcevano e gemevano, mentre nell’aria risuonavano urla, fischi, risate e i rumori più assordanti.
Come smascherare una masca


La masca può essere riconosciuta perché, se durante un attacco sotto le spoglie di animale viene ferita, le ferite saranno visibili il giorno successivo sul corpo della donna colpevole del misfatto, ma anche perché non si lascia pettinare e non si ubriaca nonostante possa bere molto vino.

Ci sono poi segni più specifici, quelli propri delle streghe, come la presenza di un neo a forma di stella sulla spalla sinistra o una piccola protuberanza sul pube.

Se poi un uomo si accoppia con una masca tale esperienza è destinata a restare unica nella vita anche perché il malcapitato è destinato a morte, per disgrazia o male misterioso, entro 77 settimane.
Come difendersi da una masca


Allora quali difese adottare contro queste terribili megere?

Ancora una volta la fantasia popolare ha creato antidoti fantasiosi:

- portare al collo un sacchetto di tela grezza contenente un ossicino a forma di croce e peli di gatto, oppure, anche se meno efficaci, unghie di gallo, aghi di pino o piume di civetta catturata in una notte di plenilunio

- mettere sulla porta di casa alcuni fuscelli a forma di croce o una scopa di saggina sul focolare (la masca si metterebbe a contare i fili di saggina senza compiere malefici e sarebbe scacciata dal sorgere del sole)

- non lasciare i panni dei neonati stesi dopo il tramonto del sole perché una masca potrebbe toccarli e fare la "fisica"

- tenere qualcosa di benedetto a contatto col corpo

- non farsi toccare da una masca in punto di morte per evitare che trasferisca su di noi i suoi poteri
Le masche al giorno d'oggi


I tempi sono cambiati, il lavoro dei campi è meccanizzato, la televisione, internet, i cellulari, le automobili e gli aerei hanno ormai ridotto le distanze, la luce elettrica ha annullato il fascino del buio e delle creature che lo abitano, le vijà sono ormai solo il ricordo di pochi ottuagenari ancora in vita o evento cultural-turistico, una piccola recita del mondo che fu.

Ma le masche continuano a vivere nella terra di Piemonte, forse asservite a interessi turistici o semplicemente in tanti diffusi modi di dire, come:
Far vedere le masche: procurare dispiacere, tribolazione a qualcuno
Rubato dalle masche: espressione che si usa quando qualcosa prima a portata di mano, all’improvviso pare essersi volatilizzato
Furbo come una masca: persona abile e inaffidabile, pronta a cambiare le carte in tavola, facendo vedere il bianco per il nero.


Fonti Bibliografia:
Bosca D., Masche, Priuli e Verlucca, Torino, 1999
Mazzi B., Il piano delle streghe, Priuli e Verlucca, Torino, 2004
Centini M., Creature fantastiche. Fate folletti mostri e diavoli. Viaggio nella mitologia popolare in Piemonte Liguria Valle d’Aosta, Priuli e Verlucca, Torino, 2012


La Masca, la strega maligna del folclore piemontese
Articolo scritto da: Patty Barale
Pubblicato il 02/06/2013

Le Masche piemontesi

In passato contadini e abitanti del Piemonte credevano a streghe e diavoli e ogni volta che accadeva qualcosa di strano, si pensava che fosse stata opera delle masche, ossia delle streghe.Il termine MASCA è una parola molto antica e forse significa "anima di morto". Alcuni studiosi credono che la masca piemontese, sia simile alla BORDA, strega Toscana che uccideva i bambini con una corda e che era conosciuta anche in Emilia Romagna e in Lombardia. Spesso la masca oltre a essere cattiva era anche dispettosa e con qualità sovrumane. In molte località del piemonte si credeva che il sacerdote, mentre celebrava la messa, riusciva a individuare le masche e chiunque toccasse il sacerdote nel momento in cui lui avesse intravisto la masca, avrebbe acquistato i suoi stessi poteri. Un altro modo per trovare una strega in chiesa, era quello di mettere una croce nella pila dell'acqua santa e così la masca non poteva fuggire.A Camburzano si raccontava che le streghe, prima di morire, lasciavano il gomitolo con cui compievano i loro incantesimi a qualcuno che volesse continuare la loro attività e che lo sapesse dominare e comandare. Se la nuova padrona non sapeva comandarlo, le forze misteriose contenute nel gomitolo, la picchiavano. Nelle valli del Cuneese, si credeva che la masca, prima di morire, trovata la persona adatta a cui affidare la sua eredità di stregoneria, pronunciasse queste parole: "…ti lascio il mestolo". A Pragelato, le streghe prima di morire gettavano il bastone tra le vie, mentre nel Biellese, si credeva che la masca non potesse morire se qualcuno non collaborava con lei. Le masche sul punto di morire lasciavano un loro oggetto: chi il gomitolo, chi il mestolo, chi la scopa, chi il libro del comando; ogni oggetto aveva la propietà di trasformare in strega chi ne entrava in possesso. In alcune zone si credeva che nella stanza dove moriva la masca, svolazzasse per ore un moscone. Nel Cuneese, in alcuni racconti, la donna appariva come un'incantatrice, pronta a trasformarsi in masca ma soprattutto in gatto, animale maledetto o in prediletto dal demonio. I piemontesi, inoltre, credevano che le masche scioglievano le fatture fatte dai maghi e trasformavano la magia benigna in magia maligna. Gli abitanti del Canavese, mettevano di fronte ai casolari un ceppo bruciato nella notte di Natale, per allontanare il temporale, originato dalle masche. Ad Ingria in Val Soana, gli abitanti del paese portavano a benedire in chiesa tutto ciò ritenuto contagiato dalle masche. A Bairo per liberarsi dal maleficio, si mangiava pane benedetto in chiesa nel giorno di San Giorgio. A Vistroso nella Valle dell'Orco i bambini maledetti venivano fatti benedire per tre volte da tre preti differenti e passando, ogni volta, per un corso d'acqua. A Cimaprasole, la fontana di Nivolet portava sfortuna ai viandanti perché era frequentata dalle masche. A Canischio, nel monte Mores, c'era il ritrovo delle masche. Tra Rivara e Forno, un castagneto era il luogo di convegno di streghe e diavoli. Presso Castelnuovo Nigra, i bricchi di Filia grande e piccola, indicavano i luoghi dove furono condotte al rogo le donne accusate di incantesimi e stregonerie.Dal Canavese al Norvarese, c'era una lunga lista dove si ritiene abbiano dimorato le masche. A Ossola le streghe più famose erano la VAINA si presentava come un neonato che emettevavagiti pietosi, e la SPLORCIA, un mostricciattolo con muso da porco, ali da pipistrello, zammpe di rospo, muggiti, belati, miagolii. Vicino a Novara, si pensava che il terreno dove si era combattuta la battaglia e la sconfitta dei Savoia nel 1849, era popolato da spiriti, specie da un mago: in queste zone la credenza delle masche era cruda e drammatica. Il 29 settembre del 1472 a Forno Rivara, vennero bruciate tre donne del rogo mentre, nel 1474 nel Canavese, ci fu un processo contro quattro donne del posto, due delle quali furono bruciate vive a Prà Quazzoglio, con l'accusa di aver operato incantesimi e stregonerie. A Rivara, sempre nello stesso periodo, vennero accusate di stregoneria altre cinque donne e a Ciriè altre due donne vennero accusate per lo stesso motivo: le donne venivano sottoposte a torture o esorcizzate. L'esorcismo consiste nell'ottenere l'emissione per vomito, capelli, chiodi, pietre, animali vivi, oggetti. La tortura serve a costringere le donne ad attribuirsi colpe che non hanno e spesso sono condannate al rogo. Nelle Langhe e nel Monferrato, le levatrici e le madri dei bambini, hanno raccomandato di non lasciare ad asciugare all'aperto i panni dei bambini per evitare che uno spiritello portasse male ai bambini attraverso i panni. Si crede che per scoprire le masche e mandarle via, occorre bruciare la legna e le catene della stalla e colpirle con un bastone per costringerle a rivelarsi e a promettere di abbandonare le proprie magie. Un altro rimedio è quello di mettere sulla porta di casa dei rametti a forma di croce o una scopa sul focolare. Quando la masca arriva, conta i fili di saggina, ma non essendo abile in matematica, impiega molto tempo ed è scoperta dal suono delle campane dell'alba. Molti consigliano di circondare la casa con un filo di canapa filato da una ragazza vergine che prima di allora non avesse mai usato un foso. Le erbe anti-streghe e anti-malocchio è la ruta, l'ortica, la verbena, l'erba artemisia, la malva e le foglie di ulivo benedetto; in alcuni luoghi si guarisce il malocchio mettendo tre gocce d'olio in una scodella piena d'acqua appoggiata sopra la testa del malato. Per intensificare la cura, bisogna mangiare il cuore delle rondini perché è ritenuto un calmante.Se sono gli indumenti assoggettati da un incantesimo, è sufficiente farli bollire e recitare alcune formule di esorcismo. A Bernezzo si consiglia di far bollire la catena del focolare o la catena con la quale sono legati gli animali nella stalla, quando si ha il sospetto che le masche abbiano operato sortilegi. In Piemonte si ha paura dei gatti perché si crede che sotto il loro aspetto si nasconde quasi sempre una strega. Se un gatto si nasconde sotto una culla di un neonato, il bambino cresce deforme e se si deve lasciare solo un neonato è necessario mettere su una culla un indumento che serva a tenere lontane le masche (es.un cappello, una calza, ecc…). Nell'Albese, si posa sulle fasce di un neonato un panno con disegnata un'immagine sacra.Un'altra precauzione è quella di portare al collo un sacchetto contenente sale triturato misto a una candela benedetta; (il sale deve essere fine così la masca si incanta a contare i granellini). Le donne hanno l'abitudine di spargere sale nei letti e nelle stanze. Per compiere i loro malefici le masche si servono si servono di figurine di cera e di argilla per la pratica dell' iffissione. Pare si possa usare con gli stessi risultati un gomitolo, una candela o una calza. Nelle Langhe si utilizza il libro del comando e le formule magiche contenute. Altre credenze sono quelle relative alla morte e al buio. Il buio e la morte sono ritenuti fonte di pericolo per bambini piccoli, infatti si crede che se hanno fatto brutti incontri in tali periodo di tempo, possono diventare guerci, gobbi o pazzi. Chi riesce a scrutare la realtà a fondo, può prevedere il futuro. Chi indovina il peso esatto di uno oggetto prima di porlo sulla bilancia, a dei morti l'avvertimento che non ha tardato a prenderlo con loro. C'è la credenza che bisogna lavare tutto ciò che il morto ha indossato per non trattenerlo sulla terra e lasciarlo andare presto in cielo. Si dice che le anime di morti che sono in purgatorio ascoltare le loro colpe, nelle sere calde estive, vanno nei cimiteri per vedere se sono ancora ricordate e invocare preghiere, e si mostrano in fiammelle che vagano nelle tombe. Alla sera prima della ricorrenza dei morti e uso nelle case contadine lasciare sul tavolo della cucina una zuppiera di minestra e un piatto di castagne: in quella notte i morti di famiglia si trovano a bancheggiare. La linea di demarcazione tra concezione magica e concezione religiosa è molto sottile. Il sacro e il profano si mescolano sempre alla vita quotidiana. Nelle Langhe è radicata la credenza che certe persone influiscono negativamente su bambini e animali e per togliere la maledizione si ricorre a una fattucchiera o si chiede una benedizione speciale al sacerdote o si ci rivolge ai poteri guaritori di erboristi o settimi, a volte accompagnati dalla fama di stregoni. Di settimi ed erboristi , ce n'è in quasi tutti i paesi e i pazienti giungono a consultarli anche molto lontano, e quelli del paese consigliano non medicine del posto per essere più liberi. I guaritori consegnano decotti che in alcuni casi sono miracolosi: cure che non spesso hanno una loro spiegazione logica.

fonte web

sabato 11 luglio 2020

Ildegarda

Nonostante nel medioevo vi sia una fioritura di fenomeni mistici e di monaci e monache visitati da visioni, furono in realtà rarissimi i casi in cui tali visioni vennero accreditate come veritiere e profetiche, come per Ildegarda. Fra i criteri importanti, allora come ora, l'assenza di narcisismo: Ildegarda non si auto-nomina profetessa e non pubblica il contenuto delle sue visioni fino ai suoi 45 anni, quando le giunge l'ordine esplicito di farlo. Sottopone alle autorità ecclesiastiche le sue parole e attende di essere esaminata dalla commissione nominata dal papa per questo. Ricevuto l'assenso, inizia a dettare pagine e pagine su ogni aspetto dello scibile, dall'astronomia alla medicina, dalla fisica alla teologia, dalla filosofia alla cristalloterapia. In ogni campo, emerge l'aspetto dinamico delle visoni, che le si presentano innanzitutto come immagini in movimento.

Le visioni la accompagnano fin da piccolissima. Come racconta lei stessa:
"Nel mio quinto anno di vita vidi una luce così grande che la mia anima ne fu scossa, però, per la mia tenera età, non potei parlarne...

sabato 25 aprile 2020

Gostanza da Libbiano Diocesi di Lucca 1535 - c. post. 1594

Nel XVI secolo in Toscana l’uso del cognome era ancora limitato alle famiglie dell’élite. Per identificare tutti gli altri si aggiungeva al nome proprio il nome del padre o quello del paese d’origine. Ma nel caso di Gostanza, filatrice, levatrice, guaritrice, indovina e presunta strega vissuta nella Toscana del secondo Cinquecento, seguiremo l’uso dell’unica fonte che ci informa delle sue vicende biografiche, il processo verbale dell’inchiesta inquisitoriale per stregoneria alla quale Gostanza fu sottoposta a San Miniato, nel Ducato di Firenze facente parte della diocesi di Lucca, nel novembre del 1594. «Monna Gostanza da Libbiano» in realtà non era nata a Libbiano e non vi risiedeva al momento dell’arresto. La scelta da parte degli inquisitori di questa località per identificare la donna non fu casuale. Libbiano era infatti il paese nel quale Gostanza si era trasferita una volta rimasta vedova, nel quale aveva cominciato la sua attività di levatrice e guaritrice, conquistandosi una certa nomea. Non è neppure casuale che Gostanza abbia iniziato a dedicarsi in modo “professionale” a questa attività dopo la morte del marito, un evento traumatico che esponeva spesso le vedove a una condizione di solitudine e fragilità economica, premesse dell’emarginazione sociale.
Le ragioni che portarono Gostanza di fronte all’Inquisizione devono infatti essere cercate nella situazione contraddittoria in cui veniva a trovarsi una figura come la sua; nella mescolanza di disprezzo, timore e sospetto con cui veniva considerata dai compaesani e dalle autorità. Gostanza, come molte altre vetulae che assistevano le donne al parto e si dedicavano alla medicina popolare, era una donna sola, marginale, ma tuttavia dotata di un certo potere e di un certo ambiguo prestigio che le derivava delle sue vere o presunte capacità taumaturgiche. Una donna alla quale molti erano spinti a rivolgersi nei momenti di maggiore necessità, come i parti o le malattie. D’altro canto, proprio in virtù di questi poteri, naturali o soprannaturali (la distinzione era all’epoca meno ovvia di quanto oggi non apparirebbe) queste dominae herbarum, erano temute e spesso odiate. Chi sa curare in fondo sa anche far ammalare – “guastare”, come si diceva bambini, uomini, bestie e raccolti – e persino uccidere. Un parto finito male, una malattia che la donna non fosse riuscita a guarire, lasciavano uno strascico di risentimenti e il bisogno di trovare un capro espiatorio.
Inoltre, dal tardo medioevo ma ancor più nell’età della Controriforma e dello sforzo della Chiesa cattolica per sradicare quelle credenze popolari, la guaritrice, prima tacitamente tollerata, era diventata una figura sospetta e l’origine dei suoi poteri veniva attribuita a un patto con il demonio. Anche per la gente comune, dunque, i confini fra conoscenza empirica dei rimedi vegetali, magia bianca e magia demoniaca si facevano fluidi, e il giudizio dell’opinione pubblica su queste donne pericolosamente incerto. Nel corso del processo, ad esempio, il ciabattino Mastro Pasquino dichiarò inizialmente di «conoscere detta monna Gostanza per donna da bene» ma che quando era «ito per sua negotii a Bagno, ha inteso dire che l’è una strega et maliarda». Chi aveva invece le idee chiarissime in materia era il giovane inquisitore francescano Mario Porcacchi, che dalla letteratura sulla stregoneria aveva ricavato un’immagine per lui chiara della natura demoniaca e dei delitti che le streghe commettevano per istigazione del loro signore.
E quest’immagine Mario Porcacchi riuscì ad imporla, anche tramite il ricorso alla tortura, alla sua vittima: la povera Gostanza confessò quindi la partecipazione al Sabba, con le inevitabili sregolatezze alimentari e sessuali, fino al congiungimento carnale con il “Gran Diavolo” e ovviamente i malefici contro compaesani ostili. Un racconto, quello di Gostanza che assomiglia a migliaia di altri in Italia e in Europa, ma con alcuni interessanti scostamenti. Innanzitutto il suo è un Sabba urbano, che non si svolge in remote località di campagna ma in una città «più bella di Firenze, dove ogni cosa è messa a oro». Gostanza vive dopotutto in una delle regioni più ricche e urbanizzate d’Europa. Inoltre, pur ammettendo i connubi con il demonio e i malefici, Gostanza ebbe l’accortezza di non confessare mai quella che per gli inquisitori era la colpa più grave, ovvero l’apostasia, il rinnegare esplicitamente la fede.
A salvarla – perché la sua è stata fortunatamente una storia a lieto fine – contribuì forse anche questo elemento, ma soprattutto il crescente scetticismo e la crescente prudenza della Chiesa cattolica nei confronti della stregoneria. Di questo orientamento, nella nostra vicenda si fece interprete l’inquisitore di Firenze, Dionigi di Costacciaro, intervenuto in un secondo tempo nel processo, che imporrà al suo giovane e intransigente collega di rimettere in libertà Gostanza perché «alla fine s’è veduto che cotesta povera vecchia tutto a detto per tormenti e non è vero niente».
(in foto Liliana Castagnola, attrice)

martedì 7 aprile 2020

La strega Catalina Lay, maista de partu di Seui


Si erano rifugiate nell'oscuro grembo del mondo contadino che le aveva generate. Chiamate streghe, mazineres, bruxas o encantadoras in catalano, cogas e mayarzas in sardo, erano donne che conservavano dentro di sé il potere delle antiche sibille, la sapienza delle prime fadas, le janas oracolari dalla vita lunga come l'infinito e dalle ancestrali virtù.

Eredi delle antiche dee e sacerdotesse, le streghe in Sardegna erano creature che avevano appreso e accumulato conoscenza mentre gli uomini inventavano la guerra. Ree di coltivare culti remoti e di aver appreso i segreti del mondo, erano da distruggere e cancellare. Così aveva sancito la Santa Inquisizione, istituzione ecclesiastica spagnola, attiva su tutti possedimenti su cui gravava la dominazione della corona iberica -isola sarda inclusa-, nata nel 1478 per combattere le eresie contrarie all'ortodossia cattolica.

Catalina Lay levatrice di Seui - piccolo paese dell'Ogliastra - faceva parte delle donne giudicate streghe. Arrestata dall'arcivescovo di Cagliari si era ritrovata il giorno di ferragosto del 1583 ad ascoltare l'autodafé - la proclamazione della sentenza di condanna - scalza sulla piazza della Carra a Sassari, città in cui, dal 1563, aveva sede il tribunale inquisitorio. Non era sola, con lei altre otto donne trai trenta e i sessant'anni: Joanna Porcu e Clara Dominicon di Sedini, Antonia Orrú di Escolca, Pasca Serra di Villanofranca, Catalina Pira di Tertenia, Sebastiana Porru di Gemussi, Catalina Escofera di Cuglieri.

 Tutte accusate di essere fattucchiere, attentatrici dell'ordine voluto da Dio, maliarde malefiche, amanti e adoratrici del diavolo. La caccia alle superstizioni e ai sacrilegi aveva colpito in particolar modo le donne: l'84% delle persone processate in Sardegna per stregoneria era infatti di sesso femminile. Colpevoli di carpire l'autorità divina le presunte streghe dovevano essere denunciate, stanate e pubblicamente additate.
Le levatrici furono da subito perseguitate perché secondo il "Malleus Maleficarum" - manuale di demonologia del giudice inquisitore - erano le principali fautrici delle eresie più gravi ossia erano schiave del demonio, potevano impedire la procreazione, minavano la fertilità e sopprimevano feti e neonati immolandoli al diavolo.

Quelle donne - in sardo chiamate levadoras, aggiutadoras o maistas 'e partu - erano empiriche e terapiste che presiedevano ai momenti della nascita aiutando le altre donne con la loro esperienza e abilità. Una particolare occupazione che, a causa dell'alta mortalità infantile a cui erano soggetti i piccoli appena nati, circondava queste figure di un'aura misteriosa.

Rispettate e allo stesso molto temute avevano, secondo le credenze popolari, potere di vita e di morte, un'autorità a loro conferita che attribuiva a sas levadoras facoltà di agire sul ciclo dell'esistenza delle famiglie e del paese a cui appartenevano.

 Con la loro conoscenza di erbe e rimedi erano capaci di provocare l'istrumingiu, l'aborto, o divenute accabadoras avevano il compito di recidere il filo della vita. Una libertà di movimento e di azione che usciva dalla tutela patriarcale collocandole fuori dal focolare e dagli schemi precostituiti dell'ordine sociale quelli che ancora relegavano le donne dentro le mura domestiche.
Catalina Lay accorreva quando veniva chiamata. Percorreva svelta le ripide discese e salite di pietra del suo paese per giungere ai capezzali delle puerpere. Di lei non sappiamo molto, pochi i cenni biografici che emergono da antiche carte. Sicuramente aveva oltrepassato l'età fertile e aveva dei figli. Non è certo se avesse imparato dalla madre come spesso accadeva, una sapienza che si tramandava di generazione in generazione lungo la linea femminile. A volte capitava invece che era il destino o la necessità a decretare l'iniziazione di una levatrice, quando ad esempio si doveva giocoforza assistere a un parto perché in casa non erano presenti altre donne. Se l'occasione faceva emergere delle qualità promettenti, la donna cominciava a essere chiamata anche da partorienti non legate da vincoli di parentela che chiedevano i suoi servigi.

Non sempre questo lavoro era retribuito. Sovente rientrava in una rete di legami di solidarietà femminile e reciproco aiuto ossia s'aggiudu torrau o prevedeva l'omaggio di beni alimentari di prima necessità.

Catalina Lay non era soltanto una maista de partu, ma era anche donna esperta in pratiche magiche divinatorie. Coloro che la denunciarono, la accusarono di aver operato dei sortilegi malefici.

Secondo le testimonianze riportate negli atti processuali, a Catalina era stato chiesto di "infrenare" un pettine per ritrovare un cavallo rubato a Cagliari. È difficile stabilire esattamente in cosa consistesse l'infrenare. Secondo lo studioso Salvatore Loi, che ha rinvenuto i documenti in archivio, sarebbe una pratica con cui si incanta un oggetto perché di riflesso il sortilegio colpisca e renda inoffensiva una persona che ha commesso qualche danno. Da quello che emerge sembra che la pratica magica ebbe buon esito e il cavallo fu recuperato, mentre il pettine magico fu nascosto sotto un sasso.
Altro rituale che spesso Catalina eseguiva era "gettare il piombo", l'incantesimo più diffuso nell'isola. «Consisteva sostanzialmente nel gettare del piombo fuso in acqua semplice o di mare, ma nella maggior parte dei casi, si utilizzava acqua benedetta», scrive Salvatore Loi nel suo lavoro "Streghe, esorcisti e cercatori di tesori".

Mentre si recitavano appositi berbos si versava in un corno o in una ciotola dell'acqua in cui si gettava un cagliarese (moneta in uso a quel tempo) e piombo liquido fuso con l'aiuto di una lucerna. Il recipiente veniva posto sulla testa di chi chiedeva la pratica magica la mattina presto all'alba. Attraverso il piombo e il modo in cui si addensava o reagiva con l'acqua, le curatrici riuscivano a sanare mali o ad annullare gli effetti delle fatture. Simili al piombo, anche la cera o le chiare dell'uovo potevano essere versate in acqua per pronosticare guarigioni o decretare morti.

Catalina Lay, come la maggior parte delle donne reputate streghe, aveva ammesso di aver stretto un patto col diavolo. Tre sono le udienze dove a più riprese, dopo esser stata sottoposta a tortura, racconta cosa le accade tra spiriti vestiti di verde che la tormentano, esorcismi, stupri e sabba orgiastici in onore di un Dio caprone che si svolgevano in un luogo chiamato "Su riu de su suergiu".

«La relazione con il diavolo ebbe inizio quando una donna le consigliò - poiché era povera e disperata senza possibilità di sostentare alcuni figli - di fare il digiuno per sei domeniche offrendolo al signor Empera che era il demonio; egli le avrebbe dato quanto gli avesse chiesto, facendola uscire dalla povertà e dalla necessità in cui versava», si legge negli atti del processo. È quindi un'altra strega che le suggerisce come invocare la presenza satanica. «Doveva digiunare a pane acqua per tutto il giorno fino a notte; doveva farsi la croce con la mano sinistra e recitare alcuni berbos».
In cambio della devozione, il Maligno l'avrebbe protetta in tutto. Le disse di non avvicinarsi ai sacramenti e di non andare in chiesa.

 A Catalina il demonio, che le si era presentato come signore di nove località, appariva sotto forma di un uomo molto grande e peloso o di un giovane cavaliere, ma anche con le sembianze di capra, asino o bue. Si congiungeva carnalmente con lei ogni quindici giorni di sabato o domenica. Catalina confessò poi di avergli donato anche l'anima.
Varie volte nei documenti la donna cambia versione per poi ammettere, così sembra, tutto quello che l'Inquisizione vorrebbe sentire. Persino le disgrazie vengono imputate al culto satanico. Uno degli episodi che desta più impressione riguarda il momento in cui il diavolo chiede alla sua adoratrice di uccidere il proprio figlio. Il bambino di nove anni muore perché si rovescia addosso una caldaia di lisciva che bolliva sul fuoco, accidente che secondo la presunta strega è causato dal diavolo perché lei non aveva obbedito all'ordine.

È ancora il diavolo a ordinarle di uccidere i neonati premendo il pollice sotto il mento per strozzarli. 
«Li faceva morire alla nascita prima che potessero vagire, dando a intendere che nascevano morti». Oppure si introduceva nelle case, soffocava i piccoli e, come una vampira surbile, ne succhiava il sangue che poi non deglutiva ma teneva in bocca per depositarlo, una volta raggiunta la propria abitazione, in un corno in cui mescolava sangue e grasso con cui sono avvolti i bimbi quando nascono. Preparava così un unguento che si spalmava nelle mani, nelle piante dei piedi, negli occhi e sotto le ascelle grazie al quale potersi intrufolare nelle case e uccidere altri bambini.

Le carte processuali descrivono la presunta perdizione della levatrice trascinata in un turbine di eventi tali da farle perdere il senno. I mormorii del villaggio la inchiodano, Catalina non può più camminare per strada senza essere additata come donna amorale da scansare.
La donna decide quindi di confessarsi, di riconciliarsi con la Chiesa. Il demonio taglia così di colpo il legame sulfureo che aveva intrecciato con lei. La strega torna a essere una buona cristiana, ma non si salva dalla pubblica gogna. 
In quella calda giornata di agosto in piazza a Sassari tutti sentono le sue colpe e ascoltano la sua condanna: sei anni di carcere , duecento frustate e penitenze varie. Riconciliata pubblicamente con le formalità di rito, subí la confisca dei beni e fu costretta a indossare l'abito penitenziale, il sambenito. 

Forse fu davvero donna esperta di magia nera o forse gran conoscitrice dei arcani meccanismi del mondo o forse semplicemente vittima della sua miseria, della superstizione più bieca quella capace di seminare morte e distruzione.

Seui, il suo paese d'origine, non l'ha mai dimenticata. A lei è dedicata una stanza de "Sa omu de sa maja", il museo che ospita collezioni relative al mondo magico religioso e alle tradizioni precristiane della Barbagia di Seulo. Perché nessuno ignori la sua storia, la sorte di donne come lei e quella arcana conoscenza che mescolava sacralità della natura, antiche credenze e potere femminile. 



Le notizie sono tratte dalla trilogia "L'inquisizione e i sardi" di Salvatore Loi.

sabato 7 dicembre 2019

Dal Malleus Malleficarum


Una delle tecniche di tortura in voga presso Santa Romana Chiesa, nel periodo che va dal 1480 al 1650, inflitte alle streghe ed agli eretici, consisteva nel prendere un topo vivo e di inserirlo nella vagina o nell’ano con la testa rivolta verso gli organi interni della vittima e spesso, l’apertura veniva cucita. La bestiola, cercando affannosamente una via d’uscita, graffiava e rodeva le carni e gli organi dei suppliziati.

martedì 26 novembre 2019

L'acqua Tofana

«L'uomo uccide con la forza
e la lama è la sua arma,
la donna uccide con astuzia
e il veleno è il suo espediente»
Il veleno è da sempre l'arma di difesa e offesa di moltissimi animali e piante, ma l'uomo ha saputo estrarlo ed usarlo per uccidere i propri simili per poter affermare e continuare il proprio albero genealogico.
In passato si usava dire che il veleno era l'arma preferita dalla donne perché procura una morte invisibile, atroce e molte volte senza lasciare tracce. In realtà il veleno è ed è stato largamente usato anche dagli uomini, che ne hanno fatto il mezzo più adatto per sviare i sospetti e simulare una morte naturale.
Anche in Italia abbiamo avuto alchimisti e erboristi che hanno estratto e sperimentato veleni mortali, ma uno dei più letali è sicuramente "l'acqua tofana", conosciuta anche come acqua perugina, acqua di Napoli o Manna di San Nicola.
Tra il XVII e il XIX secolo l'acqua tofana venne ampiamente utilizzata da Roma in giù, specialmente dalle donne che, insoddisfatte dei propri mariti (o smaniose di denaro), volevano diventare vedove il prima possibile.
La scoperta (o meglio la prima fabbricazione) viene attribuita a Giulia Tofana, una cortigiana originaria di Palermo che nel 1640 elaborò la ricetta della pozione mortale. Incolore, insapore e inodore, era un'arma micidiale con cui eliminare una persona senza destare alcun sospetto, anche perché l'effetto era ritardato di giorni e nessuno riusciva a ricondurre la morte ad altro che un attacco di cuore.
Giulia Tofana con la sua acqua divenne ricchissima e le richieste erano talmente numerose che dovette comprare una distilleria per poter far fronte a tutti. La donna assunse la nomea di "fattucchiera", ma nonostante questo ogni giorno alla sua porta si presentavano persone di ogni età e casta a comprare il suo veleno. Eri insoddisfatto del coniuge? Il tuo vicino ti rubava il raccolto? Un giovanotto faceva smanceria a tua figlia? Il tuo rivale politico ti metteva in ridicolo? Nessun problema: gli si offriva da bere e tutto finiva nel migliore dei modi, ovviamente non per chi beveva…
L’acqua tofana aveva la stessa consistenza dell'acqua e poteva essere tranquillamente diluita in ogni bevanda senza creare reazioni sospette. Secondo gli scritti del tempo per crearla bisognava seguire alla lettere la ricetta originale stilata da Giulia Tofana, che era più o meno questa:
Si metteva dell'acqua in una pentola e si aggiungeva arsenico macinato e limatura di piombo o di antimonio e si metteva il tutto a bollire premurandosi di coprire la pentola in modo che l'acqua non evaporasse. Quando l'acqua tornava limpida e incolore la pozione era pronta e poteva essere imbottigliata. E' probabile che la mistura contenesse anche belladonna, ma non venne mai dimostrato. In ogni caso ne risultava una soluzione di sali di arsenico e piombo ad altissimo tasso di tossicità che bastava versare nel vino o in una minestra.
In genere provocava vomito e dopo qualche giorno sopraggiungeva la febbre; la morte per avvelenamento avveniva qualche giorno dopo, a seconda della dose ingerita dalla vittima.
Per celare il reale scopo della sua acqua Giulia Tofana la vendeva come cosmetico o come acqua benedetta di san Nicola (più tardi addirittura la si imbottigliò in fialette recanti l'immagine del santo) e in pochi anni, solo a Roma, le morti sospette legate a quell'intruglio furono centinaia.
A svelare il veleno mortale fu una donna pentita di aver ucciso il suo consorte che si andò a confessare e fece anche i nomi dei fornitori e delle comari che lo avevano utilizzato.
Lo scandalo culminò nel famoso “processo dei veleni” del 1659 in cui vennero imputate 46 donne. Nessuna di loro ricevette la grazia e, per monito alla gente, alcune furono impiccate nel Campo de’ Fiori, altre furono murate vive nelle carceri dell’Inquisizione.
Una variante dell'acqua tofana era già in voga nel 1630 e veniva chiamato "liquore mortifero". Lo scopo era lo stesso (eliminare una persona scomoda), ma in realtà era acqua in cui venivano messi a mollo topi morti di peste o presi dalle fogne. Si diceva che poche gocce bastassero per essere contagiati dal terribile morbo.
La paura del contagio portò ad una vera e propria isteria di massa, e a Roma si diffuse l'idea che alcuni uomini scellerati usassero il liquore mortifero per versarlo in fontane, pozzi e in ogni luogo dove vi fosse dell'acqua. perfino le acquasantiere delle chiese. Quella credenza scatenò il sospetto in chiunque si immettesse in luoghi comuni come taverne o il mercato e a volte nascevano risse o discussioni per le cose più frivole. La leggenda vuole che nessuno entrando in chiesa osasse più bagnarsi la mano con l’acqua benedetta e un giorno, quando il sacrestano della chiesa di S. Lorenzo Damaso vide un poveretto intingere le dita per farsi il segno della croce, cominciò a gridare all'untore provocando nella basilica un fuggi fuggi generale

sabato 7 settembre 2019

Il Malleus Maleficarum



Fra il 1227 e il 1235 una serie di decreti papali instaurò l’Inquisizione con lo scopo di reprimere le azioni malvagie di streghe ed eretici. La bolla "Ad extirpanda" del 1252 di Papa Innocenzo IV autorizzò l’uso della tortura per estorcere confessioni di stregoneria da parte delle persone "ragionevolmente sospettate".
Dal 1257 al 1816  l’Inquisizione torturò e uccise molte migliaia di persone (si pensa milioni) innocenti accusate di eresia contro i dogmi religiosi e giudicate in base a confessioni estorte col terrore della tortura. Se confessavano erano dichiarate colpevoli, se invece non lo facevano erano considerate eretiche e passavano giorni atroci di continue torture finchè morivano o rimanevano invalide a vita. Spesso poi quelle che resistevano anche alla tortura venivano arse lo stesso sul rogo con un'altra accusa, solitamente di stregoneria. Era praticamente impossibile sfuggire alla propria sorte.
Si stima che nei tre secoli più attivi, dalla metà ‘400 al '700, furono sterminati 9 milioni di innocenti, e la cosa peggiore è per l’80% si trattava di donne e bambine. I loro beni venivano confiscati al momento dell’accusa e l’intera famiglia di riflesso veniva spodestata di ogni bene. 
Gran parte delle accuse erano dovute al desiderio di impossessarsi dei soldi di un proprietario terriero, oppure di eliminare una persona scomoda, o ancora per invidia. Le accuse erano le più disparate: stregoneria, provocare le tempeste e le carestie, essere indovini, essere guaritori manipolati del diavolo, praticare riti funerari non cristiani, ecc.. Ogni attività in contrasto con la Chiesa veniva utilizzata per accusare uno sventurato.
Il Malleus Maleficarum fu compilato e scritto da due monaci inquisitori domenicani, Heinrich Kramer e Jacob Sprenger, che nel testo sostenevano di avere ricevuto poteri speciali per processare le streghe in Germania per ordine di Papa Innocenzo VIII con un decreto papale del 5 dicembre 1484.
I giudici di allora, con il manuale del Malleus davanti, incriminavano il sospettato secondo il principio per cui "il reo deve accusarsi da solo e se non lo fa volontariamente qualsiasi mezzo è lecito". Uno dei metodi più utilizzati per attuare i principi del manuale era buttare in acqua colui che era ritenuto colpevole con un masso legato al collo; se affogava (ma guarda un po’!) era connotazione di colpevolezza e di peccato, se restava a galla era un indemoniato e pertanto andava giustiziato sul rogo.
In quei tempi l’Inquisizione trasformò il Malleus Maleficarum in una vera arma nelle sue mani, istituendo un regno di terrore su tutto il territorio europeo.
Le regole erano molto semplici: ogni processo in cui avessero giurato due o più testimoni veniva considerato valido e giusto e non importava investigare se i testimoni erano effettivamente a conoscenza dei fatti o meno. Bastava semplicemente che affermassero qualcosa che conducesse a screditare malcapitato. Immaginate quindi come ci si procurava i testimoni al tempo: minacce, o più spesso indulgenze o ricompense in denaro; a volte addirittura erano loro stessi accusati, ma si dava loro quella come una via di salvezza, ovvero accusare un altro per salvarsi la pelle.
Le domande trabocchetto prosperavano in ogni interrogatorio, architettate allo scopo di ingannare il presunto reo e mettere in condizioni i testimoni di rispondere secondo prassi.
Per fare un esempio di questi trabocchetti pensate a domande del genere:

«Voi credete al demonio, alle fatture e alla possessione?»
«No, non ci credo!» (un sì avrebbe concluso il processo già qui)
«Dunque per voi le donne bruciate sono state condannate di stregoneria ingiustamente?»

La risposta che dava la sciagurata di turno a questo punto non aveva più nessun valore, perché la colpevolezza era stata accertata dalla prima replica, dal fatto che non credere nella stregoneria trasformava il tutto in vera eresia.
Quando una strega veniva riconosciuta e posta agli arresti venivano prese varie precauzioni affinchè non potesse più nuocere e i suoi poteri venissero azzerati:
- le veniva negato di calpestare il suolo terreno per non aver contatti con Satana, il cui regno era risaputo dimorare negli abissi della terra, e veniva posta in una cesta e sollevata da un’asse;

- quando ’ella era di fronte al Giudice supremo doveva essere presentata di spalle, così da evitare ogni possibile tentativo di contagio con gli occhi;

- i magistrati stessi ordinavano alle guardie di non avvicinarsi alle sospettate per non venire a contatto con la loro carne infetta;

- i giudici più superstiziosi portavano al collo dei sacchetti contenenti erbe benedette e sale consacrato nella domenica delle palme, il tutto sigillato con una speciale cera. 
La paura era il grande alleato degli inquisitori e in parecchie situazioni vanificava l’uso della tortura stessa. Il Malleus consigliava ai magistrati che l'accusato fosse denudato e, se femmina, che fosse condotta in galera e lì denudata da donne pure e illibate per ammansire la sua mente e imprimerle la consapevolezza dei suoi peccati.
Il Malleus Maleficarum è infatti stato scritto come un manuale dal duplice insegnamento:

- quello che conoscono tutti, ovvero metodi corporali per esortare il presunto eretico o presunta strega a confessare i suoi crimini (la tortura): normalmente bastavano questi "accorgimenti" a costringere un prigioniero a confessare qualunque reato gli si volesse imputare;

- quello psicologico, ovvero giocare sulla psiche del malcapitato e obbligarlo a confessare di sua spontanea volontà: nei primi decenni la tortura portò alla morte di moltissime persone, ma molte di queste fino alla fine rifiutarono di ammettere i peccati che non avevano commesso; la Chiesa sapeva bene che così facendo la sua dottrina sarebbe stata messa in discussione e le vittime sarebbero state viste come martiri. Ecco perchè nelle successive pubblicazioni del manuale si inserirono tecniche per incutere timore (in realtà vero e proprio terrore) nei prigionieri, giocando sui loro affetti, sulla loro credibilità, sui loro dubbi e soprattutto sulla loro ignoranza.

domenica 19 maggio 2019

La bolla papale "Ad extirpanda": torturare è lecito.


Il15 maggio 1252 papa Innocenzo IV, nell' ambito della lotta ai movimenti ereticali che furoreggiavano in quel XIII secolo (come per esempio quello della mistica protofemminista Guglielma la Boema, che predicava in Milano),  emana la bolla "Ad extirpanda". Con questa bolla il papa autorizza il ricorso alla tortura per estorcere confessioni ai sospetti di eresia, categoria che includeva non solo gli eretici in senso stretto, ma anche coloro che seguivano altre fedi o tradizioni: gente come i catari od i valdesi ma anche streghe, guaritrici, herbane...
Il nome della bolla viene da uno dei suoi passaggi iniziali, dove si legge 《Ad extirpanda de medio populi christiani haereticae pravitatis zizania...》ovvero 《Per estirpare la diffusione nel popolo cristiano della maligna perversione eretica...》 e la sua emanazione segue di poco  e non casualmente l'assassinio dell' inquisitore generale di Milano Pietro da Verona, che il 6 aprile era stato ucciso a roncolate in testa nel bosco di Farge a Seveso (Milano) da cittadini comuni e catari esasperati dalla sua spietatezza - per divenire poi santo taumaturgo contro l'emicrania. Era insomma in corso quasi una guerra e non sarebbe del tutto sbagliato dire che le radici della nostra cultura sono cristiane perché se ne avevi altre le bruciavano

(In foto dal web: raffigurazione della diffusissima tortura detta "del tratto di corda" e considerata (dagli inquisitori) lievissima: le braccia venivano legate dietro la schiena ed ai polsi era collegata una fune tesa da una ruota, girando la quale il malcapitato veniva sollevato da terra con conseguente immediata lussazione delle spalle. Ulteriore aggiunta potevano essere i "tratti" ovvero lasciar andare all' improvviso un tratto di corda cosicché la vittima, precipitando ma senza toccare terra, subisse ulteriori dolorisissimi strappi, resi ancora peggiori dall'aggiunta di pesi ai piedi)

martedì 26 marzo 2019

Del legame tra donna e gatto


Dal punto di vista storico-sociale, ci si può invece collegare a un’accusa che ancora oggi viene mossa ai gatti: di essere animali pigri, opportunisti e approfittatori, privi di qualsiasi attaccamento ai loro umani. Una caratterizzazione che si trascinano dietro dai secoli in cui la donna era soggetta prima all’obbedienza al padre poi, dopo il matrimonio al marito. Non è certo un segreto che per secoli in un nucleo familiare al di fuori il ruolo di potere sia spettato all’uomo, un potere assoluto o quasi sulla moglie e sui figli e che non tollerava forma di disobbedienza alcuna. Anche negli animali l’uomo nelle ere passate ha sempre ricercato doti atte alla servilità e alla sottomissione. Il cane, in questa ottica, è quindi “cosa da uomini”, mentre il gatto, col suo carattere indipendente e in quanto tale un pericolo al potere assoluto del maschile, è stato sminuito e disprezzato, mantenuto affamato perché fosse spinto a cacciare i topi annidati dentro casa. Ed è proprio all’interno della casa, di fronte al focolare, che donna e gatto iniziano a legarsi, entrambi confinati in un ruolo interno alla casa e ad obblighi di natura familiare, malvisti come membri in ascesa sociale e a cui è negata la ribellione. E’ proprio il binomio che si crea precedentemente alla caccia alle streghe a spingere gli inquisitori, quando il tempo delle persecuzioni giunge, a condannare gatto e donna in coppia; persino Belzebù, nei processi riportati nel Malleus Malleficarum, ha l’aspetto di un grosso gatto nero. Il felino diventa inoltre il simbolo del male, servitore di Ecate, regina delle tenebre che aveva creato i topi per nutrirlo. Oggi sappiamo che le donne condannate al rogo in gran parte altro non erano che erboriste, e come tali dirette concorrenti dei medici, figure maschili: ancora una volta, il potere vuole soffocare la liberta’ di pensiero e delle azioni, e non può quindi accettare di veder sovvertito l’ordine sociale a causa di donne che non si adattano al ruolo per loro ritagliato da secoli.

mercoledì 16 gennaio 2019

I sabba di Benevento



Nel VI e VII secolo i Longobardi costituirono il Ducato di Benevento e portarono con loro la tradizioni di riunirsi fuori dalle città, intorno ad un albero sacro, albero di noce, da cui pendeva una pelle di caprone; qui si avevano corse e balli sfrenati. La cosa fu sempre considerata demoniaca dai Cristiani tanto da far abbattere l’albero. Più tardi ai guerrieri longobardi si sostituirono delle donne che venivano considerate malefiche.

Non sappiamo cosa avvenisse realmente durante questi incontri, ma è probabile che il Cristianesimo, per una ragione o per un’altra, vi abbia visto il diavolo in questi “riti”.

Quel che sappiamo è che a Benevento, ancora nel Medioevo, si celebravano riti risalenti al periodo dei Longobardi. Vicino all’albero di noci, che quell’antico popolo utilizzava per i lori riti pagani, le streghe medievali svolgevano i loro sabba. Esse affluivano qui da ogni regione, ognuna accompagnate dal proprio demone.

La Fossa delle Streghe di Cerreto Sannita, dove vennero cacciati i diavoli dopo essere stati sconfitti da San Michele, streghe e demoni si incontravano ogni venerdì; e ogni venerdì notte, le streghe si incontravano anche nel centro del rione Mercatello. Esse continuarono a riunirsi e a celebrare le loro feste attorno ad altri alberi, almeno fino al XVII secolo.

D’altronde, la città fu sempre legata in qualche modo alla magia tant’è che il suo nome in origine era Maleventum (forse da “malìa”, ovvero ,”magia”). Furono i Romani a ribattezzarla Beneventum, in seguito alla loro vittoria contro re Pirro, nel 275 a.C.

A Benevento le streghe inquisite furono centinaia, molte di queste vennero condannate a morte

Esodo 22,17 << Non lascerai vivere una strega >>


Esodo 22,17 << Non lascerai vivere una strega >>

in origine in realtà era: << Non lascerai vivere chi opera nell'oscurità e mormora cose >>

Basta questo a far comprendere l'accanimento che la Chiesa adottò verso le streghe che, pur essendo una loro ideazione per come oggi le conosciamo, dovevano esistere per tutta la popolazione, terrorizzandola, la "caccia alle streghe" era una vera politica del terrore! Andava non solo architettata la figura, ma anche le gesta che queste donne spregevoli compivano.

Come nasce il sabba delle streghe.

Nulla viene inventato, quelle che erano radicate tradizioni popolari vengono manipolate ed ecco che " Il Gioco di Diana ", festa che fino al Medioevo indentificava il gruppo di Sacerdotesse che si riuniva a cantare, ballare, propiziando abbondanza e protezione per la comunità e apprendendo l'Arte , assumerà nuovi ed inquietanti connotati.

Nel XII secolo tale festa, non più tollerata dalla Chiesa, venne bollata come demoniaca, nascerà il Sabba, nome formatosi dall'alterazione del termine ebraico Shabbat, tale espressione compare per la prima volta in un processo del 1446 in Francia.

Non è ancora chiaro agli storici moderni come il copione esatto del Sabba si sia man mano stabilito, nei processi vengono infatti registrate testimonianze identiche, o quasi, difficile resta stabilire se tali particolari venissero confessati spontaneamente dalle poverette convinte di averli vissuti, magari sotto allucinogeni, o se queste non confermassero sotto tortura semplicemente quello che loro veniva messo in bocca dalle domande incalzanti degli inquisitori.

Il Sabba si svolgeva prettamente nella notte tra il Sabato e la Domenica.

Le streghe vi giungerebbero nude volando a cavallo di scope o animali dopo essersi cosparse di unguento. Giunte sul luogo prestabilito, in Italia luoghi famosi di tali ritrovi sono Triora o il Noce di Benevento, ad attenderle troverebbero il Diavolo!

La sceneggiatura rigidamente stabilita prevedeva a questo punto che le streghe baciassero il sedere o i genitali di Satana che presiederà poi la riunione seduto su di un trono intagliato nel legno. Per prima cosa le adepte rinnegheranno la loro precedente religione, calpestando ostie consacrate e crocifissi, bestemmiando ed adorando Satana, in cambio queste riceverebbero il suo Marchio, simbolo che gli inquisitori cercano poi ossessivamente durante i processi.

Non mancava poi l'orgia, ricca di particolari in cui si arrivava persino a descrivere il seme di Satana freddo come il ghiaccio! Prima di concludere il tutto con un ballo sfrenato era previsto un banchetto.

Al canto del gallo il Diavolo distribuiva i poteri ai partecipanti così che, tornando a casa, potessero operare malefici tra le loro genti. Purtroppo ancora oggi questo si crede essere la realtà della stregoneria, le origini dell'Antico Culto sono state spazzate via da un buio Medioevo.

Nel Malleus, che gli inquisitori consultavano, si trova scritto:

 << Tutta la stregoneria deriva dalla lussuria della carne, che nelle donne è insaziabile >>

 In tali affermazioni ed ossessioni per le donne si intravede oggi una proiezione della colpevolezza di una Chiesa allora all'apice della corruzione. Il clero fornicatore, dedito al peccato dell'incontinenza sessuale, moralmente debole ed ossessionato dal peccato, scagliava contro le streghe tutte le sue colpe e vergogne.

Matteuccia Di Francesco

Uno dei primissimi processi è quello svoltosi a Todi, nel 20 Marzo 1428 nei confronti di Matteuccia di Francesco, processata perché reputata per pubblica fama una maliarda, definita con il termine incantrix e accusata di ben 30 capi d’accusa. A lei si rivolgevano, secondo il dossier, cittadini provenienti da tutto il contado, da Todi, Orvieto, Spoleto, in particolare per ottenere elisir d’amore o per impedire o favorire una gravidanza.

“…una certa donna di nome Catarina del Castello della Pieve per averne un rimedio per non rimanere incinta, non essendo ancora sposata ed avendo coabitato varie volte con un certo presbitero…e temeva che poteva verificarsi il caso di rimanere incinta…la detta Matteuccia disse di prendere un’unghia di mula, di bruciarla e ridurla in polvere e di bere detta polvere mescolata al vino, dicendo queste parole, cioè: io te piglio nel nome del peccato, et del demonio maiure, che non possa mai appicciare più…” Negli incartamenti si narra di come la donna, attraverso l’uso di particolari unguenti, potesse trasformarsi in gatta, la “masipula conversa”, dal termine latino musio poi erroneamente tradotto dal Mammoli, che ne riscopre il documento, con il termine di mosca. La trasformazione in gatto non è casuale, l’animale è infatti il famiglio delle streghe per eccellenza.  Molti sono i racconti popolari che narrano di ferite inferte da contadini ai gatti notturni poi ritrovate, il giorno successivo, sul corpo di alcune donne del paese.
Ma soprattutto appare per la prima volta il tema del volo al noce di Benevento, una storia che tristemente diventerà un punto fisso delle confessioni da tortura, Matteuccia sarà la prima strega ad esser condannata per il volo stregonesco corporalier “unguento unguento, mandame ala noce de Benevento, supra acqua et supra vento, et supra omne maltempo”. Anche in questo caso tra gli scritti del processo traspare la voce della corda, e stranamente, dalle accuse di magie e fatture si passa a quello che diventerà lo stereotipo della strega, ecco che “…molte volte andò a Stregato devastando bambini, il sangue degli stessi lattanti succhiando in molti e diversi luoghi…” come quando si recò al castello di Montefalco ove “…sugò e percosse suo figlio [il bambino della castellana Andreuccia n.d.A.] per il qual fatto il bambino si ammolò e si consunse…” e lo stesso fece ai neonati del castello di Canale e di Andria di Perugina.