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lunedì 20 giugno 2022

Le Sirene – Vampiri nella Grecia Classica




Le sirene non possono essere esattamente definite “vampiri”, ma appartengono, insieme ad altre figure mitologiche che verranno analizzate prossimamente, ad una stirpe di creature ibride e femminili legate alla sensualità e alla morte, all’incanto e alla ferocia. Tutti elementi che giocano sul binomio – quello di amore e morte – tipico del topos del vampiro.

Allo stesso modo dei mostri bevitori di sangue, che sono morti eppure camminano tra i vivi e dunque appartengono ai due mondi, anche queste creature danno prova di grande forza vitale, ma in qualche modo affondano gli artigli nell’Oltretomba.


« Σειρῆνας μὲν πρῶτον ἀφίξεαι, αἵ ῥά τε πάντας

ἀνθρώπους θέλγουσιν, ὅτίς σφεας εἰσαφίκηται.

ὅς τις ἀϊδρείῃ πελάσῃ καὶ φθόγγον ἀκούσῃ

Σειρήνων, τῷ δ’ οὔ τι γυνὴ καὶ νήπια τέκνα

οἴκαδε νοστήσαντι παρίσταται οὐδὲ γάνυνται,

ἀλλά τε Σειρῆνες λιγυρῇ θέλγουσιν ἀοιδῇ,

ἥμεναι ἐν λειμῶνι• πολὺς δ’ ἀμφ’ ὀστεόφιν θὶς

ἀνδρῶν πυθομένων, περὶ δὲ ῥινοὶ μινύθουσιν »


«Tu arriverai, prima, delle Sirene, che tutti

gli uomini incantano, chi arriva da loro.

A colui che ignaro s’accosta e ascolta la voce

delle Sirene, mai più la moglie e i figli bambini

gli sono vicini, felici che a casa è tornato,

ma le Sirene lo incantano con limpido canto,

adagiate sul prato: intorno è un mucchio di ossa

di uomini putridi, con la pelle che raggrinza »


Omero. Odissea XII, 39-46


La sirena rappresenta due facce di una femminilità non incanalata nei ruoli sociali.

Il suo essere mostruoso la colloca ai margini della società, più precisamente su una linea di confine.

Il confine tra la vita e la morte, ad esempio. Tra l’oriente e l’occidente che è come dire tra ciò che è noto e l’ignoto. Non è un caso che essa sia associata alla dea Aphrodite che è una dea straniera d’oriente per la società ellenica, ma che permea le civiltà pelasgiche precedenti, che di quella ellenica sono state la culla; non è un caso che siano associate alla dea Persefone, a cavallo tra il mondo dei vivi e quello dei morti.

Il mito racconta che le sirene fossero presenti al rapimento di Persefone da parte dello sposo Ade. Con la loro presenza testimoniano il passaggio della dea dalla condizione di nymphe, fanciulla, a quella di gyne, donna sposata e regina del mondo dei morti. Ancora si racconta che le sirene siano fanciulle mutate in uccelli dalla dea Afrodite per avere trascurato l’amore: conosciamo la leggenda della sirena Partenope che, fuggita dai propri pretendenti, si tagliò i capelli e si rifugiò nel golfo di Napoli da cui la città prese il nome.

Il culto di Aphrodite e quello di Persefone sono molto legati l’uno all’altro e vengono separati anzi soltanto in un momento più tardo. Si trattava probabilmente del culto di due diversi aspetti di un’unica dea di cui la sirena era animale di riferimento.

A conferma di ciò, secondo Pausania, i templi delle due dee sorgevano l’uno di fronte all’altro, legittimandole come riflesso l’una dell’altra.

Le attività all’interno dei templi vedevano le ragazze impegnate nella musica, che aveva una grande importanza: quindi nel canto e nella danza rituale, per onorare e rendere servizio alla dea, e in mansioni che le avrebbero preparate all’ingresso della comunità cittadina come spose. Passaggio simboleggiato dal rapimento del marito che sarebbe venuto a prenderle al tempio come Ade con Persefone o Teseo con Arianna ed Elena.

La sirena è dunque l’icona di questo periodo della vita della fanciulla, della stagione selvaggia, non addomesticata dalla vita matrimoniale e dalla maternità. Come le ninfe, le sirene occupano il territorio simbolico dell’energia sessuale pura e incontaminata.

Simboleggiano il crocicchio, il passaggio: dall’infanzia all’età adulta a quello più grande e misterioso, dalla vita alla morte. Sono la zona di frontiera tra l’umano e il ferino.


« La brezza favorevole spingeva la nave, e ben presto avvistarono

la splendida Antemoessa, isola in cui le canore Sirene,

figlie dell’Acheloo, annientavano chiunque

vi approdasse, ammaliandolo coi loro dolci canti.

La bella Tersicore, una delle Muse, le aveva generate

dopo essersi unita all’Acheloo; un tempo erano ancelle

della potente figlia di Deò, quando ancora era vergine,

e cantavano insieme con lei: ma ora apparivano in parte

simili a fanciulle nel corpo e in parte ad uccelli.

Sempre appostate su una rupa munita di buoni approdi,

avevano privato moltissimi uomini della gioia del ritorno,

consumandoli nello struggimento. Anche per gli eroi

effusero senza ritegno le loro voci, soavi come gigli,

ed essi già stavano per gettare gli ormeggi sulla spiaggia:

ma il Tracio Orfeo, figlio di Eagro, tendendo la cetra

Bistonia con le sue mani, fece risuonare le note allegre

di una canzone dal ritmo veloce, affinché il suono

sovrapposto della sua musica rimbombasse nelle loro

orecchie. La cetra vinse la voce delle fanciulle: Zefiro

e insieme le onde sospinsero

la nave, e il loro canto si fece un suono indistinto. »


Apollonio Rodio. Argonautiche IV, 890-912


Il mito le vuole nate dal sangue sgorgato da un corno del dio del fiume Acheloo, raffigurato con la testa di toro. Il sangue versato da Eracle feconda la terra, facendo nascere le divine cantrici.

Altre tradizioni le vogliono figlie di Forco, divinità marina padre tra gli altri delle Gorgoni, delle Graie, di Ladone, Scilla e della terrificante Echidna.

Sappiamo dall’iconografia che si tratta di creature ibride, donne uccello. Se da una parte sono creature spezzate, né umane né uccelli, esse sono anche un intero che non ha riscontro in natura: appartengono al sacro.

Nelle mitologie di tutti i popoli venivano venerati simili ibridi femminili: donne uccello, donne pesce e donne foche, perfino donne rana e donne serpente. Tutte espongono i seni, il ventre o la vulva e tutte sono manifestazioni della sensualità divina femminile.

Nelle fonti greche più antiche sono raffigurate come grossi uccelli dal volto umano per poi acquisire con il passare del tempo braccia e mani con cui tenere gli strumenti musicali: l’aulòs (il flauto a due canne il cui suono era detto simile al canto della sirena), la lira o ancora la siringa (flauto a più canne legate insieme a formare una zattera, detto anche flauto di Pan). Tutti strumenti legati ai misteri dionisiaci, al canto e alla danza femminile.

L’origine del nome di queste creature marine è incerta: si potrebbe risalire al greco seiren, “che sorge dalla pianura”, perché erano il simbolo della piana e lucida superficie del mare, sotto la quale stavano coperti gli scogli e i banchi di sabbia. Oppure, sempre al greco seirios, incandescente o deteriorabile, a seraphin, ardere. Da qui a selas che significa splendente, ardente, lume. Da selene invece ci colleghiamo a luna. Possiamo immaginare l’ardere del sole del mezzogiorno, della canicola, della bonaccia dei mari dannosa quanto la tempesta.

Si cerca l’etimologia anche nel greco syro, attraggo; seirao, incateno, come i marinai prigionieri dell’incanto, legati alle sirene come i naviganti legano a sé i vascelli. Oppure ancora nell’ebraico sir o scir, suonare. Il greco syrigs sta per suonare la siringa, ma anche per sussurro. In latino e nelle lingue romanze le troviamo chiamate serene, in relazione alla parola serenus, asciutto, senza nuvole, cielo chiaro e disteso, rispecchiante il mare calmo sul quale apparivano.

Le sirene vengono spesso raffigurate in gruppi di tre, ognuna con uno strumento sacro, oppure alle due suonano si accompagna una terza che canta.

Nell’Odissea abitano un campo fiorito di un’isola e incantano i marinai al loro passaggio. Come molte creature idriche (le ninfe dei mari, dei fiumi e delle sorgenti) vivono nei luoghi in cui terra e acqua si incontrano: la riva del mare, gli argini di un fiume o le paludi, dove i due elementi si fondono l’uno nell’altro. L’acqua è l’elemento in cui vivono, ma che anche delimita il confine tra il loro mondo e quello della società, che è invece terrigno, organizzato, razionale.

Il confine tra il mondo conosciuto e l’ignoto.


Quello delle sirene è un culto antico che affonda le sue radici nella civiltà matriarcale agricola, legata alla terra e ai suoi segreti ctoni e tellurici. Se la Grecia classica le ingloba dando loro ruoli marginali e poco edificanti nell’economia del divino sostenuto dagli Olimpi, in alcuni luoghi il loro culto sopravvive al susseguirsi delle civiltà, dopo le prime colonizzazioni greche del Tirreno meridionale. Lungo la costa italica, in prossimità delle antiche rotte di colonizzazione, li riconosciamo lungo la costa sorrentina in un gruppo di isole chiamate Sirenusse, o presso lo Scoglio delle Sirene. In queste aree erano molti i santuari preposti alla loro cura. Si venerava perfino la “tomba della sirena” in memoria di colei che, secondo la leggenda, non essendo riuscita a sedurre Odisseo, si gettò in mare dallo sconcerto.

In questi luoghi era venerata in particolar modo la triade conosciuta con i nomi di Partenope (Voce di Vergine), Ligeia (Voce Chiara) e Leucosia (Dea Bianca). Tra gli altri nomi di sirene che ci sono pervenuti, dai quali si desumono spesso anche le qualità delle loro voci, si parla anche di Ciana (l’Azzurra), di Himeropa (Colei che Provoca il Desiderio) il cui nome subisce un adattamento posteriore nel tempo in Eumolpe (Colei che Canta Bene) e poi ancora in Molpo (L’Armoniosa).

Una seconda terna sembra essere definita da Aglaope o Aglaphonos (La Squillante), Telxièpeia (Canto che Addolcisce) e Pisinoe (la Suadente).

Una dicotomia importante vede contrapporsi le muse elleniche alle sirene e concludersi con la sconfitta di queste ultime a rappresentare la supremazia di una civiltà nuova su quella più antica.

Se le muse cantano per gli dèi, le sirene cantano per gli uomini. Se le prime rispecchiano la bellezza, la perfezione e l’armonia apollinea dell’arte, le seconde hanno tratti più foschi, più sinistri e di perdita di sé nel rituale dionisiaco: ma non sono che facce della stessa medaglia.

Secondo Pindaro (Peana 8) pare che a Delfi, prima del tempio in pietra, ne fossero stati costruiti altri tre: una capanna di rami di alloro; uno di cera d’api e piume d’uccello che poteva volare e che lo fece, scomparendo nella mitica, lontana terra degli Iperborei; un terzo di bronzo costruito da Atena ed Efesto sul cui fronte cantavano le Keledones, sei cantatrici (e incantatrici) d’oro. Statue viventi di splendide fanciulle dai tratti di uccello. Secondo la leggenda, gli Olimpi distrussero quest’ultimo tempio sprofondandolo in una voragine della Terra perché il canto delle Keledones causava negli esseri umani l’oblio, facendo loro trascurare le occupazioni quotidiane e la cura della famiglia e della casa. Prima che venisse distrutto, in questo tempio venivano custodite, appese al soffitto come uccelli, delle iynges d’oro. Si trattava di strumenti di magia dalla forma di una ruota che venivano fatti vorticare su una cordicella tesa alle estremità. Pare che la iynx fosse uno strumento inventato da Aphrodite per attirare l’amore verso chi lo usava e instillare il desiderio.

Sovrapporre le iynges e le sirene è giocoforza.

Storicamente il culto di Apollo si insediò a Delfi sottomettendo una preesistente civiltà legata al culto matriarcale della terra. Il mito delle Keledones dal canto perturbante precipitate agli inferi rappresenta molto probabilmente la supremazia sull’antica civiltà in favore di quella nuova e il canto delle sirene fu tramutato in quello delle Muse.

Le sirene erano divinità legate al mare, alla costa e alle condizioni climatiche e venivano onorate come demoni benevoli a tutela dei naviganti nei bracci di mare pericolosi.

Se nella Grecia orientale le raffigurazioni delle sirene continuano ad essere scarse e legate al loro aspetto più ctonio e funereo, nell’arte greca occidentale popolano invece l’iconografia concentrata particolarmente sul lato della sensualità.


Come si è accennato, le fonti, in primis l’Odissea che rimane la più antica testimonianza letteraria a citare queste creature, mostrano le sirene in qualità di cantrici.

Il canto rappresenta la seduzione primordiale, non a caso si parla di in-canto o di in-cantesimo. Quello del canto è la seduzione della parola che canta e incanta.

Se Platone paragona la musica delle sirene all’eloquenza di Socrate, dalla quale bisogna mettersi in salvo per non restare imprigionati dalle sue maglie, Pitagora sostiene che la musica, sorella dell’astronomia, regola le stelle: il loro decorso, il ritmo, l’ordine, l’accordo. Gli astri risuonano armonia e la musica umana non è che l’imitazione.

Il canto delle sirene dona a chi lo ascolta piaceri che sconvolgono, capaci di appagare ogni fame e ogni appetito. Cantando esse inducono all’oblio, provocano la morte nell’incauto viaggiatore che le ascolta riducendolo all’impotenza oppure sbranandolo come le fiere più spietate.

All’incontro con le sirene si può solo soccombere nell’oblio, oppure comprendere il loro canto per elevarsi fino a loro: ferme sul confine, attendono l’iniziato per un percorso spirituale.

Per anni e in molte tesi si è dibattuto sul significato del canto delle sirene. Le interpretazioni più fondate portano a pensare che esso sia collegato alla sfera rituale, a un culto agrario che vedeva le sirene come protettrici degli elementi e intermediarie tra i vivi e i morti, tra il mondo umano e quello divino.

Attraverso la voce esprimono i due aspetti più peculiari della loro natura: il canto della sensualità irrefrenabile e quello funebre dell’Oltretomba.

Dal VI secolo in Asia Minore e dal IV in Attica diventa d’uso porre delle statue di sirena nell’atto di produrre musica sulle tombe o a segnacolo di luoghi preposti alla sepoltura. Il canto di queste creature simboleggiava il canto funebre della cerimonia che aveva come compito quello di accompagnare il defunto nel suo viaggio verso l’aldilà. Secondo la leggenda, le sirene vivono nell’Ade e con la loro musica allieta gli spiriti nobili dei Campi Elisi. Allo stesso modo il loro canto poteva mettere in comunicazione il mondo dei vivi con quello dei morti e recare consolazione a chi subiva un lutto.

La natura perturbante di queste femmine ctonie si associa alle lamie, alle empuse, alle onoscelee e alle arpie. Dei parallelismi forti li troviamo anche nella semitica Lilith, demone della lussuria, ma anche del vento e della tempesta. Tutte queste creature sono accusate di rapire bambini o ucciderli nel sonno; tutte sono coinvolte in una maternità negata.

D’altra parte il canto delle sirene poteva eccitare le tempeste, le burrasche e l’impeto del mare. (Pindaro, Partenio 2, frg. 94 b) O poteva controllarle, riportare alla normalità il vento, la furia delle onde e gli altri elementi naturali.


A quale Musa devo rivolgermi con lacrime, con canti funebri o con gemiti di lutto?

Fanciulle alate, vergini figlie della Terra, Sirene, unitevi al mio lamento

portando il flauto libico, la zampogna di Pan o le cetre

rispondete con lacrime alle mie grida lugubri; dolori con dolori, canti con canti.


Elena, Euripide, v.168


Se da una parte sono creature incapaci di procreare e pronte a rapire bambini umani e a divorare gli uomini per trascinarli negli abissi, dall’altra offrono una sensualità tutt’altro che sterile, ma feconda e piena di vita.

L’aura erotica delle sirene viene espressa dal seno florido, dai gioielli preziosi e dai capelli intrecciati e ornati con nastri: un’immagine che la associa senza difficoltà alle etere. Attraverso la spiritualità orfica alla sirena viene attribuito il significato dell’immortalità dell’anima, della comunicazione con il divino e nella riunione con esso dopo la morte del corpo, attraverso un percorso di purificazione. Numerose sirene compaiono su oggetti di appannaggio femminile, in particolare sui vasi di corredi nuziali delle giovani spose insieme ad Afrodite, al cui seguito appartenevano, e agli eroti. Compaiono sugli specchi e sui pettini, ancora ad affiancare Dioniso e i satiri, spiegando come con il matrimonio si perpetui un rinnovamento della vita rappresentato da Dioniso smembrato e in seguito risorto.

Raffigurate sugli specchi delle fanciulle, spesso ne possiedono uno esse stesse: reggono uno specchio rotondo, come la dea Afrodite alla quale assomigliano (il simbolo astrologico di Venere è lo specchio rotondo che sormonta il manico a croce, del resto, e in genetica lo stesso simbolo indica il femminile). Lo specchio rimanda alla superficie dell’acqua e mostra l’abisso. Oppure lo illumina, come lo specchio del pescatore.

Le sirene, come Afrodite, si specchiano. Studiano loro stesse, si indagano, vanno in profondità, cercano la conoscenza sotto la superficie. Allo stesso modo, abbagliano il navigante che giunge fino a loro: lo illuminano, gli mostrano la verità.

Il pettine che usano serve a ravviare la lunga chioma ondulata, che rimanda al mare, al moto ondoso e alla stessa luce, che illumina.

Sono creature della seduzione: seducere significa condurre a parte, trarre in disparte, far deviare, dirottare. Sono quindi creature che costringono al cambiamento. Il loro è un segreto rituale, dal momento che “cosa seduce” non è palese, ma resta nascosto.

Rappresentano il femminile oscuro e acquatico. Quando le si ascolta, lo si fa al di là dei sensi, in una dimensione interiore.

lunedì 23 maggio 2022

Ecate


 Ecate è oggi riconosciuta come la dea delle arti magiche e della stregoneria, Il suo nome significa colei che colpisce da lontano.

Circe e Medea avevano appreso da Ecate la loro arte ed erano iniziate ai suoi misteri.

Anche questa figura mitologica ebbe inizialmente connotazioni positive in qualità di dea delle terre selvagge e del parto (assimilabili quindi alla dea madre), in seguito, quando iniziò la demonizzazione del femminile, divenne dea della stregoneria e il suo ruolo fu relegato a quello di “Regina degli Spettri”, tale attributo fu trasmesso alla cultura post-rinascimentale, dalla quale presero poi spunto gli inquisitori durante la loro opera di “pulizia religiosa”.

Era rappresentata con tre teste e un solo corpo o con tre corpi uniti per la schiena (trimorfa).

Per gli orfici era trimorfa non solo perché rappresentava le fasi lunari, ma anche per l’assimilazione al culto delle grandi divinità ctonie come Demetra, Persefone e Artemide.


Esistono due teorie circa la sua origine:

Una ritiene che fosse figlia di Zeus e della figlia di Eolo Ferea e che la sua rappresentazione infernale derivasse dall’ira di Era che, immergendola nell’Acheronte con lo scopo di purificarla, ne determinò la trasformazione in una divinità degli inferi. In qualità di dea degli inferi teneva per cento anni aldilà dello Stige le anime di coloro che erano morti senza sepoltura.


Secondo la Teogonia di Esiodo era invece figlia dei Titani Asteria e Perse:

E Asteria incinse, e a vita diede Ècate, cui sopra tutti Giove Croníde onorò, le die’ fulgidissimi doni:

parte le die’ della terra, del mare che mai non si miete:

ed anche ella ha potere nel cielo gremito di stelle,

e piú d’ogni altra, onore fra i Numi immortali riscuote.

Ed anche adesso, quando qualcuno degli uomini in terra fa sacrifizi, e placa, secondo le usanze, i Celesti,

Ècate invoca per nome. E onore accompagna un mortale, quando la Dea le sue preghiere benevole intende;

e gli concede prosperità: ché ben grande è sua possa.

Perché di quanti nacquer da Terra e da Uràno, ed onori ebbero, questa Dea parte ha degli onori d’ognuno;

perché duro con lei non fu Giove, né nulla le tolse di quanto ella avea già fra i Numi piú antichi, i Titani,

bensí tutta la parte che allor possedeva, possiede.

Né meno onor la Dea, perché figlia è unica, ottenne, non della terra parte minore, del cielo e del mare,

ma anzi assai di piú: ché molto l’onora il Croníde.

E sta presso a chi vuole proteggere, e molto gli giova.

Nell’assemblea, prevale fra gli uomini l’uom ch’ella brama: quando alla guerra, sterminio degli uomini, s’arman le genti,

Ecate qui, la Diva, si mostra, ed a quelli che vuole, volonterosa gloria concede, concede vittoria:

dove giustizia si parte, vicino ai re giusti ella siede: anche allorché negli agoni contendono gli uomini, giova:

ché anche presso a loro si reca la Diva e li assiste, e chi di gagliardia prevalse, di forza, il bel premio

agevolmente guadagna, ricopre i suoi figli di gloria.

Ai cavalieri anche sa, quando vuole, recare assistenza.

E a chi nel glauco mare travagli. , e tra l’ira dei flutti Ecate invoca, e l’Enosigèo che profondo rimbomba,

la celeberrima Dea, facilmente concede ogni preda, agevolmente, e, dopo scovata, se vuole, la toglie.

Moltiplicare il bestiame nei chiusi ella può con Ermète. Le mandre dei giovenchi, le greggi gremite di capre,

le mandrïe lanose di pecore, ov’essa lo voglia, da pochi a molti capi, da molti riduce a ben pochi.

Così costei, che fu di sua madre l’unica figlia, onor su tutti i Nomi che nacquer piú antichi, riscote.

E protettrice il Croníde dei pargoli tutti la fece che gli occhi dopo lei dischiusero ai raggi del sole:

così da prima fu tutrice onorata ai bambini


Nella tradizione più antica era probabilmente una divinità lunare della Tessaglia, più tardi confusa con l’aspetto invisibile di Artemide corrispondente alla luna nuova per la sua identificazione con Selene. Come Artemide non usciva mai dalle dimore sotterranee e vagava sulle montagne come la luna, ma proprio per questo motivo in seguito divenne la dea degli spettri e di ogni magia, le erano sacri i crocicchi e i trivi nelle strade (per cui   chiamata anche Trivia) e la sua presenza era annunciata dai latrati dei cani da battaglia.

Anche questo animale merita una breve riflessione perché nel corso dei secoli subì interpretazioni ora positive, ora negative, in relazione ai personaggi che affiancavano o che rappresentavano (si pensi all’iconografia domenicana). Si riteneva che i cani fossero in grado di salvaguardare gli uomini dai pericoli invisibili perché in grado di vedere gli spiriti, in relazione al dio Anubi, che prese la forma di un grande cane simile allo sciacallo, ebbero anche il ruolo di guidare le anime nell’aldilà, però durante l’azione repressiva intrapresa dall’Inquisizione, i cani neri entrarono a far parte del novero dei simboli demoniaci presenti nei diversi trattati di demonologia perché considerati accompagnatori demoniaci delle streghe o dei maghi.


NOTIZIE TRATTE DA:

Rosalba Mulas“Iconografia delle streghe dall’antichità all’età moderna e stregoneria in Sardegna”

in Salvatore Loi “Inquisizione, magia e stregoneria in Sardegna”

H. Biedermann “Enciclopedia dei simboli”

Esiodo “Teogonia,

sabato 21 maggio 2022

La Norma

 


Il termine Norna deriva dall'antico Norreno "Norn" (Nornir al plurale) che significa "[colei che] bisbiglia [un segreto]", esse vivono presso la fonte di Urðarbrunnr, ove tessono il filo del destino dei mortali.

Le Norne dimoravano presso l'Urðabrunnr, il Pozzo di Urd, descritto come bianchissimo e risplendente. Si racconta che presso tale fonte ci sia la piana dove gli Æsir tengono consiglio, detta Idavall. Esse avevano il compito di irrorare ogni giorno Yggdrasil con acqua e argilla per evitare che seccasse o marcisse, dove tessono l'arazzo del destino. La vita di ogni persona è un filo nel loro telaio e la sua lunghezza corrisponde alla lunghezza della vita dell'individuo.
Nell'Edda vengono descritte anche come intagliatrici di Rune, che incidono su assicelle e tavolette, forse per trascrivere le diverse vite delle creature dell'universo, infatti si dice che nella trama del destino sono tessute le Rune.
Al loro potere sul destino si fa risalire la ragione per cui sull'unghia della Norna sono incise le Rune ("segreti sussurrati").
Le Norne stabilivano il destino degli uomini, lo svolgimento della vita delle creature dell'universo, nessuno escluso: uomini, animali, piante, esseri sovrannaturali, persino le divinità erano sottoposte al criterio delle Norne, le uniche creature che veramente possono essere definite "eterne" nella cosmogonia dei popoli nordici. Peculiare della mentalità nordica era, infatti, che tutto avesse una fine, e che nulla fosse eterno, neanche gli dei che infatti sono destinati a perire nel Ragnarǫk. L'unica cosa eterna è il Destino, che era appunto gestito dall'operato delle tre Norne.
Delle Norne si parla sempre al plurale e compaiono molto spesso in diversi passi della poesia eddica e scaldica, prevalentemente nella loro figura di Norne ostili che stabiliscono un destino di sfortuna e morte, seppur non manchino riferimenti anche al loro lato positivo. Questo perché rappresentano le dee del destino, incarnazione di un fato superiore e ineluttabile che tutto sovrasta, uomini e dei che siano.
Nel "Dialogo di Fáfnir" si precisa come esse siano di diversa natura, alcune appartenenti agli Æsir, altre ai Vanir, altre ancora agli Elfi, poiché vengono descritte come un gruppo numeroso di divinità dal carattere indistinto. Solamente Snorri nella Völuspá ne definisce solo tre di suddetto gruppo, che dimorano presso l'Albero Cosmico, Yggdrasil, accanto alla fonte del destino, Urðarbrunnr. Queste tre Norne ricordano molto non solo le Parche romane, ma anche le Moire greche. Solo Urðr, il cui nome significa "destino", è la più anziana; Verðandi risulta essere infatti una figura ben più tarda e il suo nome deriva dal verbo "verða" "divenire". Skuld, definita da Snorri la più giovane, porta con sé il significato di "debito", "colpa" e viene nominata anche nella schiera delle Valchirie. Il legame tra le Norne e le Valchirie viene sottolineato anche in un passo del "Dialogo di Fáfnir", dove si dice che i lupi sono i "cani delle Norne" poiché pongono fine a molte vite; nello stesso passo si evince anche il legame tra le Norne e le Dísir.
La credenza nelle Norne era così fortemente radicata nel mondo e nella cultura nordici, che in alcune saghe la venerazione di esse viene indicata tra le consuetudini a cui doveva rinunciare chi si convertiva al cristianesimo.

surbiles o surtoras.


 Un giovane innamorato di una ragazza bella quanto misteriosa, che lavorava nella panetteria del suo paese, decise di indagare per scoprire come mai lei alla richiesta del ragazzo di un bacio rispondesse che non poteva essere toccata fino a quando non avesse risolto un problema.

Il giovane se pur discretamente riuscì a scoprire quanto gli occorreva.
La ragazza era la settima figlia femmina consecutiva della sua famiglia e in quanto tale una coga. Le cogas sono riconoscibili perché hanno una minuscola coda oppure una piccola croce pelosa sulla schiena. Erano conosciute anche con i nomi di surbiles o surtoras.
Considerate streghe e vampire poiché dedite a succhiare il sangue umano soprattutto quello dei neonati non ancora battezzati, is cogas erano temute anche per il loro potere di trasformarsi in animali, di rendersi invisibili o di spostarsi velocemente a cavalcioni su delle scope.
Si dice che bastasse rivoltare un indumento, anche indossato in quel momento, per vedersele all’improvviso di fronte, senza abiti e coperte solo dai lunghi capelli e peli. Il giovane però non si rassegnò a questa notizia e, convinto di poterla salvare, attese con pazienza la notte in cui sua sorella partorì.
Nel cortile della casa di sua sorella appese ad un albero una camiciola del nascituro girata al contrario, appoggiò per terra un treppiede rovesciato e attese l’arrivo de is cogas.
Il giovane non dovette aspettare molto, le streghe si presentarono tutte senza abiti ricoperte solo dai loro capelli a da peli. Tra loro c’era anche la giovane e bella amata, la quale cercò di ritrarsi non appena riconobbe il giovane.
A questo punto lui la afferrò, la trascinò sino alla cantina della casa promettendole che non le avrebbe fatto del male.
Il giovane corse nella vicina chiesa a chiedere l’intervento del parroco, il quale prese un crocifisso e una icona rappresentante un santo in veste di esorcista, e seguì il giovane.
Con grande sorpresa di entrambi nella cantina chiusa a chiave dall’esterno non trovarono nessuno, tranne un moscone che cercava la via d’uscita.
Il parroco fece accendere una candela benedetta al giovane mentre lui pronunciava delle preghiere.
Mentre la luce cominciava lentamente a rischiarare l’ambiente, il moscone aumentava di dimensioni sino a cadere per terra dal peso.
Il giovane che aveva tenuto gli occhi chiusi durante il rito, li riaprì in quel momento e vide che per terra c’era il corpo della sua amata adagiato come se dormisse.
La portarono in chiesa dove si svegliò e dove non ricordava più nulla.
Con l’aiuto del giovane e del parroco la ragazza si era liberata dal suo problema, non era più una strega

lunedì 16 maggio 2022

Gli Gnomi


 Quando noi umani pensiamo agli Gnomi inevitabilmente ci viene in mente l’immagine di un piccolo uomo vestito un po’ all’antica con una lunga barba ed un cappello rosso in testa. Questo stereotipo non è del tutto erroneo, ma sicuramente non rende giustizia alle diverse peculiarità che caratterizzano le razze gnomiche. Allora, chi sono gli Gnomi?

Ma chi sono gli Gnomi? Se vogliamo studiare seriamente questo affascinante popolo, la cosa migliore da fare è capire le differenze che li contraddistinguono. Prima di iniziare però, è meglio far luce su alcune caratteristiche di base. Gli Gnomi si distinguono in due sessi, quello maschile e quello femminile. Uno Gnomo maschio, senza problemi di salute, arriva a vivere, mediamente, fino ai 900-950 anni. Gli Gnomi femmina, invece, sono più longeve: ci sono infatti attendibili testimonianza di Gnomi femmina che hanno superato i mille anni di età.
Uno Gnomo maschio raggiunge la maturità intorno ai 300 anni: questo è il sospirato momento in cui la barba, cresciuta intorno agli 80 anni, gli diventa grigia.
La barba è un elemento fondamentale per ogni gnomo maschio: è simbolo di maturità e affidabilità. Uno gnomo non riesce infatti a concepire se stesso senza la barba: quando questo Piccolo Popolo ha scoperto tra le usanze dell’uomo moderno quella di radersi quotidianamente la barba, si è diffuso tra i maschi un senso di indignazione, che ben presto si è trasformato in ilarità… “Ma come può essere affidabile uno che si rade?” Questa è la frase più ricorrente tra gli gnomi quando si parla degli umani maschi.

sabato 7 maggio 2022

HSING NU, IL POPOLO DISCESO DALLE STELLE

Hsing Nu, il popolo adoratore delle stelleUn popolo enigmatico è quello degli Hsing Nu, dei quali pochissimo sappiamo tuttora, se non che praticavano una curiosa forma di religione astrale, per cui sono stati definiti «adoratori delle stelle». Di loro, e del mistero che li avvolge e che avvolge specialmente la loro fine, ha parlato, tra gli altri. anche il pioniere dell’archeologia spaziale in Italia, Peter Kolosimo, in uno dei suoi libri più famosi e intriganti, Terra senza tempo (Sugar Editore, Milano), nei seguenti termini:Gli Hsinhg Nu non erano certo contraddistinti da un alto livello civile, ma, per molti versi, le testimonianze indirettamente pervenuteci sui loro monumenti c’indurrebbero a pensare il contrario: ci troviamo di fronte , insomma, ad uno dei tanti inspiegabili contrasti propri alle antiche culture.Gli Hsing Nu abitavano una regione del Tibet settentrionale, a sud della grandiosa catena del Kun Lun, una zona ora desertica, in gran parte inesplorata. Non erano d’origine cinese: si pensa fossero arrivati laggiù dalla Persia o dalla Siria; i rinvenimenti effettuati, infatti, ci riportano ad Ugarit e, in particolare, alle raffigurazioni del dio Baal, dal lungo elmo conico e dal corpo ricoperto d’argento.Quando, nel 1725, l’esploratore francese padre Duparc scoprì le rovine della capitale degli Hsing Nu, quel popolo, annientato dai Cinesi, apparteneva già da secoli alla leggenda. Il monaco poté ammirare i ruderi d’una costruzione nel cui interno s’ergevano più di mille monoliti che dovevano un tempo essere rivestiti con lamine d’argento (qualcuna, dimenticata, dai predatori, era ancora visibile), una piramide a tre piani, la base d’una torre di porcellana azzurra ed il palazzo reale, i seggi del quale erano sormontati dalle immagini del Sole e della Luna. Duparc vide ancora la ‘pietra lunare’, un masso d’un bianco irreale, circondata da bassorilievi raffiguranti animali e fiori sconosciuti.Nel 1854 un altro francese, Latour, esplorò la zona, rinvenendo alcune tombe, armi, corazze, vasellame di rame e monili d’oro e d’argento ornati con svastiche e spirali. Le missioni scientifiche che, più tardi, si spinsero laggiù, reperirono soltanto qualche lastra scolpita, avendo la sabbia, nel frattempo, seppellito i resti della grande città. Fu nel 1952 che una spedizione sovietica tentò di portare alla luce almeno una parte dei ruderi.Gli avventurieri della scienza si sottoposero a un lungo, massacrante lavoro, senza poter contare su strumenti adeguati, il cui trasporto in quelle regioni appariva impossibile; purtroppo essi riuscirono soltanto a strappare al deserto l’estremità d’uno strano monolite aguzzo, che sembrava la copia identica di quello della città morta africana di Simbabwe, con alcuni graffiti.Dai monaci tibetani, però, gli studiosi russi appresero vita, morte e miracoli degli Hsing Nu. Furono loro mostrati antichissimi documenti in cui la piramide a tre piani era descritta sin nei minimi particolari. Dal baso all’alto, le piattaforme avrebbero rappresentato «la Terra Antica, quando gli uomini salirono alle stelle; la terra di Mezzo, quando gli uomini vennero dalle stelle; e la Terra Nuova, il mondo delle stelle lontane».Che cosa significano queste parole sibilline? Vogliono forse dirci che gli uomini raggiunsero chissà quale pianeta in un passato senza ricordo, che tornarono poi al loro globo d’origine e che, alfine, non ebbero più modo di comunicare attraverso lo spazio? Non lo sapremo probabilmente mai, ma i Tibetani pensano che sia in effetti così., affermano che quel popolo cercò nella religione il proseguimento dei viaggi cosmici, cullandosi nella credenza che le anime dei defunti salgano in cielo per trasformarsi in astri.Interessantissima è la descrizione dell’interno del tempio, che collima in parecchi punti con quella resa da padre Duparc. Su un altare – rivelano le vecchie cronache tibetane – era posta la «pietra portata dalla Luna» («portata», non «venuta»;non si sarebbe trattato, quindi, d’una meteorite), un frammento di roccia d’un bianco latteo, circondato da magnifici disegni rappresentanti la fauna e la flora della «stella degli dei». E dei monoliti a forma di fusi sottili, rivestiti d’argento. Sono animali e piante d’un pianeta colonizzato da cosmonauti preistorici, monumenti eretti a simboleggiare le loro astronavi?Prima d’un «cataclisma di fuoco», gli Hsing Nu sarebbero stati civilissimi ed avrebbero coltivato diverse straordinarie scienze, le stesse che sono ancor oggi vive fra i Tibetani: essi sarebbero stati non solo in grado di «parlarsi a distanza», ma addirittura di comunicare con il pensiero attraverso lo spazio. Gli individui sopravvissuti alla catastrofe sarebbero precipitati nella barbarie, non conservando dell’antica grandezza che il ricordo deformati dalla superstizione.Leggende, favole, superstizioni? Forse.Tuttavia, noi sappiamo che le leggende non nascono mai per caso: si tratta solo di avere l’umiltà e la perseveranza di continuare a scavare intorno ad esse, con mente sgombra da pregiudizi scientisti, per veder riemergere, poco alla volta, il fondo di verità da cui sono nate.

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Un mistero diffuso in tutto il mondo: I Bambini dagli occhi neri

Si tratta di una fenomeno che ha una diffusione mondiale, dai paesi più industrializzati a i più poveri del terzo mondo provengono testimonianze sul loro avvistamento. La descrizione che ne viene fatta è sempre la stessa a prescindere dalle varie culture di origine; sono dei bambini di età compresa tra i 10 ed i 12 anni, hanno un pallore cadaverico gli occhi completamente neri senza la distinzione dell’iride e sono abbigliati in modo estremamente povero e strano, compaiono nella notte e girano per le città osservando attraverso le finestre gli abitanti, quasi a volerci studiare. Raramente entrano in contatto con le persone ma esistono anche dei casi inquietanti che raccontano tale circostanza… Quando hanno un contatto chiedono un passaggio oppure di entrare in casa terrorizzando i malcapitati. Ultimamente sembra che tali avvistamenti si siano intensificati ed in particolare abbiamo delle testimonianze nel sud Italia e precisamente un caso a Reggio Calabria ed uno a Messina, in entrambi i casi i bambini hanno cercato un contatto con delle persone del posto. Ciò che queste creature dicono per convincerci a farli entrare in casa è quasi senza senso, quasi come se non padroneggiassero perfettamente la nostra realtà, chiedono di entrare a fare una telefonata, oppure di poter giocare ad un videogame… Sembra quasi che ripetano un copione con poche variabili studiato in precedenza per ingannarci. Quello che è certo è che gli animali li temono, in una maniera esagerata. Nel caso dell’avvistamento di Reggio Calabria il malcapitato era accompagnato da un grosso pitbull che iniziò a ringhiare contro il bambino per poi essere colto da un terrore innaturale che perdurò per giorni. Una cosa è certa, queste creature non sono umane ed è meglio non aver nessun contatto con loro, se vi capitasse non fateli entrare in casa ed evitate di parlarci.

Nessuna descrizione della foto disponibile.
Tiziana Ciancio, Taisha Deidda e altri 8
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