Pochi sanno che i ‘veggenti’ che dissero di vedere la madonna nel 1917 non erano [solo] tre, ma... 'quattro'.
Carolina Carreira, questo il nome della quarta veggente, è stata volutamente ignorata, poiché il resoconto delle prime apparizioni, da lei fornito, non collimava con le verità ufficiali che via via andavano emergendo. Quando alcuni ricercatori contemporanei l’hanno intervistata, da lei hanno sentito un racconto i cui particolari ricalcano stranamente le manifestazioni di carattere ufologico. Gli intervistatori sono rimasti sbalorditi quando, dopo aver chiesto a Carolina il perché non avesse mai raccontato prima la sua esperienza, si sono sentiti rispondere che semplicemente nessuno l’aveva mai cercata!
Qualunque verità sulle apparizioni di Fatima avvenute nel 1917, non è stata oggetto di indagine per 60 anni.
Le testimonianze originali sono rimaste rinchiuse per più di 6 decenni negli archivi segreti situati presso il Santuario di Fatima, ed i segreti celesti in essi contenuti, racchiudono ciò che la religione non può ammettere e ciò che la scienza non può spiegare. A complicare la situazione, c'è la presenza di un quarto testimone, una bambina di nome Carolina Carreira, la quale ha incontrato "un piccolo umanoide telepatico" nel momento in cui gli altri tre testimoni ebbero i loro incontri con l'essere che i credenti avrebbero deificato come la "Madonna di Fatima". Questo riassunto , mostra come la nostra moderna visione di Fatima non sia basata sugli eventi che si sono realmente verificati nel 1917, ma piuttosto, si basa su una "storia di copertina" inventata dalla Chiesa nel 1941.
Lo scopo di questo sforzo di propaganda è stato quello di nascondere la natura aliena dei contatti avvenuti a Fatima, facendoli passare per eventi "Mariani".
Nonostante nel medioevo vi sia una fioritura di fenomeni mistici e di monaci e monache visitati da visioni, furono in realtà rarissimi i casi in cui tali visioni vennero accreditate come veritiere e profetiche, come per Ildegarda. Fra i criteri importanti, allora come ora, l'assenza di narcisismo: Ildegarda non si auto-nomina profetessa e non pubblica il contenuto delle sue visioni fino ai suoi 45 anni, quando le giunge l'ordine esplicito di farlo. Sottopone alle autorità ecclesiastiche le sue parole e attende di essere esaminata dalla commissione nominata dal papa per questo. Ricevuto l'assenso, inizia a dettare pagine e pagine su ogni aspetto dello scibile, dall'astronomia alla medicina, dalla fisica alla teologia, dalla filosofia alla cristalloterapia. In ogni campo, emerge l'aspetto dinamico delle visoni, che le si presentano innanzitutto come immagini in movimento.
Le visioni la accompagnano fin da piccolissima. Come racconta lei stessa: "Nel mio quinto anno di vita vidi una luce così grande che la mia anima ne fu scossa, però, per la mia tenera età, non potei parlarne...
Di Laura Fezia Tanto per cambiare, anche la Pasqua è una delle innumerevoli feste pagane che la Chiesa ha scippato ad altre tradizioni, nonostante su molti siti, articoli o pubblicazioni cattolici potrete leggere che questa è una bufala. Non lo è, anzi, è la realtà storica ed è facilmente dimostrabile. Ma come al solito, i fedeli sono disposti a cambiare la Storia piuttosto che ammettere di credere in quella che è solo una favola inventata da tale Paolo di Tarso. I fedeli affermano che di Pasqua si parla nei Vangeli: questo è vero… ma si parla della PASQUA EBRAICA, durante la quale si sarebbero svolti i fatti narrati dal Nuovo Testamento. E la Pasqua ebraica nulla ha a che vedere con ciò che poi la festa sarebbe stata fatta diventare nel cristianesimo. La Pasqua ebraica – o Pesach – celebra un PASSAGGIO… e infatti il termine significa proprio questo: PASSAGGIO. Il passaggio di Dio che risparmia i figli degli israeliti e – di fronte al rifiuto del faraone di liberare gli ebrei – uccide quelli degli egiziani, consentendo al Popolo Eletto di liberarsi dalla schiavitù e di uscire dall’Egitto per raggiungere la Terra Promessa: ci impiegheranno una quarantina di anni… ma questa è un’altra storia! L’origine della Pasqua ebraica viene raccontata in Esodo 11, 4-5: «In questa notte io passerò attraverso l'Egitto e colpirò a morte ogni primogenito egiziano, sia fra le genti che tra il bestiame». Per facilitargli il compito (non si sa perché se Yahweh era onnipotente e soprattutto onnisciente, ma non importa…) gli israeliti vengono invitati a segnare gli stipiti delle loro porte con sangue d’agnello. Questo è ciò che celebra la Pasqua ebraica, o almeno UNA PARTE, poiché infatti le celebrazioni durano una settimana, ricordando vari momenti. Nel vangelo di Luca, per esempio, al capitolo 22, versetto 1, si legge: «Si avvicinava la Festa degli Azzimi, detta anche Pasqua» e al versetto 7, poco prima dell’Ultima Cena: «Venne poi il giorno degli Azzimi, nel quale si doveva immolare la Pasqua», ossia sacrificare l’agnello a Yhaweh, che aveva sempre bisogno di essere tenuto buono con curiosi sistemi, quasi sempre crudeli. Gli «azzimi», invece, sono i pani senza lievito, in ricordo di quelli che gli ebrei mangiarono la sera prima dell’esodo dall’Egitto, mentre il loro Dio sterminava allegramente i primogeniti degli egiziani. La Pasqua cristiana – lo sappiamo – celebra tutt’altro (ossia la passione, morte e risurrezione di Cristo): ha mantenuto di quella ebraica solo il nome con cui nei vangeli è stato tradotto il termine greco Πάσχα (Pasqa) e il fatto che è una festa mobile: cade, infatti, in giorni diversi ogni anno, ma sempre entro un determinato lasso di tempo, tra il 22 marzo e il 25 aprile, ossia la prima domenica dopo il plenilunio nel segno dell’Ariete e non, come si legge quasi ovunque, la prima dopo l’equinozio di primavera. L’equinozio della primavera 2020 – evento astronomico – infatti, è caduto il 20 marzo, mentre la Pasqua è il 12 aprile: ne sono trascorse di domeniche tra queste due date. Ciò che comunque importa è che la Pasqua è l’unica festività cristiana che segue i cicli lunari, ossia non cade in un giorno fisso. E questa ciclicità legata alla luna ha origini pagane, si rifà alla festa di ISTHAR, divinità mesopotamica, chiamata con nomi diversi in altre tradizioni: Inanna, Astarte, Eostre, Iside, Afrodite… insomma: LA DEA MADRE. Nei paesi anglosassoni e teutonici, infatti, questo ricordo è rimasto: la Pasqua - ossia quella che nelle più antiche tradizioni, ma anche nella cultura romana era la festa della RINASCITA DELLA NATURA dopo il freddo dell’inverno – ancora oggi si chiama EASTER o OSTERN. Lo stesso uovo di Pasqua ha radici simili: è simbolo di fertilità e di vita; non dimentichiamo che l’UOVO COSMICO è, in molte tradizioni, l’origine dell’universo. Quando il cristianesimo iniziò a fare piazza pulita di tutto ciò che era pagano, comprese che non poteva solo distruggere, ma che era opportuno sostituire imprimendo il proprio marchio su qualcosa di già esistente, qualcosa cui il popolo era già abituato. Fu il concilio di Nicea del 325 a stabilire la data della Pasqua cristiana, che precedentemente veniva festeggiata un po’ a casaccio dalle varie comunità nel vastissimo territorio dell’impero romano. C’erano comunità che la celebravano la domenica dopo quella ebraica, poiché – secondo la tradizione evangelica – Cristo era risorto di domenica, altre, invece, il 14 del mese di Nissan, che nel calendario ebraico della Bibbia corrispondeva a marzo, altre ancora che vietavano di farla cadere in concomitanza con la Pasqua ebraica. Insomma: ce n’era per tutti i gusti. I padri conciliaristi di Nicea, allora, tagliarono la testa al toro, presero le distanze dall’ebraismo che aveva “disonorato” la Pasqua con la crocefissione del Signore e scelsero di sovrapporre la «fabula Christi» alle feste primaverili pagane che celebravano il risveglio – ossia la RESURREZIONE – DELLA NATURA, che divenne la RESURREZIONE DI CRISTO. Ciò nonostante, continuò a esserci un po’ di confusione sulla data della Pasqua tra le ecclesie occidentali e quelle orientali, così nel 525, ben tre secoli dopo Nicea, un tale Bonifacio, capo dei notai pontifici del vescovo di Roma Giovanni I – impropriamente chiamato “papa” – diede incarico al monaco Dionigi il Piccolo di fare un po’ di ordine nella questione. Il buon Dionigi, in realtà, fece a sua volta una gran confusione, ma almeno partorì un calendario pasquale che avrebbe dovuto mettere tutti d’accordo. Perdendosi tra complicati calcoli, quest’uomo, di cui nulla o quasi si sa, riuscì, sì, a stabilire date univoche per la celebrazione della Pasqua cristiana e diede l’input per fissare quella del Natale (impropriamente) al 25 dicembre, ma soprattutto introdusse una novità della quale – da quel momento – la Storia avrebbe portato le conseguenze: grazie a lui, infatti, iniziò la numerazione degli anni in “avanti Cristo” e “dopo Cristo”. La differenza di date della celebrazione pasquale, tuttavia, non finì con Dionigi, ma entrò a fare parte – insieme ad altre questioni liturgiche – delle diatribe intorno alle quali si svolse il braccio di ferro tra la Chiesa cristiana d’Oriente e quella d’Occidente, divise da un’eterna rivalità a proposito della supremazia “spirituale” dell’una o dell’altra (anche se in realtà la faccenda di “spirituale” aveva proprio niente). Nel 1054, anzi, fu UNO degli elementi sui quali il patriarca di Costantinopoli Michele I Cerulario e “papa” Leone IX iniziarono a farsi a vicenda quei dispetti che portarono al Grande Scisma dal quale scaturì la Chiesa cattolica apostolica romana. C’è ancora un particolare da evidenziare: mentre le feste pagane alle quali la Chiesa sostituì la Pasqua erano celebrazioni della vita, della gioia, della fecondità, dell’amore, del risveglio dei sensi, quella cristiana celebra, con lugubre spiegamento di simboli macabri, la passione e la morte in croce di un uomo, è, insomma, l’apoteosi della sofferenza, che i cristiani sono invitati ad amare se – come fece Cristo – desiderano risorgere… ma non alle gioie terrene, che continuano a essere considerate – nella migliore delle ipotesi – di serie B, bensì alla Gloria dei Cieli, in un aldilà “spirituale” che – ma i credenti lo ignorano – è completamente assente dalla – eventuale – predicazione di quell’uomo crocifisso sul Golgota come semplice “malfattore”. Nonostante il periodo difficile che stiamo vivendo, auguro a tutti voi una radiosa festa di primavera in onore della Dea Madre!
Che cosa si intende per culto della Dea?
Nel corso del Festival del Paganesimo che l'Associazione culturale White Rabbit Event ha organizzato a Miagliano, in provincia di Biella, la scrittrice e ricercatrice Stefania Tosi si è occupata di offrire una panoramica sul culto che collega le antiche dee madri alla nascita del cristianesimo, ponendo un accento sui cambiamenti che hanno reso infine la donna il simbolo del peccato.
Narrano le Sacre Scritture che un giorno il re Davide, passeggiando sulla terrazza del suo palazzo, vede Betsabea fare il bagno. Anche se è a conoscenza che ella è moglie di Uria, uno dei suoi soldati attualmente impegnato in guerra, s'invaghisce di lei, la fa portare nel suo palazzo e la mette incinta. Davide richiama Uria dalla guerra affinché egli dorma con la propria moglie, ma il soldato si rifiuta di dormire a casa propria e giacere con la donna mentre i suoi uomini patiscono in guerra. Il piano di Davide di far credere che sia Uria il padre del bambino fallisce. Perciò il re comanda al suo generale Joab di sferrare un attacco e ordina di mettere Uria in prima fila. Uria muore durante l'attacco e Davide è libero di prendere in moglie Betsabea.
A questo punto interviene il profetaNatan, inviato da Dio, che rimprovera Davide per aver causato la morte di Uria per poter prendere in moglie Betsabea. Davide si pente del male fatto e chiede perdono al Signore. Dio perdona Davide anche se il figlio nato da Betsabea, come castigo, muore dopo pochi giorni.Dopo questo figlio, morto prematuramente, Davide e Betsabea hanno un secondo figlio, Salomone,che diventa il prediletto di David e gli succederà sul trono.
Estratto dal libro "La Messa è Finita" di Michele Giovagnoli
In tutte le culture del mondo, l’albero rappresenta da sempre un cardine imprescindibile della spiritualità, un punto di riferimento visivo e simbolico, un’espressione viva che unisce Terra e Cielo. In tutte, tranne che in quella cattolica.
Baobab immensi, Sequoie millenarie, foreste incontaminate latine e asiatiche non trovano il degno corrispettivo in un’Europa che, salvo casi sporadici, presenta alberi non più vecchi di qualche secolo. Dove sono finite le querce secolari che raggiungono dimensioni impressionanti come quelle narrate da Plinio Il Vecchio nella sua opera Naturalis Historia? Testualmente:
«Le querce per la loro smisurata invadenza nel crescere occupano addirittura il litorale e, a causa delle onde che scavano la terra sotto di esse o del vento che le sospinge, si staccano portando con sé grandi isole costituite dall’intreccio delle loro radici: restano così dritte, in equilibrio, e si spostano galleggiando. La struttura dei grossi rami, simile a un armamentario velico, ha spesso creato lo scompiglio nelle nostre flotte quando le onde sospingevano questi isolotti, quasi di proposito, contro la prua delle navi alla fonda di notte; ed esse, non riuscendo a trarsi d’impaccio, ingaggiavano uno scontro navale contro delle piante. Sempre nelle regioni settentrionali la selva Ercinia con le sue querce di enormi dimensioni (lasciate intatte dallo scorrere del tempo e originate insieme con il mondo) è di gran lunga, per questa condizione quasi immortale, il fenomeno più stupefacente. Per non stare a menzionare altri fatti che non suonerebbero credibili, risulta effettivamente che le radici, arrivando a fare forza l’una contro l’altra e spingendosi indietro, sollevano delle colline; oppure, se il terreno non le segue spostandosi, s’incurvano fino all’altezza dei rami e formano degli archi a contrasto come portali spalancati, tanto da lasciare il passaggio a squadroni di cavalleria».
L’azione della rivoluzione industriale ha inciso violentemente sugli aspetti ecologici dei territori. Su questo non vi è alcun dubbio. Personalmente però non ritengo sia la causa diretta alla quale imputare l’estinzione quasi totale dei Patriarchi verdi. Al limite una conseguenza o, al massimo, un agente parallelo. A mio avviso, il punto di propagazione è squisitamente culturale. Qualcosa di molto più sottile e profondo. Se ciò non fosse, in tutte le aree dove l’onda del progresso tecnologico è arrivata, osserveremmo ora le stesse condizioni. E non è così!
Non voglio esprimermi in termini assolutistici, perché qualcosa è sopravvissuto di certo da un passato dove il binomio uomo-albero era addirittura inevitabile, ma
è un dato inconfutabile che più ci si allontana geograficamente dal fulcro del dominio cattolico, quindi da Roma, maggiore è la probabilità di incontrare esemplari di dimensioni straordinarie e popoli con tradizioni che riconoscono all’albero un potere super partes nel vissuto spirituale.
A conferma, è sufficiente pensare che in nessuna usanza cattolica ufficiale risulta esserci un albero al centro di un atto contemplativo, al massimo dei rami di ulivo nella Domenica delle Palme o un abete ricoperto di lucine colorate a ornare un presepe.
L’Italia, che è il Paese nel quale il Parassita cattolico si è aggrappato per aprire i suoi tentacoli all’esterno, si è dotata di una legge quadro sulla protezione delle aree verdi soltanto nel 1991 a fronte dell’istituzione della prima area protetta di carattere nazionale, ovviamente alpina, datata nel 1922. L’evidentissima reticenza politica nel concedere al verde la propria naturale importanza, attraverso una presa di posizione forte e complessiva, conferma a pieno la presenza di un atteggiamento ostile ben inculcato nei geni di una popolazione cresciuta sotto il suono dei campanili da sempre. L’educazione ambientale nelle scuole, per fare un altro esempio, è insegnata da appena un ventennio, a differenza di tanti altri Paesi, alcuni anche economicamente meno sviluppati.
Al Grande Parassita la Natura selvatica non è mai piaciuta tanto, anzi, l’ha sempre considerata un intralcio. Chi conosce la Natura selvatica comprende meglio e più velocemente anche la propria. Chi si confronta con le grandi leggi che muovono la manifestazione, attraverso un confronto diretto con lo strato più dinamico del Cosmo Terra, apprende conoscenze che lo evolvono nella semplicità. Chi si sofferma a contemplare la bellezza, anche di un semplice filo d’erba, assorbe un nutrimento preziosissimo che lo eleva verso piani esistenziali superiori. In definitiva: chi ritrova in sé gli stessi impulsi celesti che muovono un albero secolare o una farfalla difficilmente si genuflette a una croce con uno sconosciuto inchiodato sopra.
L’essere umano che dialoga con il bosco difficilmente accetta ordini che tradiscono la propria identità. Difficilmente spegne il desiderio di prendersi cura di chi gli permette di esistere. Chi segue la Natura è più libero, forte, autentico.
L’Eros scorre lecito e incontrastato nelle vene di un’anima selvatica, porta in superficie domande, curiosità, dubbi e reazioni. Il termine vita trova nella Natura una delle sue più alte espressioni, quasi fossero sinonimi con semplici variazioni cromatiche.
Al Grande Parassita la Natura selvatica non è mai piaciuta tanto, anzi, l’ha sempre considerata un pericoloso nemico. Un nemico in quanto complice della sua preda preferita: l’uomo. L’uomo che vive e viveva a contatto con gli alberi dispone e disponeva di un grande mentore. Un saggio sempre pronto a elargire consigli e a ricordare costantemente l’ordine delle cose e la potenza dell’armonia. Un uomo che vive a contatto con gli alberi sa bene nell’intimo che è vivo grazie a loro. Sa bene che appena è uscito dalla pancia della propria madre loro sono “entrati” nei suoi polmoni adottandolo. Sa bene di avere un organo per respirare che è un albero capovolto, marchio di appartenenza energetica e biologica al bosco.
Non c’è una croce a congiungerci con l’esterno, c’è un albero.
E gli alberi verdi, con il tempo, diventano grandi, alti anche trenta volte l’uomo. E vivono a lungo, tanto a lungo. Sono lì quando nasci e tuo nonno ti parla di loro, e te ne vai anziano raccontando di loro ai tuoi nipoti. E questa catena procede quasi all’infinito facendo perdere le tracce della loro età e facendoli sentire, rispetto a te, immortali. Un albero che può vivere duemila anni è, rispetto agli altri esseri, letteralmente immortale. Tutto ciò al Grande Parassita non piace e non piaceva, in tutto il suo percorso il bosco è stato sempre temuto e respinto.
Temuto e respinto, fino a un giorno nel quale decise di dichiarargli apertamente guerra con un atto ignobile che va considerato a tutti gli effetti uno dei gesti più squallidi, vili e dannosi compiuti a discapito della vita stessa. Nell’anno 890 d.C., attraverso il concilio Namnetense, la Chiesa cattolica prende una posizione ufficiale e condanna a morte tutti gli alberi secolari presenti sul suo territorio, nonché tutti i boschi ritenuti sacri dalle popolazioni che ancora non si erano genuflesse alla croce. Le piante andavano eradicate, arse e al loro posto in molti casi veniva eretta una chiesa. Quest’ultimo passaggio denota benissimo l’identità del Parassita: “Non ‘spegniamo’ un luogo reso energeticamente forte da millenni di pratiche psichiche e di atti biologici, ma ne diventiamo noi i proprietari”.
“Arbores daemonibus consecratae”, alberi consacrati ai demoni. Riporto un passaggio del testo prodotto:
«Summo decertare debent studio Episcopi, et eorum ministri, ut arbores daemonibus consecratae, qua vulnus colit, et in tanta venerazione habet ut nec ramum nec surculum inde audeat amputare, radicitus excidantur, atque comburantur. Lapides quoque in ruinosis locis et silvestribus, daemonum ludificationibus decepti venerantur, ubi et vota vovent et deferunt, funditus effodiantur, atque in tali loci proiciantur, ubi numquam a cultoribus suis inveniri possint».
Ovvero:
«I vescovi e i loro ministri devono con estrema dedizione combattere perché siano estirpati dalle radici e bruciati gli alberi consacrati ai demoni che il popolo venera e considera talmente degni di venerazione e di rispetto da non osare amputarne né un ramo né un germoglio. Tratti in inganno dalle falsità dei demoni, venerano anche pietre in luoghi scoscesi e boscosi, dove promettono e concedono voti. Che siano distrutte dalle fondamenta e che siano gettate in luoghi dove non potranno mai più essere ritrovate!».
In pochi decenni gli effetti furono devastanti e l’azione si protrasse nei secoli successivi. Ancora oggi non mi risulta esserci stata una presa di posizione ufficiale e contraria della stessa portata e con la stessa forza. Non vedo Vescovi impegnati all’altare nel profondere positive considerazioni sugli alberi e sulla loro importanza nel percorso evolutivo delle persone. Non ne vedo nemmeno a prendere posizioni in merito a questioni relative al degrado ambientale, all’inquinamento o alle politiche per le economie ecosostenibili, se non con atti decisamente ipocriti. Li vedo impegnati su altro, ben altro! Per dirla tutta, non mi risulta nemmeno ci sia stato un mea culpa ufficiale per tutti i danni che questa azione ha causato e causa. Evidentemente per loro va ancora bene così.
Da educatore ambientale che sono stato e da Alchimista che sono, reputo gli effetti degli atti del concilio Namnetense la più grande catastrofe naturale causata dall’uomo ai danni della Natura selvatica. Niente può essere paragonato a essa, né in termini ecologici, culturale o economici, né soprattutto evolutivi.
Abbattere un albero secolare significa togliere a tutta la comunità biologica del bosco un punto di riferimento che negli anni ha orchestrato gli atteggiamenti volti alla riproduzione, alla protezione e alla predazione. Un albero secolare è l’unico che può ospitare la nidificazione di alcune specie di grandi uccelli e offrire il rifugio a quei mammiferi predatori che occupano posizioni alte della catena alimentare. La sua assenza stronca di netto tutta una serie di relazioni dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto.
Un albero secolare intreccia le sue radici con una quantità inimmaginabile di alberi ed essendo “vecchio” conserva un’esperienza ampia, ha una memoria ampia! È una sorta di grande saggio per tutte le forme vegetali del bosco, ma anche per quelle animali. Ogni volta che ha la possibilità di codificare uno stimolo ricevuto, lo elabora facendovi fronte con la sua antica conoscenza ed emette dei segnali destinati a tutti gli esemplari che sono in contatto con le sue radici per adottare atteggiamenti ottimali e condivisi. I segnali di carattere elettromagnetico vengono fatti passare da albero ad albero e coprono velocemente l’intero bosco. Un vero e proprio Wi-Fi vivente.
Un albero secolare è quindi un guardiano ecologico preziosissimo che mette a disposizione la sapienza conservata per il mantenimento della vita dell’intero bosco. Un albero di mille anni ha mille inverni nel legno e mille estati. Ha conosciuto la siccità e la tempesta, ha appreso la danza morbida del cosmo e spontaneamente la condivide.
Tagliare un albero secolare significa togliere la possibilità all’uomo di confrontarsi con se stesso, di conoscersi e di comprendere meglio la propria portata. Fermarsi di fronte a un essere immensamente più grande di te, più resistente e più longevo ti dona il premio dell’umiltà. Sprofondare nel reticolo armonico dei suoi rami, nel suo propagare e nelle curve dense del suo tronco, ti nutre di una sostanza sottile che attiva delle memorie lontanissime dandoti consapevolezza. I suoi codici esistenziali sono gli stessi dell’osservatore, ma molto più antichi e questa azione vivifica e spinge oltre. Un uomo cresciuto a ridosso di un albero secolare sa qualcosa di più di chi non ne ha mai visto uno. È innegabile, il primo contatto visivo con un patriarca verde è sempre un impatto violento, qualcosa che segna un termine e un inizio. Averli eradicati tutti, aver rimosso per intero aree che per millenni sono state il luogo di contatto con la Natura selvatica ha letteralmente ucciso una componente intima dell’umanità intera, ci ha reso tutti più poveri e limitati, ci ha segnati tutti irrevocabilmente. Un albero secolare o lo erediti o non lo conoscerai mai. E puoi solo, nel secondo caso, assistere e accompagnare con rispetto l’evoluzione di un bosco per consegnare a generazioni future e inconcepibili qualcosa che tu ora puoi solo immaginare.
Senza alberi adulti siamo tutti più deboli. Era questo l’obiettivo ed è stato raggiunto!
In parallelo alla distruzione dei boschi antichi, venne portata avanti già dal 1184, con il Concilio di Verona, la spietata caccia a tutte quelle persone che conservavano e vivevano la Conoscenza ricevuta attraverso l’interazione con le energie selvatiche. Migliaia di roghi e torture, rivolte soprattutto al popolo femminile, allontanarono quasi definitivamente l’uomo dal suo intimo alleato, nonché genitore superiore. Solo poche anime, nel segreto più assoluto e nell’obbligo di vivere una vita disumana e lontana dalle più comuni forme sociali, ha continuato a parlare con le foglie, con il buio, con il silenzio dei tronchi e a raccogliere nei propri geni gli insegnamenti provenienti dalle antichità del mondo. Solo poche anime hanno mantenuto accesa la fiamma e se la sono passata. A loro dobbiamo la grande pulsione umanistica del Rinascimento, pochi secoli più tardi. A loro dobbiamo la conservazione dell’Arte alchemica, a loro l’impulso che mi fa scrivere queste pagine oggi. Tutto attorno, in quella che viene descritta con il termine “normalità”, il vuoto.
Se provate a digitare sul più potente motore di ricerca il nome del vostro vicino di casa vi usciranno migliaia di risultati. Se digitate “Concilio Namnetense Arbores daemonibus consecratae”, ovvero l’atto che ha segnato l’umanità in maniera indelebile, ne riceverete soltanto otto (anno 2017).
Al Grande Parassita la Natura selvatica non è mai piaciuta tanto e, se ha arruolato nelle proprie fila un mistico amante del bosco attorno al XIII secolo come Francesco d’Assisi, lo ha fatto soltanto per infiltrarsi fra quelle popolazioni più resistenti al verbo cattolico e indebolirle da dentro. L’arte di infiltrarsi è anch’essa specifica del Parassita. Chi s’infiltra non è notato e una volta raggiunta la preda la “gestisce” di nascosto da dentro. Il Parassita non combatte l’avversario per distruggerlo, ma per impadronirsi della sua volontà. Non estingue il bisogno di dialogare con l’albero, che è aperto a tutti, ma lo sostituisce con qualcosa che è di sua proprietà. Partendo dal punto più alto possibile, s’inventa un Dio privato e sostituisce l’albero con qualcosa di molto simile, casualmente fatta dello stesso materiale: la croce.
La croce è l’albero cattolico. È di fronte a Lei che ti devi fermare, a Lei devi chiedere e da Lei farti ispirare. È Lei che si ergerà sulla cima di ogni montagna. È Lei che verrà frapposta fra l’uomo e il suo nuovo Dio. Diabolico!
Gran parte degli esemplari secolari che hanno raggiunto i nostri tempi sono sopravvissuti e sono stati “graziati” solo perché strumentalizzati dal clero: il grande cipresso secolare di San Francesco a Villa Verucchio, il bagolaro di San Francesco a San Leo, il leccio di San Francesco sul Monte Amiata in Toscana, il faggio di San Francesco a Rieti, il castagno di San Francesco a Narni in Umbria. Qui la strategia è ancora più sottile: il potere dell’albero secolare è assorbito dal nome di un uomo e la parola “Santo” lo riversa nello stomaco della Chiesa cattolica. L’essenza selvatica viene così vestita forzatamente con la casacca del suo carnefice!
Concludiamo.
L’errore più grave che si possa commettere è ritenere l’avversione del clero ai danni degli alberi come storicamente superata.
Nulla di più sbagliato! Il contatto empatico con una creatura vegetale e la sua contemplazione possono procurare nell’essere umano una conoscenza incommensurabile.
Lo è sempre stato e lo sarà per sempre. Nulla di più pericoloso per chi possiede un impero fondato sull’ignoranza dei propri servi! Ciò che è in atto è una gestione abilissima e impercettibile. Non più editti e aperte dichiarazioni di guerra, ma velatissime ingerenze con strumenti subliminali. Il Parassita si fa sempre più invisibile, sempre più spesso veste gli abiti del protettore dell’esistenza, mentre ne profana l’intimo richiamando a una condotta contro natura. L’ovvietà dei messaggi papali è un suolo di gomma morbida che rende impossibile ogni scatto dell’Eros creativo. Come cresce la possibilità di informarsi, così aumenta la scaltrezza di intorbidire le acque. E tutto volge ancora ad accreditare santi e misteri della fede, per non ammettere che senza alberi non si respira, senza Donne non c’è vita, e senza Sole tutto si spegne.
Mi prendo infine il piacere di ricordare come il dominio sulla creatura vegetale venga celebrato in occasione di ogni Santo Natale. Tenete sempre ferma nella vostra mente questa premessa: la Chiesa cattolica non fa mai nulla a caso. Nulla! Nella piazza più potente a disposizione, piazza San Pietro, viene immolato alle alte volontà un esemplare di sempreverde dall’immane statura, proveniente dalle zone alpine. Tutto simbolico: un’autentica messa in scena con alta facoltà di condizionamento inconscio.
Le Alpi: un luogo lontano e fortemente selvatico, il simbolo del regno autoctono e originale, pilastro della Natura insuperabile e ingestibile. Con un’azione altamente spettacolare, l’albero viene scelto tra i più belli, tagliato, legato e trasportato da un elicottero come un prigioniero fino al centro della piazza dove viene infine ancorato al suolo. L’albero è morto ma deve apparire vivo, anzi viene addobbato quasi a dare l’idea che sia felice di strare lì, che abbia accettato di farlo e si sia arreso serenamente. È solo, accerchiato, impotente. E lentamente si asciuga e si spegne.
Mi ricordano tanto, questi alberi, gli eretici arsi nelle piazze, strappati al loro vivere, privati della facoltà di esprimere se stessi, legati e messi in mostra alle masse, affinché la loro drammatica posizione apparisse come esclusiva debolezza di fronte alla potenza del dominatore. Abbassare l’avversario per figurare più alti. I corpi arsi cadevano a pezzi e si facevano cenere. Terminata la festa, all’albero spetta lo stesso destino.
Nel mese di dicembre i Paesi occidentali vengono ipnotizzati dall’imminente celebrazione del Natale. Le aziende e i centri commerciali, addirittura, iniziano ben prima a sbandierare pubblicità di sapore natalizio o a offrire articoli per addobbare la casa, organizzare cene, spendere in regali.
Già: i regali. Sono certamente il piatto forte delle cosiddette “feste”, quello sul quale si fiondano i commercianti per realizzare incassi che, spesso, rappresentano il 90% del fatturato annuale di un piccolo o medio negozio.
Ma l’usanza dei regali di Natale non è un’invenzione recente: come tutto ciò che concerne la più importante festività occidentale affonda le sue radici in un tempo molto lontano.
Abbiamo già visto in precedenza (e chi non sa di cosa stia parlando può andarsi a ripescare i post del 21/11 e del 27/11) come la data del 25 dicembre fu fissata dalla Chiesa per sostituire la celebrazione dei Saturnalia, feste pagane nate intorno al solstizio d’inverno in uso nell’antica Roma dal 17 al 21 dicembre, con un prolungamento fino al 25 per il “Dies Natalis Solis Invicti”.
I Saturnalia traevano il loro nome da Saturno, padre di Giove, che si favoleggiava fosse stato il signore della mitica Età dell’oro. In quel periodo, venivano rivoluzionate tutte le regole sociali: gli schiavi si sostituivano ai padroni, si organizzavano BANCHETTI che spesso si trasformavano in orge, veniva eletto una sorta di “re” della festa che sfilava vestito di rosso ed era simbolicamente sacrificato al termine delle celebrazioni. Inoltre, c’era lo SCAMBIO DI REGALI: sia da parte degli schiavi ai padroni per conquistarne la benevolenza, sia per blandire le anime dei defunti, attirate dai clamori dei festeggiamenti a varcare la soglia che separa il regno dei morti da quello dei vivi.
L’organizzazione di banchetti (che oggi finiscono in una tombolata, più morigerata di un’orgia) e lo scambio di regali, dunque, sono rimasti nella celebrazione del Natale cristiano.
Ma ci sono alcune tradizioni natalizie inventate ex novo per colpire l’immaginario popolare e altre che appartengono a culture del tutto estranee al cristianesimo.
Partiamo dalla più nota, ossia il presepe e per prima cosa chiariamo che il termine non significa «rappresentazione della nascita di Gesù» come la maggior parte del pubblico è indotta a credere, ma – dal latino “praesepe” – vuole dire “mangiatoia/stalla/recinto per gli animali” . E ci hanno anche raccontato che il primo “presepe” fu organizzato da Francesco d’Assisi a Greccio nel 1223. È vero… ma ricordiamo cosa significa “presepe”: nella rappresentazione di Francesco, infatti, c’erano solo la mangiatoia, un bue e un asino, niente Divin bambinello, niente Maria, niente Giuseppe, niente pastori né Re Magi. Tutto il contorno fu aggiunto successivamente, ricordando quale effetto scenografico avevano realizzato coloro che si erano recati ad ammirare il presepe francescano illuminando il set con le fiaccole.
Ma c’erano davvero un bue e un asino a riscaldare il neonato Gesù? Certamente no. Luca, l’unico che parla di una mangiatoia/stalla, non li cita; a maggior ragione non lo fa Matteo, il quale afferma che i Re Magi trovarono il pupo in una casa «con Maria sua madre». Dunque da dove sono spuntati i due animali? Tanto per cambiare, da un’interpretazione di comodo di un passo di Isaia (1,3), che non si è mai sognato di profetizzare la venuta del Messia e da una errata traduzione di un passo del profeta Abacuc (3,2), dove la frase ebraica «nel mezzo del tempo» nella Bibbia dei Settanta era stata tradotta «in mezzo a due animali», confondendo due parole greche quasi identiche (ζωῷον e ζῷον). Di bue e asinello, infatti, si parla nel vangelo dello Pseudo-Matteo e nel protovangelo di Giacomo, due testi apocrifi databili al VIII/IX secolo il primo e al II/III secolo il secondo.
Nel racconto della nascita di Gesù, quella rappresentata – seppur brevemente – nei vangeli di Luca e Matteo, però, c’è un’altra stranezza: si tratta di quel censimento che avrebbe indotto Giuseppe e Maria, incinta al nono mese, a lasciare Nazareth e la Galilea per recarsi a Betlemme, in Giudea, affrontando un viaggio irto di pericoli. Nell’Impero romano i censimenti venivano ordinati per motivi fiscali o militari, ma senza obbligare le folle a spostarsi: era sufficiente rilasciare una dichiarazione a un incaricato locale circa la propria situazione patrimoniale e famigliare. Mai nessun imperatore ne organizzò uno imponendo alla gente di trasferirsi nei rispettivi luoghi di provenienza, per tornare poi nei posti dove aveva preso residenza o domicilio. Luca cita esplicitamente «un editto di Cesare Augusto che ordinava un censimento di tutta la terra» (Lc 2, 1). Tuttavia risulta che Augusto indisse tre censimenti universali: nel 28 a.C., quando ancora non era imperatore, nell’8 a.C. e nel 14 d.C.; sempre sotto il suo regno, furono banditi alcuni censimenti provinciali e ormai è assodato che Luca fa riferimento a quello del governatore Publio Sulpicio Quirino, che riguardò la Siria e la Giudea, avvenuto, però, sei anni dopo la nascita di Gesù. Inoltre, cosa poteva importare ai Romani che Giuseppe appartenesse alla Casa di Davide, una classificazione che interessava strettamente il mondo ebraico? Infine, il censimento di Quirino fu di tipo fiscale, riguardò, cioè, non le persone, ma i loro beni: Giuseppe possedeva forse delle proprietà a Betlemme che era necessario censire? In tal caso, ossia se fosse stato un ricco possidente, avrebbe forse avuto la possibilità di viaggiare e alloggiare più comodamente, soprattutto con una moglie alle soglie del parto ed è anche curioso che la coppia abbia intrapreso il lungo cammino da sola, senza aggregarsi a una carovana, come era consuetudine dei viaggiatori per evitare gli assalti dei predoni.
Insomma: il Natale cristiano è stato costruito ad arte non solo per sostituire i Saturnalia, ma anche per provocare nel gregge quel senso di colpa evocato da un bambino che nasce «in una grotta al freddo e al gelo» dopo che ai suoi genitori era stato negato il conforto di un alloggio. L’apoteosi di questo quadretto di sofferenze avverrà a Pasqua con la crocifissione.
Ci sono molti altri particolari del Natale cristiano che non tornano: ma, come sempre, questa è un’altra storia che racconterò in seguito.
Una delle tecniche di tortura in voga presso Santa Romana Chiesa, nel periodo che va dal 1480 al 1650, inflitte alle streghe ed agli eretici, consisteva nel prendere un topo vivo e di inserirlo nella vagina o nell’ano con la testa rivolta verso gli organi interni della vittima e spesso, l’apertura veniva cucita. La bestiola, cercando affannosamente una via d’uscita, graffiava e rodeva le carni e gli organi dei suppliziati.
Cosa si prova a stare davanti ad un gigante della Natura antico di migliaia di anni? Quale salutare messaggio di energia cosmica potrebbe portarci un albero, la cui vita ha avuto origine nei tempi remoti? Mille o diecimila anni sono un tempo lunghissimo eppure per alcuni alberi sono un tempo normale. Hanno la possibilità di vivere infinite stagioni accumulando saggezza, la loro essenza è incorruttibile, la loro presenza vitale. Così ragionavano i popoli antichi, i cui ritmi di vita erano in sintonia con la Natura. I boschi appartenevano per lo più alle divinità femminili, custodi della fertilità.
Plinio il vecchio, il naturalista romano, (morto nella distruzione di Pompei) nella sua opera Naturalis Historia, ci racconta della presenza di foreste incontaminate e dei grandi alberi che le abitano. Perché oggi non abbiamo più in tutta Europa un albero millenario? Cosa è successo?
Nel seicentocinquattotto, per ordine di Papa Vitaliano, viene convocato nella città di Nantes il primo di tanti concili, il suo nome è passato alla storia come concilio namnetense. Al tempo di questo evento, sono trascorsi quasi tre secoli dal terribile editto di Tessalonica, promulgato dall’imperatore Teodosio, il “cunctos populos” che così recita:
- Vogliamo che tutti i popoli che ci degniamo di tenere sotto il nostro dominio seguano la religione che san Pietro ha insegnato ai Romani, oggi professata dal Pontefice Damaso e da Pietro, vescovo di Alessandria, uomo di santità apostolica; cioè che, conformemente all'insegnamento apostolico e alla dottrina evangelica, si creda nell’unica divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo in tre persone uguali. Chi segue questa norma sarà chiamato cristiano cattolico, gli altri invece saranno considerati stolti eretici; alle loro riunioni non attribuiremo il nome di chiesa. Costoro saranno condannati anzitutto dal castigo divino, poi dalla nostra autorità, che ci viene dal Giudice Celeste.
DATO IN TESSALONICA NEL TERZO GIORNO DALLE CALENDE DI MARZO, NEL CONSOLATO QUINTO DI GRAZIANO AUGUSTO E PRIMO DI TEODOSIO AUGUSTO »
Il concilio a Nantes è riunito per discutere, come togliere di mezzo le ultime tracce di paganesimo che, nonostante le terribili persecuzioni, messe in atto dall’editto e perfezionate dai successivi decreti, dove: “ nulla deve essere fatto contro o senza l’autorità della chiesa romana “, continua ad essere vivo e come un piccolo lume, tra mille difficoltà e rischi, tiene accesi i principi della ragione insieme al rispetto per la Natura.
Viene emanato un ordine: - Si diano alle fiamme, in tutto l’impero, i boschi che i pagani considerano sacri, si vada a caccia degli alberi millenari, che siano arsi vivi. Gli alberi sono consacrati dai pagani ai demoni.
Dopo la sistematica e brutale distruzione dei templi, delle statue, delle biblioteche, si passa all’incendio dei boschi e alla eliminazione degli alberi, scelti tra i più longevi, alcuni hanno mille, duemila, persino novemila anni di età, sono i testimoni silenziosi di un tempo remoto, hanno nelle loro cellule vive la memoria di tutto ciò che è successo, per questo sono adorati. Come potrebbero non suscitare rispetto e venerazione?
Che dire? La violenza è sempre frutto dell’ignoranza e affinché non si ripeta bisogna opporre la conoscenza. E’ doveroso indagare la realtà.
Annamaria Beretta
P.S.: Non solo Gesù non è morto sulla croce ma sembra che Pietro a Roma non ci abbia mai messo piede. Non conosceva né il greco né il latino…
Il15 maggio 1252 papa Innocenzo IV, nell' ambito della lotta ai movimenti ereticali che furoreggiavano in quel XIII secolo (come per esempio quello della mistica protofemminista Guglielma la Boema, che predicava in Milano), emana la bolla "Ad extirpanda". Con questa bolla il papa autorizza il ricorso alla tortura per estorcere confessioni ai sospetti di eresia, categoria che includeva non solo gli eretici in senso stretto, ma anche coloro che seguivano altre fedi o tradizioni: gente come i catari od i valdesi ma anche streghe, guaritrici, herbane... Il nome della bolla viene da uno dei suoi passaggi iniziali, dove si legge 《Ad extirpanda de medio populi christiani haereticae pravitatis zizania...》ovvero 《Per estirpare la diffusione nel popolo cristiano della maligna perversione eretica...》 e la sua emanazione segue di poco e non casualmente l'assassinio dell' inquisitore generale di Milano Pietro da Verona, che il 6 aprile era stato ucciso a roncolate in testa nel bosco di Farge a Seveso (Milano) da cittadini comuni e catari esasperati dalla sua spietatezza - per divenire poi santo taumaturgo contro l'emicrania. Era insomma in corso quasi una guerra e non sarebbe del tutto sbagliato dire che le radici della nostra cultura sono cristiane perché se ne avevi altre le bruciavano (In foto dal web: raffigurazione della diffusissima tortura detta "del tratto di corda" e considerata (dagli inquisitori) lievissima: le braccia venivano legate dietro la schiena ed ai polsi era collegata una fune tesa da una ruota, girando la quale il malcapitato veniva sollevato da terra con conseguente immediata lussazione delle spalle. Ulteriore aggiunta potevano essere i "tratti" ovvero lasciar andare all' improvviso un tratto di corda cosicché la vittima, precipitando ma senza toccare terra, subisse ulteriori dolorisissimi strappi, resi ancora peggiori dall'aggiunta di pesi ai piedi)
A dire di alcuni cronisti ed esponenti della prima Chiesa cristiana le antiche comunità osservavano l’astinenza dalla carne. Egisippo dice che molti esseni, che erano rigorosamente vegetariani, divennero cristiani, col nome di Ebioniti o Nazirei e che transitarono nel cristianesimo influenzandone la condotta. Eusebio di Cesarea dice che tutti gli apostoli erano vegetariani, S. Clemente Romano asserisce che Pietro mangiava solo pane, olive e un po’ di verdura, S. Girolamo afferma che nei primi secoli i veri cristiani si astenevano dalla carne e che coloro che mangiavano la carne facevano parte della chiesa corrotta, e Tertulliano diceva che nei primi secoli i cristiani non toccarono mai la carne.
Ma la corrente vegetariana che si era sviluppata all’interno del cristianesimo primitivo trovò l’opposizione della Chiesa che considera eretici i suoi seguaci fino alla loro persecuzione e l’annientamento di intere loro comunità, come nel caso dei Càtari (Albigesi o Patarini). A mano a mano che i ricchi entrarono nella gestione della religione la Chiesa si distaccò dallo spirito originale e venne a generasi una demarcazione tra lo spiritualismo primitivo cristiano, caratterizzato da austerità di costumi dei primi cristiani, e la Chiesa ufficiale che divenne potente, guerrafondaia, corrotta, spietata verso chiunque interferiva con le sue regole. Le regole dell’astinenza della carne furono bandite per favorire l’apertura della nuova religione non solo ai ricchi e all’imperatore Costantino ma alla popolazione pagana. Iniziarono le persecuzioni verso i vegetariani considerati eretici e nel 385 con lo sterminio del vescovo Priscilliano ed i suoi seguaci si decretò la fine alla corrente vegetariana all’interno della Chiesa cattolica. imagesQuando intorno al X secolo in Europa vi fu un generale risveglio spirituale nel desiderio di tornare alla semplicità di vita e alle regole delle prime comunità cristiane, si sviluppò il movimento vegan più grosso della storia, il Catarismo dal termine greco che significa “puro”. Questo movimento si sviluppò nel sud della Francia, in Italia, in Germania, in Bosnia, Serbia, Bulgaria, nell’impero Bizantino. I Catari si rifacevano al messaggio di Cristo; erano asceti, pacifisti, digiunatori, rifiutavano il matrimonio e la procreazione, non possedevano ricchezze, professavano la dottrina dualista e predicavano un’assoluta purezza di vita; condannavano tutto ciò che è carnale e terreno, compreso il matrimonio, la proprietà privata, l’uso delle armi; erano poveri, semplici, casti, vestivano un abito nero ed andavano scalzi. Rispolverarono antichi testi gnostici, scrissero vangeli in lingua volgare e pare che fu proprio la lettura di questi testi a portare S. Francesco verso la sua dottrina ecologica. Per i Càtari essere vegan era la condizione per diventare “perfetti” e faceva parte del giuramento che doveva prestare l’adepto”…Bisogna che facciate a Dio la promessa che non commetterete mai omicidio, che mai volontariamente mangerete formaggio, latte, uova, né carne di qualunque animale…”. I Càtari si dividevano in due categorie, i “perfetti” che erano vegan, cioè i capi di questa setta religiosa, e i “semplici” che ancora non lo erano; La loro diffusione e la conversione delle masse al catarismo fu vastissima al punto da suscitare l’avversione della Chiesa che li perseguitò in tutta Europa fino a sterminarli con roghi e impiccagioni. Il modo di identificare un càtaro da parte degli inquisitori era ordinargli di uccidere un animale: coloro che si rifiutavano salivano sul patibolo. Così nel 1209 per ordine di Innocenzo III (il papa che strappava i denti ad uno ad uno agli ebrei che non pagavano le tasse, il papa che quando i francesi avevano minato il suo regno d’Inghilterra disse: “Spada, spada esci dal tuo fodero e semina sterminio”, il papa che prometteva il paradiso a chi avesse ucciso un albigese, cioè un càtaro) ordì una vera crociata contro i Càtari, affidata ai domenicani e condotta dal cavaliere Simon de Montfort che fu autorizzato a sterminare più gente che poteva senza fare prigionieri. E quando i crociati chiesero al legato papale prima dell’invasione della città di Bézieres come avrebbero distinto i càtari rispose “Uccideteli tutti, li riconoscerà Dio”. Ci furono 20.000 vittime e la città fu distrutta. A Minerve 140 Catari furono spinti sulle fiamme di un’enorme catasta di legna; alcuni perfetti si gettarono senza essere spinti e senza un urlo di dolore. A Lovaur altri 400 perfetti furono bruciati su un’enorme pila. Il papa, informato di ogni tappa della crociata in una lettera a Monfort scrisse: “Sia lode e grazie a Dio per ciò che ha operato nella sua clemenza contro i suoi nemici pestilenziali” . I pochi superstiti si rifugiarono nelle grotte o nei boschi da dove partivano per predicare e convertire la popolazione della Catalogna fino a circa il 1244 quando gli ultimi 220 catari rappresentanti del Catarismo rifugiatisi nel castello di Montsegar vicino Tolosa, furono arsi al rogo decretando la fine del movimento càtaro in Europa. Anche S. Luigi Gonzaga diede il suo contributo organizzando nel 1229 un’inquisizione per eliminare il catarismo dalla Francia. Dopo 20 anni di guerra per estirpare i Catari i morti furono più di un milione. Da allora, e per secoli, la Chiesa vedrà in tutti coloro che per scelta etica rinunciassero a mangiare la carne, un focolaio di eresia da ostacolare con ogni mezzo. La Chiesa con tali estremi tentativi di opporsi alla diffusione del veganismo e del vegetarismo confermava la sua antica posizione sancita in 4 differenti Concili in cui proibiva al clero l’astinenza dalla carne pena la destituzione dei pubblici ministeri. Nel Concilio di Ancyranum del 314 viene ribadita la ferma decisione di allontanare i religiosi che rifiutavano di mangiare la carne; nel Concilio Gangrense del 324 la Chiesa ritorna sullo stesso argomento per neutralizzare le molte tendenze in rispetto della vita degli animali; nel Concilio di Braga del 577 viene dichiarato da papa Giovanni XII che se qualcuno giudica immonde le carni che Dio ha dato all’uomo per nutrirsi e non perché desidera mortificarsi, si astiene dal mangiare queste carni, su di lui anatema; nel Concilio di Aquisgrana dell’816 viene stabilito che chi non osserva le regole della vita pratica deve essere allontanato dall’ordine religioso; i membri del clero che aborriscono le carni, perfino gli ortaggi che si cuociono insieme ad esse, devono essere allontanati dall’ordine. E mentre in Europa va spegnendosi l’ascetismo spirituale cristiano il veganismo resta circoscritto nei monasteri che da vegan diventano vegetariani, poi con la conquista musulmana dei territori mediterranei l’ascetismo cristiano viene ereditato dalla religione islamica che trova nel Sufismo la corrente più rappresentativa. Oggi il veganismo a buona ragione può essere considerato come la versione moderna del Catarismo con i suoi aspetti più o meno etici, sociali, religiosi o spirituali. Fonte: http://www.flipnews.org/flipnews/index.php?option=com_k2&view=item&id=6757%3Ai-catari-il-pi%C3%B9-grande-movimento-vegan-occidentale
I primi ad incendiare la Biblioteca di Alessandria sono stati i cristiani al soldo di Cirillo che per questo infame disastro e per l'uccisione della filosofa e astrologa Ipazia Di Alessandria è stato dichiarato "dottore della Chiesa" Creata nel 331 a.C., pochi anni dopo la fondazione della città da parte di Alessandro Magno, la biblioteca di Alessandria era destinata ad accogliere tutte le opere del sapere umano, di ogni epoca e di ogni Paese.
A metà del III secolo a.C., sotto la direzione del poeta Callimaco di Cirene, si pensa che la biblioteca ospitasse circa 490.000 volumi, e che fossero molti di più due secoli più tardi. Si tratta di cifre discusse, alle quali calcoli più prudenti tolgono uno zero.
Tuttavia, ci rendono l'idea della portata del disastro culturale rappresentato dalla completa distruzione di questi volumi, la cui causa è ancora oggetto di dibattito fra gli storici.
(Incisione raffigurante l'incendio che distrusse probabilmente parte della biblioteca nel 47 a.C., durante la guerra fra Cleopatra e suo fratello, 1876)
Il vangelo insegna più menzogne che verità: il parto di una vergine è
assurdo; l’incarnazione del figlio di Dio è ridicola; il dogma della
transustanziazione è una pazzia. Le quantità di denaro che la FAVOLA DI
CRISTO ha apportato ai preti è incalcolabile. (Queste parole pronunciate
da papa Bonifacio VIII sono state anche riportate dallo studioso e
storico Jean Villani nella sua opera "Cronaca" scritta durante il Giubileo a Roma nel 1300).
PAPA LEONE X (1513-1521) Dichiarò al Cardinal Bembo: "Tutti sappiamo bene quanto la FAVOLA DI CRISTO abbia recato profitto a noi e ai nostri più stretti seguaci". Archivi Vaticani, Corr. Leone X, Vol. 3° Scaffale 41