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sabato 9 luglio 2022

Nefertiti e Nefertari

 


Nefertiti e Nefertari non sono la stessa persona.

Sono state due regine egizie vissute in due periodi differenti. 


Nefertari Meretenmut (1295 a.C. – 1255 a.C.). Grande Sposa Reale di Ramesse II, sovrano egizio della XIX dinastia, fu una delle regine più influenti dell'antico Egitto, a fianco di nomi come Hatshepsut e Cleopatra, pur non avendo regnato in modo autonomo. La sua tomba, QV66, è considerata tra le più belle della Valle delle Regine. 


Nefertiti (1370 a.C. – 1330 a.C.) Regnò a fianco del marito Akhenaton durante la XVIII dinastia, nel cosiddetto periodo Amarniano (da Tell el-Amarna, dove Akhenaton aveva portato la capitale). Poco si sa della vita di questa donna, anche se sembra improbabile che fosse di sangue reale.

domenica 26 giugno 2022

La strega nel cimitero di Chesterviĺle

 


Siamo in Illinois, in una cittadina chiamata Chesterville, ancora molto legata al passato e alle tradizioni. Lì vi risiede una comunità Amish che da secoli tramanda le tradizioni del loro rigido pensiero: il tempo a Chesterville sembra essersi fermato e la gente preferisce muoversi a cavallo, illuminare la notte con i lumi ad olio, vivere senza tecnologia e di cose semplici reperibili in natura.

Non molto distante da Chesterville c'è un piccolo cimitero, appositamente isolato dagli abitanti e difficilmente raggiungibile per chi non sa come muoversi lungo i sentieri; lì, tra le tante tombe, ce n'è una molto particolare sopra la quale è cresciuto un albero imponente: quella è la tomba della Strega di Chesterville!

La sua storia si tramanda di generazione in generazione, ma il suo nome è stato dimenticato e anche la lapide è talmente erosa da rendere le incisioni impossibili da leggere. Per comodità la chiameremo Lucy.

Nel 1600 Lucy era una ragazzina schietta, ribelle e a volte irrispettosa; era in pratica un'adolescente di 15 anni che voleva vedere il mondo e non restare confinata nella piccola e rigida comunità. Quei suoi atteggiamenti di certo non contribuirono a renderla piacevole agli anziani del villaggio, che spesso si trovavano a discutere sulle punizione da infliggerle per il suo carattere troppo anticonformista. 

Il culmine della tensione lo si raggiunse quando la ragazza sfidò apertamente l'autorità degli anziani protestando vibratamente per i loro modi ingiusti di trattare le mogli e i figli: probabilmente volarono parole grosse e la sua irruenza fu tale che il piccolo villaggio la etichettò come una strega, e gli Amish anziani decisero di bandirla dalla comunità. Assieme a lei il paese bandì anche la sua famiglia che fu costretta a rifugiarsi in una vallata non molto distante e vivere in una capanna di pietra e fieno usata dagli allevatori in estate.

Pochi giorni dopo quella decisione il corpo senza vita della 15enne venne trovato da un contadino in un campo vicino a Chesterville; i genitori di Lucy pregarono gli anziani del villaggio di darle una degna sepoltura nel cimitero della comunità, ma loro si rifiutarono e decisero di seppellire la strega durante la notte e di piantare un grande albero sulla sua lapide per intrappolare la sua anima nel terreno in modo che non potesse tornare indietro e cercare vendetta.

Secondo i racconti Amish il costruttore di bare e becchino della comunità vide più volte il fantasma della ragazza davanti alla sua porta di casa e gli anziani, il giorno prima della sepoltura, ebbero terribili incubi riguardanti il diavolo e un sabba di streghe. 

Quando Lucy venne seppellita, tutti erano timorosi perché temevano che sarebbe tornata dall'Aldilà per portare sfortuna e sciagure alla comunità che l'aveva abolita, così permisero alla famiglia di tornare tra di loro e, oltre all'albero, fecero una recinzione in ferro battuto per tenere la gente lontano dall'albero e non disturbare la sua anima.

Ancora oggi la lapide e la pianta sono visibili, ma sul tronco dell'albero c'è un profondo e antico taglio trasversale che la comunità Amish ha interpretato come l'azione di qualcosa di sovrannaturale che abbia voluto liberare lo spirito della strega. La comunità non osa nominarla perchè ha paura che lo spirito un giorno torni per vendicarsi.

Molti raccontano di strani rumori nel cimitero e di figure femminili vicino la tomba durante il plenilunio. Anche molti curiosi si sono addentrati nel bosco a osservare la tomba e hanno riferito di aver visto sfere incandescenti nel bosco ed aver ascoltato suoni provenienti dall'albero e dalla lapide.

Nella comunità Amish c'è una forte convinzione che se l'albero dovesse morire o essere rimosso l'ira di Lucy si abbatterà su Chesterville e tutti si adoperano per scacciare chiunque si avvicini alla lapide della strega e ad aggiustare periodicamente l'inferriata attorno alla tomba in modo che il suo spirito resti sempre confinato al suo interno.

domenica 14 febbraio 2021

Janas: fate e streghe della tradizione popolare della Sardegna


Le janas o gianas sono gli esseri fantastici più conosciuti delle leggende sarde. Descritte generalmente come piccole donne magiche abitanti nelle tombe prenuragiche scavate nelle rocce (dette appunto domus de janas o domos de gianas), sono le protagoniste di numerosi racconti popolari, favole e fiabe in varie parti della Sardegna.

Oggi vengono identificate principalmente con le fate della tradizione europea e orientale. Tuttavia, è importante sapere che in Sardegna esistono numerose leggende sulle janas e che non sempre queste figure mitiche vengono descritte come fate ma bensì anche come streghe, maghe e vampiri.

Da Cabras a Pozzomaggiore, da Ghilarza al Supramonte di Orgosolo, da Esterzili al pozzo sacro di Santa Cristina, in ogni località dell’isola è possibile trovare leggende sulle janas streghe o fate. Ognuna di queste, come vedremo, è a suo modo unica: non cambiano solo i nomi delle janas ma anche le loro qualità fisiche, morali e spirituali.
Nella fantasia dei sardi, col termine janas o gianas, si indicano per lo più delle creature fantastiche di minuscola statura. La denominazione più diffusa nelle varie parlate dell’isola per indicare questi esseri è appunto quella di janas, gianas o giannèddas.

Tuttavia, in varie località dell’isola il loro nome in sardo cambia. Per esempio, a Perdas de Fogu vengono indicate col termine mergianas, a Isili margianas, in Barbagia con quello di bírghines e, nel territorio sassarese e tempiese, si chiamano per lo più li faddi. Ma non solo. I
Ad Aritzo la mitologia sulle janas ci racconta di piccole fate, alte non più di venticinque centimetri, dotate di un’intelligenza superiore a quella umana. Vivevano in piccole case scavate nelle rocce ed erano molto industriose. Infatti, si erano costruite “tutti gli arredi delle loro piccole case e tutti gli strumenti necessari alla vita”, coltivavano il grano e facevano il pane, e andavano alla ricerca di varie erbe officinali nonché a caccia di animali che mangiavano crudi.

Miti, favole e leggende sulle janas della Barbagia narrano inoltre che nelle belle giornate di sole, le fate sarde erano solito porre all’aria aperta i loro arredi e i loro oggetti più preziosi. Ma poiché temevano gli esseri umani per la loro statura, ritiravano tutto alla svelta e si nascondevano nelle loro domus de janas chiudendone gli ingressi con grosse pietre. Ciò perché queste piccole fate non amavano entrare in contatto col mondo esterno, preferendo al contrario vivere la loro magica esistenza lontano dalla realtà umana, verso la quale non si dimostravano né malefiche né benefiche.n alcuni paesi esistevano anche janas di sesso maschile, in altri le janas erano fate buone mentre in altri ancora rassomigliavano piuttosto a streghe se non addirittura a vampiri.
A Fonni le leggende sulle janas raccontano di esseri minuscoli sia di sesso femminile che di sesso maschile. Una delle loro peculiarità era la bellezza e venivano descritte come incantatrici. Ciò era legato anche al fatto che avessero una voce tanto deliziosa quanto ammaliante. Vivevano nelle domus de janas che si scavavano con maestria da soli grazie all’utilizzo di vari arnesi come ad esempio le accette.

A Belvì, paese poco distante da Tonara ed Aritzo, le janas venivano descritte come bellissime e ricchissime donne, giunte da paesi molto lontani. All’inizio amarono gli uomini, regalando loro ogni sorta di ricchezza e facendo loro del bene, come trasportare magicamente gli oggetti pesanti o badare alle greggi al pascolo.

Erano fate generose e mansuete, che vissero a contatto con gli esseri umani fino a quando questi furono buoni e si comportarono bene. Ma siccome il genere umano, col tempo, divenne sempre più egoista, malvagio e interessato solamente alle loro ricchezze che custodivano nelle rocce o in altri siti magici, le janas decisero di abbandonarli e scomparire. Ed è per questo motivo che non si vedono più in giro.

A Tortolì in Ogliastra le janas sono sempre state descritte in maniera del tutto particolare. A differenza di quelle della Barbagia e del Mandrolisai, la mitologia e il folklore di questa regione della Sardegna hanno consegnato ai posteri delle gianas con delle mammelle lunghissime che erano solite gettarsi a mo’ di capelli dietro le spalle. Tale gesto si dimostrava quanto meno necessario sia per non far toccare i lunghi seni a terra quando lavoravano, ma anche per allattare i bambini. Infatti, le janas ogliastrine si portavano sempre dietro i loro figlioletti, inserendoli in particolari ceste che si legavano sulla schiena.

Inoltre, queste creature erano caratterizzate dall’avere delle lunghissime unghie di ferro o d’acciaio, grazie alle quali si erano scavate le loro domus nelle rocce senza l’ausilio di alcun arnese. Ma non solo. Le unghie potevano anche essere utilizzate contro gli esseri umani da queste maghe e streghe, considerate dalla mitologia sarda molto dannose.

Per nulla indifferenti alle sorti degli uomini, con i quali hanno convissuto a lungo, a Tempio le janas sono state spesso descritte, come già accennato, alla stregua di janas streghe o janas malefiche.

A Oniferi così come a Nuoro le janas sono streghe o maghe dannose per gli esseri umani che devono far di tutto per non incontrarle, men che mai entrare nelle domus de janas dove, oltre alle loro proverbiali ricchezze, avrebbero trovato ad attenderli terribili mostri divoratori di uomini.

A Isili le janas hanno sempre avuto il dono di leggere nel futuro ma fare profezie anche decidere il destino degli esseri umani. La loro presenza è storicamente associata a quella dell’antico e bellissimo nuraghe Is Paras alle porte del paese. Ancora oggi, secondo alcuni, è possibile sentire il rumore del telaio d’oro, specialmente la notte, quando si mettono al lavoro per tessere le loro incredibili stoffe.

Un telaio d’oro sarebbe custodito nell’affascinante quanto tenebrosa gola di Gorroppu e nel Supramonte di Orgosolo. Secondo alcune leggende sarde janas e altre creature magiche avrebbero abitato a lungo in questi luoghi inaccessibili agli esseri umani. In particolare, una bellissima fata si nascondeva in una grotta, il cui ingresso era celato da piante e arbusti, all’interno della quale lavorava col suo telaio dorato. A dire di qualcuno, questa sarebbe stata anche un’abile amazzone.

Anche a Nuragus le janas erano descritte come donne molto ricche e incredibilmente belle, che non si facevano mai vedere di giorno per paura che il sole rovinasse e bruciasse la loro candida pelle. Dotate di dita fini e delicate, tessevano tutto il giorno delle splendide stoffe e dei preziosi broccati in favolosi telai d’oro. Si trattava di creature dalla duplice natura: erano, infatti, gentili e soavi, ma si trasformavano in creature terribili se venivano guardate e molestate dagli esseri umani.

Proprio per quest’ultima ragione, a Cabras come a Pozzomaggiore e a Ghilarza, le janas sarebbero scomparse dal mondo degli uomini. Fuggendo, però, avrebbero lasciato il loro tesoro nascosto da qualche parte, ma sino ad oggi nessuno l’ha ma trovato. Uno dei più celebri sarebbe nascosto sulla collina di Montoe, dove una volta esisteva un magnifico palazzo abitato dalle janas.

Un’altra celebre dimora delle janas è stata individuata dalla tradizione popolare di Esterzili in un antico tempio, simile a quelli che edificavano i greci e denominato Sa domu ‘e Orgia (Orgìa). Questa era infatti una jana strega, per nulla amata dalla gente, che la cacciò via dal tempio. Ma prima di partire, la donna si vendicò, lasciando due vasi: uno pieno di api e l’altro di musca macedda. A quanto pare, i due orci stanno ancora là, sotterrati chissà dove.

A Laconi le janas sono simili alle panas, le anime delle donne morte di parto, che si riuniscono sulle rive dei fiumi e lavano i panni dei loro neonati.

Anche a Orosei si sono tramandate alcune leggende che identificano le janas a fantasmi di donne morte. Uno degli esempi più noti è quello di Maria Mangrofa, l’ultima custode del villaggio scomparso di Ruinas, dal quale avrebbe portato con sé un telaio dorato, delle stoffe d’impareggiabile bellezza e un immenso tesoro. Donna bellissima, fata e strega, la jana di Orosei sarebbe ancora oggi la vera custode della sorgente di Su Gologone e avrebbe il potere di far guarire dalle malattie degli occhi.

Anche a Tonara le leggende più antiche riportano come fosse impossibile distinguere tra janas femmine e janas maschi. Questo perché gli individui dei due sessi erano uguali se osservati esteriormente dagli esseri umani: vestivano in maniera identica e avevano tutti una figura piccola e tozza.

Vivevano in caverne e antiche domus alle porte del paese. Quando qualcuno si avvicinava alle loro abitazioni, le janas stendevano un meraviglioso velo tutto bianco e magicamente filato, che ricopriva tutta la campagna. Le persone che non erano a conoscenza di questo artificio ne rimanevano estasiati e affascinati, e allo stesso tempo ammaliati. In questo modo, il velo si rivelava essere simile alle tele dei ragni e lo sfortunato passante veniva catturato dalle piccole creature e gettato in una buca insieme ad altre vittime.

Un triste destino lo attendeva, però. Egli, infatti, diventava la preda della Jana Maista, la malefica regina delle janas, che gli succhiava il sangue.
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Patrizia de Ciuceis, Antonella D'alfonso e altri 5
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lunedì 4 gennaio 2021

Il portale nord della chiesa di Urnes - Norvegia (XI secolo)


 I serpenti e i draghi attorcigliati rappresentano la fine del mondo secondo la leggenda nordica dei Ragnarök.


Ragnarǫk (in islandese moderno anche Ragnarök e Ragnarøkkr) indica, nella mitologia norrena, la battaglia finale tra le potenze della luce e dell'ordine e quelle delle tenebre e del caos, in seguito alla quale l'intero mondo verrà distrutto e quindi rigenerato.
Il nome è composto da ragna, il genitivo plurale di regin (dèi-poteri organizzati) e il plurale neutro rǫk (fato-destino-meraviglie; genitivo: raka), poi confuso con røkkr (crepuscolo).

Il termine probabilmente più antico è ragnarǫk, che significa "fato degli dèi". Ragnarøkkr significa invece crepuscolo degli dèi, ed è quest'ultima la denominazione più celebre dei Ragnarǫk, grazie anche all'opera di Richard Wagner (Götterdämmerung). Gli storici hanno corretto quest'ultima traduzione; in particolare il francese Claude Lecouteux, ha sostenuto che il significato originario sia "giudizio delle potenze"

sabato 2 gennaio 2021

L'antico mito della «lingua degli uccelli»

Si dice ai bambini, quando vogliono sapere come abbiamo fatto a conoscere un loro segreto e non vogliamo scoprire il gioco: – Me l'ha detto un uccellino… Può essere che questa frase non sia del tutto casuale, dal momento che i pappagalli e le gracule parlano, altri uccelli si dicono saggi, come il gufo, la civetta e soprattutto le nostre favole sono piene di uccelli parlanti.
DI CARLO LAPUCCI


Si dice ai bambini, quando vogliono sapere come abbiamo fatto a conoscere un loro segreto e non vogliamo scoprire il gioco:
– Me l'ha detto un uccellino… Può essere che questa frase non sia del tutto casuale, dal momento che i pappagalli e le gracule parlano, altri uccelli si dicono saggi, come il gufo, la civetta e soprattutto le nostre favole sono piene di uccelli parlanti.

In realtà una credenza popolare diffusa vuole che gli uccelli parlino tra loro e quelli che noi riteniamo canti siano invece loro conversazioni. Di fatto sono gli unici animali capaci di pronunciare una parola umana, ma pare che il loro linguaggio sia da interpretare come lingua completamente diversa dalla nostra. Nella tradizione marchigiana, toscana, umbra, romagnola si trova sovente il motivo di favole nelle quali l'eroe viene a conoscenza della lingua degli uccelli e, ascoltando le loro conversazioni, conosce tutto, tutto prevede, per cui arriva a sposare la figlia del re e procurarsi una buona sistemazione a corte. Si dice anche che chi impara la lingua degli uccelli sia destinato ad essere re o papa.

Pitrè riferisce una fiaba siciliana, di probabile provenienza araba, con questo tema, però nella saga nordica dei Nibelunghi Sigfrido, bevendo una goccia del sangue del drago Fafner che ha ucciso, comprende immediatamente la lingua misteriosa e un uccello ha addirittura una parte nel Sigfried di Wagner.

Dietro di noi il paganesimo aveva istituzionalizzato l'arte di vaticinare attraverso gli uccelli. Gli àuguri erano appunto i sacerdoti che si occupavano di trarre questi auspici, inizialmente dal volo e dal canto degli uccelli, poi l'indagine si fece anche attraverso i tuoni, i lampi, le eclissi, le comete e altro.

Questa materia è collegata all'arte divinatoria, nella quale da noi furono maestri gli Etruschi, tanto che l'aruspicina era detta etrusca disciplina. Alla religione etrusca si fa risalire l'origine di tale pratica, in particolare a Tarconte al quale sarebbero state fatte le rivelazioni fondamentali della religione etrusca dal dio Tagete che balzò dal solco tracciato da un contadino a Tarquinia. Con il corpo di fanciullo e il volto di vecchio, apparve, visse e scomparve in un solo giorno durante il quale lasciò i suoi insegnamenti che furono trascritti poi nei Libri Aruspicini.

L'origine della tradizione
Adamo ed Eva – si credeva – conoscevano bene sia il linguaggio degli animali che quello delle piante: commesso il peccato non si ricordarono più una parola. Nella tradizione poi Salomone, ricevuta da Dio la sapienza, tornò a conoscere il linguaggio degli animali, ma si guardò bene da rivelare ad alcuno il segreto. Per tradizione antichissima, ancora non spenta, si vuole che gli animali parlino tra loro la notte di Natale, ovvero in quella dell'Epifania. Guai a quel contadino che, udendoli, s'intromette nei loro discorsi: cade morto di botto. Si tratta di qualcosa di più serio d'un gioco: sono reminiscenze di qualcosa si molto antico.

Aulo Gellio, nelle Notti attiche (IX, 12), riferisce che si attribuiva a Democrito la teoria che certi uccelli hanno la propria lingua e parlano tra loro. Inoltre insegna che, mescolando il loro sangue, si genera un serpente, mangiando il quale si arriva a comprendere le parole degli alati. Plinio nella Storia naturale (X, 70), ricorda Melampo, mitico indovino che dava i suoi vaticini tolti dalla lingua degli uccelli. Anche in questo caso furono i serpenti, da lui allevati, che, leccandogli le orecchie, vi infusero la virtù di conoscere il linguaggio degli animali. Il collegamento magico tra il serpente e l'uccello è rivelato nella nostra fiaba col suo percorso costante: la forma che più frequentemente assumono le fate è quella della serpe.

Melampo, forte di questa abilità, se ne servì in molte divertenti occasioni, come quando chiese ai tarli, che rodevano le travi della sua stanza, se ne avevano ancora per molto: sentendo che stavano per finire il lavoro, uscì e si salvò dal crollo per miracolo. Ma il colpo grosso lo fece salvando la solita figlia del solito re (Preto si chiamava), sistemandosi benino.

Si tocca così la connessione col sacro di questa strana credenza, diffusa sia pure in modo diverso in una grande quantità di popoli. Che gli uccelli siano messaggeri di Dio in senso proprio lo si è creduto in epoche arcaiche, ma sia pure a distanza di millenni la cosa ha lasciato il suo segno, anzi, quasi alle soglie della nostra epoca si è trasformata prendendo forme sempre più fantastiche ed evanescenti, entrando nelle dicerie, nelle favole, nelle superstizioni che impediscono di cacciare e uccidere certe specie, mettendone altre sotto il patrocinio di divinità come è per noi la rondine protetta dalla Vergine. Questo ha tenuto viva la suggestione che gli uccelli, più delle altre creature, sapessero del mistero del mondo, comprendessero la nostra vita meglio di noi e comunicassero con la loro voce cose che qualcuno riusciva a carpire. Del resto figure diversissime ne hanno subito il fascino: da San Francesco che parla loro come a esseri umani, a Leopardi che scrive l'elogio degli uccelli, per non ricordare Cristo che li addita come esempio, come i fiori.

Che la Terza persona della SS. Trinità compaia nel Vangelo sotto forma di colomba non è un caso, mentre si va perdendo la nostra cognizione del passato e dei messaggi che ci ha lasciato. Ad esempio l'immagine assai comune degli uccelli che bevono a una fontana passa dai mosaici bizantini toccando tutte le epoche, ma un tempo era intuitivo che sì, era simbolo delle anime che s'abbeverano alla verità, ma era altresì pacifica l'allusione che la fontana, soprattutto se aveva tre getti, era l'immagine di Dio e gli uccelli che ne ascoltavano la voce erano le anima umane. Infatti lo spazio sacro del giardino, soprattutto il chiostro, aveva al centro la fontana, il cui mormorio era segno della voce divina, sia per la nostra che per la tradizione islamica.

Una credenza comune, semplice, che ha lasciato una traccia anche nel linguaggio (confidare nella propria buona stella), affonda le sue radici nella notte dei tempi e si presenta ancor oggi molto diffusa: che ogni vita umana sia legata a una stella e da questa dipenda la sorte buona o cattiva secondo che sia benevola o malevola. Essendo considerato il cielo stellato nient'altro che l'esercito di Dio schierato a battaglia (cosmos) è naturale l'identificazione delle stelle con gli angeli e come queste detengono i decreti della volontà divina, gli angeli l'attuano sulla terra e tra gli uomini.

In realtà, come accenna R. Guénon, (La lingua degli uccelli in «Simboli della scienza sacra», Adelphi, Milano 1975, pag. 56), questa credenza sposta l'origine in tempi remotissimi, quando gli uccelli furono visti come messaggeri degli dèi e i loro canti furono presi per parole e, siccome i canti degli uccelli sono di solito belli, l'uomo pensò che in alto ascoltassero la voce di Dio e quaggiù ripetessero le sue parole. Dunque gli uccelli, abitatori del cielo, alati e canori, hanno molto a che fare simbolicamente con gli angeli, che sono appunto i nunzi e gli esecutori della volontà di Dio sulla terra: Tobia, le piaghe d'Egitto, l'annuncio alla Vergine e altri episodi.

La diffusione della leggenda
Un detto vuole che chi comprende la lingua degli animali è destinato a divenire papa, come si legge anche in una fiaba (Comparetti, Novelline popolari italiane, 1875. Il linguaggio degli animali, Novella LVI, pag. 242).

Il motivo della lingua degli uccelli è molto diffuso nelle fiabe, e anche in quelle toscane. La presenza di uno stesso tema in molte aree linguistiche di diversa civiltà o tradizione di solito è segno che all'origine esiste un elemento forte, quale potrebbe essere appunto il fatto religioso o mitologico che abbiamo indicato. Possiamo dire che tale mito è universale perché si trova in Africa in Cina e in molte tradizioni orientali.

Per fare qualche esempio relativamente all'area toscana questo motivo si trova a Pisa nella fiaba L'uccellino che parla (Comparetti 117-24); a Firenze, nella stessa fiaba raccolta dall'Imbriani (La novellaia fiorentina, 81-93); in molte località si trova ne L'uccel-bel-vede che è una fiaba assai diffusa; a Pratovecchio ne La gazza (G. Pitrè Novelle popolari toscane I, 63, pagg. 324-5); ne L'usignolo e i suoi ammaestramenti (Palazzi, Enciclopedia della fiaba, pag. 389) e l'assai nota Capra ferrata.

L'uccello parlante nelle fiabe viene a prendere il posto del vecchio saggio che all'inizio della sua avventura indica al protagonista i pericoli, gl'inganni ai quali andrà incontro, ovvero gli fornisce mezzi o stratagemmi per evitarli. Questo lo pone, sia pure nelle veste dimessa dell'animale, nella metamorfosi di un essere superiore, ovvero nel messaggero del destino o d'una forza sovrumana. Infatti la capacità di parlare si trova estesa poi anche agli animali in genere che dialogano con gli uomini che ne hanno la facoltà. Nelle Fiabe e leggende popolari siciliane del Pitrè vi è una narrazione nella quale Cristo concede a un uomo di intendere questa lingua con il divieto di rivelarlo ad alcuno, pena la perdita di tale potere. Così anche in una leggenda abruzzese.

Tra le popolazioni del mare ha una particolare importanza il gabbiano. Una credenza assai diffusa vuole che i gabbiani non siano uccelli, ma anime di marinai annegati con qualche debito col cielo, condannati a vagare sul mare per cento anni, dopo i quali saranno giudicati da Dio. Per antica usanza le donne quando vedono passare i gabbiani che vanno verso il mare affidano loro messaggi da portare ai loro mariti che navigano in acque lontane, certe che gli uccelli sapranno ispirare le loro parole nella mente dei propri cari. Le vedove un tempo si recavano sulle scogliere per chiedere quale sia stato il destino dei loro sposi dispersi nelle onde, credendo d'intendere le risposte nel gracidare dei gabbiani e nel suono della risacca.

Molte leggende cristiane di santi riferiscono di uccelli con i quali questi intrattennero colloqui e rapporti, o ne furono alimentati e soccorsi, anche per lungo tempo. San Benedetto addirittura, come racconta San Gregorio Magno, dava ogni giorno nella sua cella da mangiare a un corvo che obbediva ai suoi comandi e un giorno, senza neppure assaggiarlo, si accorse che un pane era avvelenato e lo portò dove nessuno avrebbe potuto toccarlo. Altri narrano che sia stato proprio il corvo ad avvertire il santo del pericolo, ma fu sempre un corvo a indicargli la strada mentre andava verso Montecassino a fondare il suo convento.

Di San Paolo eremita si racconta che, ritiratosi nel deserto per fuggire le tentazioni, abitò in una spelonca solitaria dove nessuno mai passava. Per tutto il tempo che visse un corvo giungeva a volo all'ora del pasto a portargli un pane e il Santo poté così dedicarsi allo studio e alla preghiera, senza la necessità di procurarsi il cibo. Ora, un giorno andò Sant'Antonio a visitarlo e l'eremita non sapeva cosa mettere in tavola, ma all'ora consueta, il corvo giunse portando due pani invece di uno, per sfamare anche l'ospite.

Lo schema di questa leggenda si trova nell'Antico Testamento: di Elia profeta si narra che un corvo gli portò per tutto il tempo che rimase nello speco di Carith, un pane che lo sfamò (III Libro dei Re, XVII, 6). La stessa cosa si racconta oltre che di San Paolo eremita, anche di altri Santi e di San Rocco si narra che questo fu fatto da un cane.

Non è quindi un caso che Noè abbia fatto uscire dall'Arca dopo il Diluvio, due uccelli destinati a portare l'annuncio della fine del Diluvio, prima il corvo, che non tornò, fermandosi a mangiare una carogna d'asino (Genesi VIII, 6) e poi la colomba.

Per una strana logica indecifrabile del mondo la civiltà industriale, invece di aver allontanato gli uccelli dalla nostra vita come ha fatto degli altri animali, li ha avvicinati. Infatti la caccia e l'agricoltura, coi fertilizzanti, i diserbanti, le bonifiche e la soppressione di corsi d'acqua e di zone umide, allontanano i poveri uccelli dalle campagne e dai boschi spingendoli sempre più dentro le città, dove pian piano si ambientano, si familiarizzano, si adattano trovando non solo una relativa pace nei parchi, nei viali, nei giardini, lungo i fiumi dove nessuno li prende a fucilate, ma trovano anche di che alimentarsi. E così, forse anche attraverso di loro, arriva a noi talvolta flebile e dolce l'antica voce di Dio.

Simbologia ed iconografia
Ancora Tomaso Garzoni (La piazza universale di tutte le professioni del mondoDiscorso XL) rinverdisce questa credenza nota anche nel XVI secolo, nel quale scrive e fa capire che alla lingua degli uccelli in qualche modo si credeva ancora.

A noi restano, di tutta questa illustre e fascinosa tradizione, oltre alle favole, le briciole che quasi nessuno ormai scopre nascoste come sono nella simbologia e nell'iconografia del passato. Nessuno fa caso ad esempio che nella rappresentazione degli antichi di solito ogni divinità appariva accompagnata dall'uccello che le era sacro: Giove con l'aquila, Atena con la civetta, Venere con i passeri, Giunone con la colomba e così gli altri.

Assai diffusa è la diceria che il canto della civetta porti guai, quello dell'usignolo amore, quello dell'allodola gioia, quello della rondine appena giunta dal mare reca pace e serenità, quello del cuculo danaro se, la prima volta che si sente a primavera, si ha l'accortezza di mettere la mano in tasca e toccare una moneta.

Tuttavia, tutto quello che vola, siccome qualcosa con il cielo ha a che fare, è capace di rivelare l'arcano. Il volo del moscone annuncia una visita, quello della vespa una novità, quello del pipistrello che entra in una casa vi porta discordia, poca allegria portano il canto dei gufi e delle cornacchie: ma si vuole che questa facoltà tali animali le abbiano avuta dal diavolo.

Curiosamente l'espressione lingua degli uccelli indicò in alchimia un sistema di procedere nella ricerca attraverso analogie ed equivalenze fonetiche nella convinzione che le parole abbiano delle connessioni segrete che si attivano attraverso i suoni.

Il gioco dei ragazzi
E' un gioco che fanno ancora i ragazzi quando vogliono formare un gruppo iniziatico che usa un linguaggio incomprensibile agli estranei.

Consiste nell'aggiungere alla fine d'ogni sillaba, più o meno rigorosamente identificata, i suffissi: -gasà, -ghesé, -ghisì, -gosò, -gusù, ripetendo la vocale della sillaba stessa. Una frase come: Gigi ha mangiato la mela, diventa: Gighisì gighisì hagasà mangasà giagasà togosò lagasà meghesé lagasà.

Così si usa raccontare una semplice storia con altri inserimenti precostituiti e variabili secondo le sillabe, come La storia della vecchia inecchia buffecchiaIl Vecieto nareto buffeto o Lu Re-befè-viscotta-e-minnè.

giovedì 24 settembre 2020

Il potente simbolo del Tanit


Un altro simbolo ricorrente, accompagna la storia dell’umanità, sin dall’alba dei tempi. 

Questo frattale, rappresenta la dea madre, portatrice di progresso e conoscenza, ma anche simbolo energetico, delle forze che governano la terra ed il cosmo, energia madre vitale, generatrice.

TANIT: lo ritroviamo nella sua forma classica, già in epoca fenicia in tutta la zona del mediterraneo ma anche in estremo oriente,  nelle Isole Canarie,  in Lapponia e con aspetti grafici leggermente diversi, in tutto il continente americano. 

Le valenze cambiano e si “aggiustano” nel tempo, ma il simbolo ed il suo significato iniziatico, rimane pressoché invariato, fino ai nostri giorni. 

È un triangolo isoscele appoggiato sul lato più corto, sormontato da un cerchio, le due figure geometriche unite da un segmento parallelo alla base del triangolo.  È spesso accompagnato da due elementi verticali laterali ( le colonne del tempio) che a volte,  la vedono coinvolta nell’atto di sostenerle.  Si intuisce chiaramente il simbolo rozzo di una figura umana, ma si ricollega anche, per analogia, al simbolo preistorico dell’ingresso o uscita del  labirinto,  nella sua forma stilizzata e sintetica.

Altre volte lo troviamo sormontato da un motivo ad arco che la sovrasta, una sorta di aura o parabola, della stessa forma e nella stessa posizione degli scudi flessibili delle statue di Mont’e Prama. 

La forma che va a comporsi superiormente, in questo caso, ricorda anche un rudimentale e stilizzato occhio onniveggente o occhio di ORUS. 

È il simbolo di Tanit, misteriosa signora del cielo e del popolo, anche simbolo lunare femminile, legato all’acqua e all’aria (uccello e pesce), ma anche androgino, al contempo, maschile e femminile, Unione degli opposti, a formare l’uno. 

È anche  legata saldamente al culto dei morti ed in particolare a quei rituali atti a garantirne la resurrezione del corpo dell’individuo, secondo la tradizione legata al “mito”.

È il riflesso di Baal Ammon, cioè la personificazione, della luce del sole ( una luce che si può guardare, perché luce riflessa, non diretta) - ( “era come guardare il sole che si muoveva, ma non dava fastidio agli occhi” - tratto da testimonianze dirette “Fatima”).

Questo simbolo subirà, nel corso dei millenni, diverse evoluzioni ed applicazioni, storiche, simbolico-religiose ed architettoniche: chiave della vita egizia, piramide tronca, Shiva lingam, pozzi lunari neolitici, kofun ed aniwa giapponesi, croce cristiana, simbologia massonica, ma anche pianta architettonica di molte cattedrali e di piazza San Pietro, in Roma. 

Possibili decifrazioni del simbolo: 

Entità fisica reale, di fattezze femminili,  forma di vita intelligente e fisicamente e storicamente esistita ed esistente, colei che vigila, istruisce e guida l’umanità. 

Energia della terra ( che viene dal basso -così in terra),  campo elettromagnetico terrestre, ma anche gravitazionale ( che irradia spaziotempo locale) che si incontra e si compenetra con ciò che viene dall’alto  ( come in cielo: onde gravitazionali cosmiche ma anche spaziotempo cosmico - come sommatoria di spaziotempi locali - tessuto spazioTemporale - dei singoli centri di gravità sparsi nell’universo)-( vedi: ipotesi dei campi tachionici e muonici che solo di recente, è stata ripresa in considerazione da alcuni fisici “illuminati” e che rischia di rivoluzionare dalle fondamenta, la fisica contemporanea), ma anche raggi cosmici di polarità opposta agli elettroni del campo magnetico terrestre. ( positroni ). (Incontro di Materia ed antimateria).

Piccola parentesi sui raggi cosmici:

( recentemente la fisica moderna ha dimostrato come i raggi cosmici, influenzino il clima e rivestano un ruolo fondamentale sui fenomeni di condensazione del vapore acqueo nell’atmosfera, condizionando la formazione delle nubi ).

Ecco tornare gli elementi cari a TANIT- aria-acqua (vapore acqueo) dai quali si formano, (nubi) e per differenza di potenziale elettrostatico rispetto alla terra, i fulmini (immense scariche ad alta tensione, senza l’ ausilio di combustibili fossili). 

Ecco che la signora delle palme, dell’acqua e del cielo, torna nella storia degli uomini terrestri, ad insegnarci e ricordarci chi eravamo e chi potremmo essere e a mostrarci la possibile strada da percorrere, per la salvezza del pianeta  ed il reale progresso dell’umanità. 

O magari,  ad uso e consumo degli scettici, questo simbolo ricorrente, rappresentato su pietra da antichi ingegneri,  costruttori, matematici ed astronomi, come immagine ricorrente a diffusione praticamente planetaria, è solo frutto di coincidenze, ignoranza e superstizione? 


Come sempre .... ogni persona trovi le proprie risposte e tragga le proprie conclusioni.

sabato 11 luglio 2020

Ildegarda

Nonostante nel medioevo vi sia una fioritura di fenomeni mistici e di monaci e monache visitati da visioni, furono in realtà rarissimi i casi in cui tali visioni vennero accreditate come veritiere e profetiche, come per Ildegarda. Fra i criteri importanti, allora come ora, l'assenza di narcisismo: Ildegarda non si auto-nomina profetessa e non pubblica il contenuto delle sue visioni fino ai suoi 45 anni, quando le giunge l'ordine esplicito di farlo. Sottopone alle autorità ecclesiastiche le sue parole e attende di essere esaminata dalla commissione nominata dal papa per questo. Ricevuto l'assenso, inizia a dettare pagine e pagine su ogni aspetto dello scibile, dall'astronomia alla medicina, dalla fisica alla teologia, dalla filosofia alla cristalloterapia. In ogni campo, emerge l'aspetto dinamico delle visoni, che le si presentano innanzitutto come immagini in movimento.

Le visioni la accompagnano fin da piccolissima. Come racconta lei stessa:
"Nel mio quinto anno di vita vidi una luce così grande che la mia anima ne fu scossa, però, per la mia tenera età, non potei parlarne...

Il termine "sbirro"

sbìr-ro

SIGN Guardia medievale; poliziotto

da birro antico nome dell'agente di polizia, dal latino tardo birrus rosso, preceduto da una s- intensiva.

Questa parola viene comunemente usata per indicare con un tono spregiativo gli agenti di polizia. Un tono che non è implicato dalla radice etimologica: infatti il riferimento al rosso ci racconta semplicemente il colore della casacca che certe guardie del medioevo e del rinascimento indossavano come uniforme.

Ma si può intuire il perché di questa piega spregiativa: questi sbirri dei tempi passati spesso non erano che il braccio armato del signorotto di turno, che li impiegava per imporre il suo potere sul popolo inerme. Niente a che vedere con corpi armati al servizio della giustizia.

Quindi, paradossalmente, in questa parola così scapigliata e ribelle, ritroviamo il retaggio di una memoria storica secolare - il maturo ricordo di un'oppressione bruciante. Anche se ben poco di tale dignità si trova nell'uso consueto di 'sbirro'

mercoledì 27 maggio 2020

Il profumo nell'antica Roma

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Grandi estimatori dei profumi furono i romani, i quali dopo una breve fase di apprendimento, iniziarono a usare queste sostanze sia nei banchetti che per gusti personali. Il profumo stava diventando portatore di messaggi, d’identità e umore tanto che persino i soldati usavano essenze piu adatte a infondersi coraggio.
I più usati in epoca romana erano:
– mirtumlaurum, composto da lauro e mirto;
– lasminum, basato sul gelsomino;
– illirium, ottenuto con i gigli di Pompei.
– cyprinum, aggregato di olio d’oliva, cardamo, calamo, hennè, aspàlato e resina.

mercoledì 20 maggio 2020

Sati il crudele rogo delle vedove indiane bruciate vive
















Bruciate vive sulla pira funebre del proprio marito appena deceduto. Sono le donne indiane che preferiscono morire, piuttosto che condurre una vita da vedove in India.

Questo è il sati, un’usanza nata nel Medioevo e dichiarata illegale nel lontano 1829, ma che ancora oggi viene praticata in alcuni piccoli villaggi asiatici.

E il perché una donna rimasta vedova, preferisca suicidarsi sulla pira del marito, è molto semplice.
Le comunità indiane legano il sati a una questione di devozione sconfinata per il proprio uomo, in realtà dentro le mura domestiche, si celano storie di violenza e vittimismo.

La donna viene considerata una proprietà, non ha potere decisionale, né diritto di parola né in casa e né fuori. La morte del marito però paradossalmente rappresenta una condizione ancora peggiore, quella in cui ella verrà estromessa dalla società, ostracizzata, isolata e considerata addirittura responsabile della morte del marito.

Sono le famiglie stesse a “consigliare” alle vedove di suicidarsi e le poche che decidono di non farlo, sono additate come portatrici di sventura perché hanno osato ribellarsi a un sistema patriarcale. Di certo, non possono continuare a vivere nel villaggio. La maggior parte, viene ghettizzata a Vrindavan dove le donne sono costrette ad indossare abiti bianchi in segno di lutto, a rasarsi la testa e a rimanere caste per tutta la loro esistenza.

Ecco perché a un inferno quotidiano, incorniciato da pregiudizi e stereotipi, le vedove preferiscono buttarsi vive nel fuoco. Dietro al loro gesto si nascondono storie di disperazione, di libertà negata, di dignità violata.

Immolarsi nel sati sancisce che in India la donna, senza un uomo, non vale nulla, allora meglio morire che essere un fantasma.

Il sati fa da contorno a storie già più volte raccontato, ovvero di femminicidi, vergogna per la nascita di figlie femmine, matrimoni di spose bambine con adulti.

Con tutto il sostegno della famiglia, la vedova decide “volontariamente” di suicidarsi per raggiungere il marito. Inizia quindi un controllo preliminare, perché chi è incinta o ha le mestruazioni, viene considerata impura e quindi non può essere bruciata viva.

Durante il sati gli uomini rendono omaggio al sacrificio. La vedova vestita con il sari di matrimonio pronuncia un rituale e si getta nel fuoco della pira funebre mentre attorno si marcia per ore assistendo alla lenta agonia del corpo in fiamme.

La donna ha il potere di lanciare maledizioni, può dar fuoco lei stessa alla pira oppure lo fa un fratello minore. I tamburi coprono le urla anche se secondo la tradizione, una sati non soffre nell’essere bruciata viva perché gettandosi nel fuoco si trasforma in una dea potente.

Capita (raramente) che le famiglie non siano d’accordo e gettino sul corpo acqua tinta con l’indago che è blu, il colore dei paria, ovvero degli intoccabili e quindi non sia più pura.

Se per questo motivo o per la pioggia il rito si interrompe, la vedova diventa una sati vivente e solo in quel caso, viene venerata dalla comunità.

Un rituale atroce e clandestino che trasforma la donna schiava in vita, in un’eroina da morta che si è sacrificata per stare vicina al proprio marito.

domenica 17 maggio 2020

Il tarassaco

Il tarassaco è noto fin dai tempi antichi per le sue proprietà depurative, tanto è vero che il suo nome deriva dal greco “tarakè” ossia “scompiglio, turbamento” e da “akos” che significa “rimedio”, da cui Taraxacum, nome datogli dagli Apotecari alla fine del Medioevo. Le foglie, facilmente riconoscibili nei prati con il loro profilo a grandi denti, sono ricche di vitamine del gruppo A, B, C e D mentre le radici hanno proprietà fortemente depurative per l’organismo. Attorno a questa pianta sono fioriti miti e leggende. Grazie al tipico “soffione”, che viene fatto volare via in un fiato, gli innamorati si scambiano promesse d’amore: se gli acheni, dopo il soffio, volavano via tutti, disperdendosi nel vento, i loro desideri, si dice, verranno realizzati. Il tarassaco viene anche definito scherzosamente “Piscialletto” per le sue forti azioni drenanti e depurative e perchè, ai bimbi viene raccontato che chi lo raccoglie, avrà problemini di incontinenza tutta la notte.Il tarassaco può essere utilizzato in cucina in svariati modi. Le foglie fresche possono essere aggiunte alle insalate (da mescolare ad altre a causa del loro gusto particolarmente amaro), o alle frittate (magari queste?), le foglie più grandi e coriacee, invece, sono ottime per minestre e zuppe. I boccioli dei fiori, messi sotto aceto e sale, sostituiscono i capperi e le radici tostate sono un buon surrogato del caffè (quello che si trova in vendita sotto il nome di “caffè di cicoria”). Con i fiori, infine, può essere realizzata un’ottima marmellata.

sabato 16 maggio 2020

Petra: gli scavi hanno rivelato un nuovo tesoro


I lavori serviranno per scoprire il cortile anteriore del Tesoro, la facciata dell'edificio più iconico della 

"città rosa"

Petra sarà oggetto di nuovi scavi archeologici. I lavori serviranno per scoprire il cortile anteriore del Tesoro, la facciata dell’edificio più iconico della “città rosa”. della Giordania dichiarata Patrimonio dell’umanità dall’Unesco nel 1985.
Lo scavo contribuirà a scoprire gli elementi architettonici della parte inferiore del Tesoro, oltre a completare il lavoro archeologico del 2003, che ha portato alla luce alcune tombe e facciate antistanti il Tesoro. Inoltre, lo scavo dovrebbe estendersi dal cantiere del Tesoro fino alla fine del Siq verso l’Anfiteatro nabateo.
Questo progetto mira a identificare l’effettivo utilizzo delle strutture archeologiche vicino al Tesoro e a scoprire il resto del sistema idrico e dei canali su cui l’antica città faceva affidamento in passato per drenare l’acqua piovana.
L’Autorità regionale per lo sviluppo e il turismo di Petra ha annunciato l’inizio dei nuovi scavi, che saranno finanziati dall’Autorità stessa in collaborazione con il Dipartimento delle Antichità, ha dichiarato Chief Commissioner del PDTRA Suleiman Farajat. Un team archeologico accademico dell’Università Hussein Bin Talal prenderà parte al progetto.
Secondo Farajat, il progetto ha anche lo scopo di aiutare a spiegare le ragioni della costruzione della facciata del Tesoro, in quanto vi sono più teorie sulla sua storia.Il lavoro sarà anche volto a eliminare i detriti delle alluvioni accumulati negli ultimi anni, che coprono parte del corridoio e l’area vicino al Tesoro.Gli scavi saranno accompagnati da un piano d’azione designato per riorganizzare i servizi forniti dal sito, i segnali di orientamento e le strutture pubbliche in conformità con i risultati del progetto.
Ancora oggi, infatti, Petra ha ancora molto da svelare. Solo pochi anni fa un altro scavo aveva riportato alla luce una clamorosa scoperta archeologica, quella dei  magnifici giardini da Mille e una Notte, con fontane e una grandissima piscina, che 2mila anni fa rendevano questa città nel deserto una vera e propria oasi. La Capitale dei Nabatei, infatti, era un vero paradiso in cui, anche in mezzo al deserto, era possibile coltivare piante e alberi, grazie a un sofisticato sistema di irrigazione e di stoccaggio dell’acqua. Una realtà rimasta ignorata per secoli fino alla scoperta.
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Petra, la “città rosa” @123rf