lunedì 30 dicembre 2019

Mormo – Vampiri nella Grecia Classica


La Mormo (Μορμώ, Μορμών) è uno spirito che morde i bambini per berne il sangue.
E’ una figura che si trova nella mitologia greca e che poi viene ereditata da quella romana e che somiglia molto alle rappresentazioni dei vampiri femminili a cui la letteratura gotica ci ha abituati.
Come alle streghe delle fiabe o ai folletti maligni, veniva attribuita a queste creature il provocare di disordini e rumori notturne nelle case o nelle botteghe.
Le sue sembianze erano quelle femminili (come al solito ci troviamo di fronte a donne splendide oppure a orrende megere) che presentavano tratti equini o si presentavano in forme di cavalli o di farfalle, come vuole un’ampia tradizione degli spettri.
Come le Lamie e le Empuse, anche le Mormo fanno parte del seguito di Hekate e talvolta ne annunciano l’arrivo o la rappresentano con il loro palesarsi.
Dall’epoca antica ci sono pervenute ben poche informazioni su queste figure mitologiche, ma pare accertato che avessero un ruolo iniziatico consistente nei culti misterici di Hekate.
Nelle commedie di Aristofane troviamo citate queste creature, ma pare che il commediografo greco utilizzasse il termine alla stregua di “uomo nero” o di “spauracchio”.
In questi casi Aristofane faceva riferimento a una tipologia di maschere particolari, le mormolykeia, modellate appunto sulla figura della Mormo con le quali si spaventavano i bambini.

Il teologo cristiano Ippolito di Roma (Asia, 170 circa – Sardegna, 235) nel suo Philosophumena redasse un paragrafo sulla forma di divinazione della piromanzia in cui accanto a Hekate e altre dee ctonie o lunari (Bombo, Gorgo, Luna) veniva invocata Mormo.
Da ciò possiamo presumere che le Mormo avessero connessione con i poteri del fuoco.
Probabilmente, considerata la triplice forma di Hekate e della Luna, e le tre Gorgoni, possiamo immaginare Mormo come una delle tre facce di una divinità più ampia.

Altre divinità simili, utilizzate nell’antichità dai genitori come spauracchio per i bambini che non volevano dormire – analoghe al più moderno uomo nero – erano, oltre a Mormo, anche Eurinome – tra le tante della mitologia greca, ci riferiamo alla divinità infera

dedita a divorare i corpi dei morti – Gello, Alifto e Acco. L’etimologia di quest’ultima è affascinante: deriva probabilmente dalla radice del verbo akkìzomai (“faccio smorfie”, “ghigno”). Presso i romani divenne Acca, che significa “madre”, “tata” e quindi allude a una vicinanza molto stretta, quasi intima alla dimensione domestica e del bambino dalla quale addirittura veniva o poteva venire accudito.
Il personaggio più importante in riferimento a questa tradizione è sicuramente Acca Larenzia, di cui parleremo in relazione alla mitologia romana, successivamente.

domenica 29 dicembre 2019

Lilith - Vampiri in Medioriente


Troviamo Lilith nelle religioni mesopotamiche e nell’ebraismo delle origini e le sue radici sono probabilmente babilonesi.

In accadico troviamo dei riferimenti al suo nome nel termine Lili-itu, riferito dalla divinità Ninlil. Entrambi i termini significano “signora dell’aria” e con Ninlil era chiamata la dea del vento meridionale, la moglie del dio celeste Enlil. Nell’antico Iraq, il vento del sud è associato con l’aggressione portata dalle tempeste di polvere meridionali e in generale con le malattie.

Līlītu (accadico) e לילית (lilith, ebraico) sono aggettivi femminili che derivano dalla radice linguistica proto-semitica <L-Y-L> notte (con l’aggiunta della nisba t a significare della notte o notturna), e traduce letteralmente un essere femminile della notte, demone. Con tutto quello che dalla connotazione notturna deriva.
La stessa radice – che non esige letteralmente uniformità di concetti – in ebraico e nell’arabo Layla/Leyla, Lela o Lel significa sera o notte.

Lilith è un demone femminile associato al vento e alla tempesta. Porta con sé malattia, pestilenza e morte con un battito d’ali. E’ infatti raffigurata nella forma di donna uccello, così come molte altre figure femminili a metà tra il mondo umano e quello demonico. Oltre ad avere le ali, Lilith possiede lunghi e folti capelli (simbolo di sensualità e fertilità) di colore rosso (la lussuria senza controllo).

Nella mitologia babilonese i demoni (a differenza dei diavoli, di natura simile a quella divina) sono creature a metà tra la condizione umana e quella divina.
Lilitu è una demonessa, compagna di Lilu. Dai due nasce la figlia Ardat Lili.
Di Lilitu si dice: “è il demonio che l’uomo crea sul letto durante il sonno”.
Secondo gli ebrei, Lilith era la prima moglie di Adamo, nata non come Eva da una costola dell’uomo, ma modellata da Dio con la stessa terra. Lilith rifiutò di sottomettersi al marito e se ne andò via, oltre i confini dell’Eden, laddove dimoravano gli angeli caduti dopo la battaglia celeste condotta da Lucifero. Lilith lo trovò e lo scelse come compagno (riferimenti nello Sefer ha-Zohar,il Libro dello Splendore, uno dei principali testi cabalistici ebraci e nell’L’alfabeto di Ben-Sira, anonimo del X sec.d.C.).

 “Ella disse ‘Non starò sotto di te,’ ed egli disse ‘E io non giacerò sotto di te, ma solo sopra. Per te è adatto stare solamente sotto, mentre io sono fatto per stare sopra.”
Alfabeto di Ben-Sira

Lilith si infuriò e pronunciò ad alta voce il nome di Dio: un tale atto è tabù nella religione ebraica. Se è un essere umano a commetterlo, genera scandalo. In un mito, designa e legittima una natura sovrumana. Abbandonò l’Eden prima della caduta dell’uomo e non avendo toccato l’Albero della Conoscenza non fu condannata alla mortalità.
Adamo chiese a Dio di riportare indietro Lilith, cosi tre angeli, chiamati Senoy, Sansenoy e Semangelof, furono mandati per ricercarla. Quando i tre angeli trovarono Lilith e le ingiunsero di tornare minacciandola di morte, lei rispose che non sarebbe potuta tornare da Adamo dopo aver avuto relazioni con i demoni, e che non sarebbe potuta morire in quanto immortale. Ma quando gli angeli minacciarono di uccidere i figli che lei aveva generato con i demoni e Lilith li supplicò di non farlo, promettendo che non avrebbe toccato i discendenti di Adamo ed Eva, se solo si fossero pronunciati i nomi dei tre angeli.

La dea Ishtar - che in uno dei suoi aspetti condivide le sembianze rapaci con Lilith
La dea Ishtar - che in uno dei suoi aspetti condivide le sembianze rapaci con Lilith
Viene descritta come un demone notturno, nelle sembianze di una civetta che lancia il suo grido, si aggira con altri demoni della tempesta e del vento. E’ fonte di grande pericolo per i bambini di sesso maschile (per proteggerli si usavano amuleti con nomi di angeli, oppure si tracciava un cerchio sacro attorno alla culla) e connota gli aspetti della femminilità che la religione ebraica aborriva: l’adulterio, la lussuria e la pratica di arti magiche e stregonesche da parte delle donne.

Le sue forme e la connotazione sensuale e sessuale la avvicinano all’antica dea Ishtar (Astarte o Inanna), divinità dell’amore e della guerra che spesso recava sembianze di donna uccello, conosciuta come “la giovane dea che ama sorridere”. Questa dea, così come poi Aphrodite, praticherà la prostituzione sacra.

Il passaggio da una religione profondamente matriarcale a una di stampo patriarcale vedrà connotare la grande sessualità femminile della dea da fonte di vita, piacere e fecondità a qualcosa di malsano da arginare.
Un’altra figura che concorre a formare il simbolo Lilith è Lamashtu.
Si tratta di un demone metà donna e metà asina o vacca, laddove la vacca rappresenta la lussuria, ma anche la fertilità, al nutrimento. Nelle religioni greche, associate alla vacca erano grandi dee madri come Hera o Europa. Lamashtu era la controparte femminile di Lamassu (riferimenti sempre nel post relativo a Lamashtu: Vampiri nel Medioriente II), il famoso bue alato con volto umano barbuto dell’iconografia assira. Nella cultura greca, la Lamassu diventa la lamia. La sua sola presenza significava distruzione e l’immagine veniva utilizzata come simbolo apotropaico, per incutere terrore e a protezione delle città e degli edifici.

Lilith rapisce i bambini piccoli o ne succhia via il respiro; provoca le eiaculazioni notturne negli adolescenti per cibarsi della loro energia sessuale e del loro sperma. Nei loro letti, poi, genera demoni.

Le zampe da rapace notturno e le ali (oppure, talvolta, una coda di pesce) rimandano all’aspetto con cui conosciamo le sirene. Sono tutte caratteristiche che sottolineano il legame di questa creatura con la luna, astro femminile di luci e ombre.

lunedì 23 dicembre 2019

La birra, un liquido divino


La storia della birra si perde nell'alba dei tempi, tanto che non si ha la certezza assoluta su quale popolo debba ritenersi l'inventore della bevanda. Ne parlano iscrizioni sumere, papiri egizi e addirittura si ricordano tradizioni azteche e cinesi di produzione della birra a partire rispettivamente da mais e riso. 
 Per quanto riguarda l'area mesopotamica, una stele sumera di circa 6000 anni fa documenta l'esistenza della birra. Tra i Sumeri, infatti, esistevano già diverse varietà di birra (chiare, scure, rosse, leggere, forti, ecc.), che era stata inventata, secondo la mitologia, dalla dea Ninkasi. Proprio l'inno a questa divinità costituisce una delle più antiche ricette della birra:

Ninkasi, tu sei colei che cuoce il bappir [pane d'orzo cotto due volte] nel grande forno, 
Che mette in ordine le pile di cereali sbucciati,Tu sei colei che bagna il malto posto sul terreno...
Tu sei colei che tiene con le due mani il grande dolce mosto di malto...
Ninkasi, tu sei colei che versa la birra filtrata del tino di raccolta, 
È [come] l'avanzata impetuosa del Tigri e dell'Eufrate

 Sempre in Mesopotamia, troviamo tracce della birra anche nel codice del re babilonese Hammurabi che, tra le altre cose, regolamentava il comportamento delle ostesse (la birra era infatti venduta solo da donne) nel commercio della birra. Questa bevanda, presso i Babilonesi, aveva un'importanza fondamentale nei riti funebri, durante i quali veniva consumata in onore del defunto in qualità di rito propiziatorio. Inoltre la stessa Ishtar, la dea madre del pantheon babilonese, traeva forza proprio dalla birra.  
 Anche nell'antico Egitto questa bevanda era ricollegata a delle divinità. E non erano divinità qualunque, visto che si trattava di Iside e Osiride, ritenuti gli inventori della birra. Oltre a usare tale bevanda nelle cerimonie funebri, gli Egizi la impiegavano anche a scopo medicinale e nell'alimentazione quotidiana; infatti, perfino i bambini venivano abituati a bere birra, poiché rappresentava sia un nutrimento sia una medicina. Il liquido veniva offerto in particolar modo alle gestanti, per favorire l'allattamento.

 Si può così notare come nel mondo antico questo liquido venisse associato alle divinità femminili della terra e dei cereali. Oltre alla dea babilonese Ishtar, la birra nel mondo romano venne chiamata cerevisia in onore di Cerere, la dea delle messi. Come succedeva spesso nella cultura romana, si trattava della ripresa di una tradizione greca, che prevedeva il consumo della bevanda durante le feste in onore di Demetra, l'equivalente greca della Cerere romana sopra citata. Nonostante nel mondo classico il vino la facesse da padrone, dunque, anche la birra si ritagliò un ruolo importante, soprattutto durante le Olimpiadi, dove agli atleti era proibito bere vino.
 Altre leggende provenienti da vari paesi dimostrano l'esistenza dell'associazione birra-donna in quanto simbolo di fertilità. Una di queste vuole che fosse stata proprio una donna a produrre per prima la birra. Questa si era dimenticata fuori dalla propria abitazione un contenitore con dei cereali durante la pioggia. I cereali macerarono nell'acqua e fermentarono naturalmente grazia al successivo calore solare.
 Una saga nordica narra di un re vichingo che, dovendo scegliere una moglie tra due donne, volle sposare quella che avrebbe prodotto la birra migliore. La futura prescelta invocò Odino, il quale usò la propria saliva come lievito fermentante nella preparazione della bevanda. Da quel momento in poi, la birra fu investita del potere di trasmettere la conoscenza esoterica e la donna doveva vegliare durante il momento della fermentazione.
 Anche in Scandinavia e nelle repubbliche baltiche la donna aveva un rapporto particolare con la birra. Il Kalevala, il più grande poema epico finlandese, nel ventesimo runo parla di Osmotar, la ragazza che scoprì il segreto del processo di fermentazione attraverso l'uso di ingredienti e riti she simboleggiano un'unione mistica sessuale. In Lituania, invece, un rito della fertilità praticato fino al XVI secolo prevedeva che la ragazza più alta del villaggio, in equilibrio su un solo piede sopra una panca, bevesse e offrisse birra al dio Waizganthos, che presiedeva alla crescita delle messi di lino.
 Ovviamente, se le donne potevano propiziare la produzione della birra, potevano anche porre degli ostacoli alla fermentazione, come nel caso delle streghe. In alcuni casi, si pensava che durante particolari giorni del ciclo, le donne esercitassero un'influenza negativa sul lievito, minacciando la buona riuscita della fermentazione.

 La birra però non è associata solo alle figure femminili. Se ci spostiamo verso il nord Europa, infatti, essa si insinua nei rituali e nei miti che non sono necessariamente connessi con la fertilità o con le donne.
 Vi sono diverse leggende che individuano vari personaggi come inventori della birra, quali il mitico re Gambrinus delle Fiandre, Radigost, il dio slavo dell'ospitalità o un certo Charlie Mopps, protagonista di una canzone diffusa nei pub inglesi:

Molto tempo fa, indietro nella storia
quando tutto quello che c'era da bere erano solo tazze di the, 
arrivò un uomo chiamato Charlie Mopps 
ed egli inventò la meravigliosa bevanda, e la fece con il luppolo.
  
 Tacito racconta che tra i Germani c'era l'usanza di bere birra a volontà nelle assemblee prima di deliberare, poiché in questo modo credevano che si favorisse il contatto con gli dèi e i defunti. 
 Inoltre, nella tradizione vichinga la birra è concepita come una bevanda sacra adatta ai guerrieri, poiché poteva conferire loro la forza della terra. Odino stesso raccomandava ai guerrieri di consumarla per favorire le proprie prestazioni durante la battaglia, a patto che poi l'uomo riacquistasse il senno. I guerrieri bevevano la birra in corni con incise rune sacre, di modo che se un nemico vi avesse aggiunto del veleno, il corno si sarebbe spezzato. 
 Sempre nei paesi nordici, vi sono leggende che si intrecciano con gli spiriti maligni. Questi si annidavano nei locali dove si preparava la birra a andavano esorcizzati con spruzzi di mosto e della bevanda stessa. Nel caso questo non bastasse, la notte, nella stanza dove si produceva la birra, veniva lasciato di guardia il gatto di casa, che aveva il compito di scacciare il più malvagio degli spiritelli, Okorei. Costui, infatti, protetto dalle tenebre notturne, rubava la birra e faceva inacidire quella che non riusciva a portare via con sé.  
 In generale, poi, vi era la credenza secondo la quale non si dovevano sbattere le porte o far vibrare i pavimenti di legno della stanza dove si preparava la birra per non "spaventare" il lievito. Ciò era dettato dal fatto che, per far avvenire regolarmente la fermentazione, bisognava evitare ogni corrente d'aria e ogni minimo scuotimento del mosto.    

 Infine, non si può non menzionare la cultura celtica, dove la birra compare praticamente ovunque. Queste popolazioni stimavano molto le proprietà della birra e dei grandi e preziosi calderoni come quello di Gunderstrup, risalente al II secolo a. C., venivano riempiti fino all'orlo della bevanda in occasione di vari rituali.
 Ovviamente, una bevanda così importante a livello religioso, non può essere assente nelle narrazioni e nella mitologia delle popolazioni celtiche. In primo luogo ricordiamo due "signori della birra": Cernunno, il dio degli animali e il fabbro Goibniu, che in Irlanda serviva la birra ai potenti Tuatha Dé Danann, degli esseri divini in possesso di facoltà straordinarie.
 Sempre in Irlanda si narra la leggenda di Mag Meld, un eroe che carpì il segreto della fabbricazione della birra ai terribili Fomori, i dominatori dell'isola prima dell'arrivo degli uomini. Mag Meld svelò il segreto agli antenati degli Irlandesi, che poterono godere delle virtù della mistica bevanda, la quale conferiva ai Fomori forza straordinaria e immortalità. Grazie all'opera di Mag Meld, assimilabile in qualche modo al classico Prometeo, i mostruosi Fomori perdettero il loro potere e vennero in seguito scacciati dall'isola. Proprio da questo eroe prese nome la mitica terra dell'Oltremondo del folklore irlandese, chiamata anche Avalon, Tir Na Nog o Anwynn. Si trattava di una terra sotterranea, dove non esistono né morte né malattie e dove l'esistenza è sempre piacevole e dolce, comparabile a un'eterna primavera.

il 1° Chimico della Storia fu una Donna dell’Antica Babilonia

Tapputi Belatekallim: il 1° Chimico della Storia fu una Donna dell’Antica Babilonia

E’ lunga la lista di scienziate che, con il loro talento e la loro genialità, hanno influito in modo decisivo sul corso della storia. Una fra le più antiche di tutte risale a un’epoca davvero remota, ai tempi dell’antica Mesopotamia, e il suo nome è Tapputi, nota anche come “Belatekallim”, un titolo che significava “sovrintendente donna di palazzo”. Tapputi visse attorno al 1.200 avanti Cristo durante il periodo medio-babilonese, e lasciò tracce di sé e della sua aiutante, nota soltanto per la parte finale del nome “-ninu”, su di una tavoletta cuneiforme scoperta fra le rovine di Babilonia.

Scritta in caratteri cuneiformi e incisa sull’argilla, la tavoletta parla di Tapputi Belatekallim e -ninu, creatrici di profumi alla corte del Re, e cita per la prima volta uno strumento molto particolare:

l’Alambicco

Nell’età del bronzo dell’antica Mesopotamia, il profumo era un prodotto ampiamente utilizzato dalle classi sociali più abbienti, e richiedeva abilità particolari per la sua distillazione. I profumi venivano utilizzati durante le cerimonie religiose, e avevano un forte significato simbolico.

Il profumo e l’incenso erano considerati un ponte tra gli dei e gli uomini, e offrivano la possibilità di comunicare con le divinità. Si pensava inoltre che i profumi dolci fossero graditi agli dei, e quindi i morti venivano trattati con una grande varietà di fragranze per renderne più gradevole il passaggio alla vita eterna.

Realizzare dei profumi in quell’epoca non era semplice, e il lavoro richiedeva una grande abilità e conoscenza delle materie prime da trattare. Oltre al talento, erano fondamentali anche le capacità tecniche nella distillazione delle materie, oltre un attento uso dei componenti, costituiti da oli appositamente preparati, mirra, fiori, resine naturali e altri ingredienti minori, pressati, manipolati e combinati in modo da creare profumi “degni degli dei”.

La tavoletta babilonese fa riferimento a un trattato scritto da Tapputi, la prima opera dell’uomo riguardante la preparazione di fragranze e il primo lavoro sulla chimica nella storia.

Il trattato non è pervenuto a noi moderni, ma i produttori di profumo fecero certamente riferimento alle ricette di Tapputi e -ninu. Fra queste, una è attribuita all’antichissima chimica:

Un balsamo per il re fatto di fiori, olio e calamo, una canna usata spesso per trattare i problemi di stomaco

Tapputi rivoluzionò la preparazione dei profumi, usando i primi solventi in grado di rendere le fragranze più durature e dolci. Il suo ruolo nella storia non fu solo quello di creatrice di profumi, ma fu anche supervisore di palazzo e membro della ristretta corte attorno al Re di Babilonia, una “conferma” all’importanza che le era attribuita dal sovrano in persona.

domenica 22 dicembre 2019

4500 anni fa in Egitto...

"Carezza la tua donna, soddisfa ogni suo desiderio per tutta la vita. Apri le tue braccia così che lei possa trovarvi rifugio. Dille che l'ami e ancora di più dimostraglielo..."
Sembrano parole di oggi, Invece sono state scritte 4500 anni fa, in terra d'Egitto, da quella civiltà che é nota soprattutto per averci lasciato tesori inestimabili in campo artistico, ma che aveva anche una visione assolutamente moderna e paritaria del rapporto tra l'uomo e la donna.

Il Profumo

Gli Antichi ritenevano che il fuoco fosse un dono degli dei e credevano che il fumo odoroso che si liberava dai falò fosse uno strumento di comunicazione tra l’uomo ed il mondo ultraterreno grazie alla sua capacità di diffondersi liberamente negli spazi celesti fino a raggiungere le divinità. Da qui il termine “Profumo”, dal latino per-fumum che significa “attraverso il fumo”.

sabato 21 dicembre 2019

Dieta vegetariana per i gladiatori

I gladiatori romani erano vegetariani in soprappeso che vivevano di orzo e fagioli, secondo uno studio scientifico sul più grande cimitero di gladiatori mai trovato.Analisi delle ossa di più di 70 gladiatori recentemente trovate presso Efeso, la capitale romana dell´Asia Minore, rivede la tradizionale immagine hollywoodiana dei carnivori pieni di muscoli con un fisico da pugile.
Le scoperte circa la dieta degli antichi combattenti, effettuati dagli scienziati dell´Università di Vienna, saranno spiegate nel dettaglio in un documentario per un canale televisivo inglese, e ci potrebbero essere delle sorprese.
L´immagine stereotipata deve essere ulteriormente modificata in quanto i gladiatori combattevano a piedi nudi e non in sandali.
L´autopsia di massa al sito sepolcrale lungo la costa occidentale della Turchia ha sfidato l´assunto generalmente riconosciuto, che l´allenamento di un gladiatore fosse brutale quasi come il contesto.
Gli antichi mosaici romani ritraggono i gladiatori come uomini forti e tarchiati, ma gli storici tendono a considerare questo come un tributo alla loro immagine di virilità, piuttosto che un ritratto letterale della loro taglia.
Nel frattempo, gli esperti sono stati incuriositi dai paralleli riferimenti ai gladiatori come "assidui consumatori d´orzo".
Karl Grossschmidt, antropologo forense all´Università di Vienna, ha usato test chimici sulle ossa, per scoprire che i gladiatori si attenevano ad una dieta di orzo e fagioli per irrobustirsi. Era certo un´alimentazione piuttosto poco variata, ha ammesso. "Avevano sufficienti quantità di questi alimenti ogni giorno per renderli grandi e forti" ha dichiarato. Ha concluso che pianificassero una dieta simile primariamente per proteggersi da ferite e tagli e danni ai nervi ed ai vasi sanguigni, con lo strato di grasso che suppliva all´assenza di armatura.
Il dr. Grossschmidt ha notato dall´analisi delle ossa che, contrariamente alle usuali finalità dell´allenamento intensivo, i gladiatori mettevano su peso prima di un incontro, piuttosto che tentare di perderlo.
Campioni di ossa sono stati sottoposti ad analisi chimiche. In una dieta equilibrata, composta di carne e vegetali, si sarebbero evidenziato livelli bilanciati di zinco e stronzio; le ossa dei gladiatori erano invece alquanto elevate in stronzio, e basse di zinco, un´altra indicazione di dieta vegetariana.
La densità del tessuto osseo era significativamente più elevata del normale, esattamene quel che si trova nei moderni atleti, ha dichiarato. L´allargamento delle ossa era particolarmente spiccato nei piedi  prova del fatto che combattessero a piedi nudi nella scivolosa sabbia dell´arena.
Gli storici hanno a lungo discusso quali conseguenze implicasse la scelta della "Morte", in lungo della "Grazia" al termine degli incontro di lotta. Il Dr Grossschmidt ha scoperto una serie di graffi sulle spine dorsali dei gladiatori caduti. Ritiene che significhino tentativi di accoltellarli al cuore dalla gola.
"Questa" conclude "è la prova che il pollice verso era, in effetti, un´istruzione fatale  conficcare la spada giù per la gola e fino al cuore del perdente.

Tristano e Isotta la Leggenda



Quella di Tristano e Isotta è la più celebre storia d’amore del Medioevo. Ispirata a leggende dei popoli celtici, forse trovò una prima elaborazione scritta alla corte di Enrico II Plantageneto e di Eleonora d’Aquitania subito dopo la metà del XII secolo.
La versione originaria è andata perduta, come sono andate perdute, o sono giunte molto frammentarie, le opere che a essa si ispiravano (quella di Chrétien de Troyes ad esempio). La storia di Tristano e Isotta ebbe un successo e una straordinaria diffusione. Secondo il modo di produzione del testo tipico del Medioevo, infatti, il suo contenuto si modificava di volta in volta, entrava nella memoria dei lettori e degli ascoltatori e diventava materia di nuove compilazioni: così, fra il XII e il XIII secolo, il romanzo di Tristano e Isotta dette origine a una ricca fioritura di testi e soprattutto a un romanzo in prosa, che fa confluire nella storia di Tristano anche quella di Lancillotto (fu questo testo ad avere maggiore fortuna nel Medioevo).

Tristano, nipote di re Marco di Cornovaglia, vive alla corte dello zio compiendo grandi imprese. Un giorno parte alla ricerca della fanciulla a cui appartiene il capello biondo lasciato cadere da una rondine: lo zio, re Marco, la vuole in sposa.
Approda in Irlanda, uccide un drago e ottiene per il re la mano di Isotta la Bionda a cui appartiene il capello. Durante il viaggio, Tristano e Isotta bevono per sbaglio il filtro d’amore destinato a re Marco. Una passione fatale legherà d’ora in poi i due giovani amanti.
Ricorrono a diversi espedienti per tenere segreto il loro amore, a cominciare dalla sostituzione di Isotta la Bionda con l’ancella Brangania la prima notte di nozze. Alla fine sono scoperti: Tristano è condannato a morte e Isotta è abbandonata ai lebbrosi. Ma una spettacolare fuga di Tristano salva Isotta e i due si rifugiano nella foresta di Morrois.
Un giorno re Marco, andando a caccia, li sorprende mentre dormono: i loro corpi sono separati dalla spada di Tristano. Il re commosso da questo segno di innocenza, richiama a corte Isotta e manda in esilio Tristano.
Tristano fugge in Bretagna, dove incontra e sposa Isotta dalle Bianche Mani, ma non riuscirà mai ad amarla; pensa sempre a Isotta la Bionda e fa più volte ritorno alla corte di re Marco, travestito ora da mercante, ora da pellegrino, ora da mendicante pazzo, pur di rivederla. Ormai senza speranze, Tristano si lancia in imprese temerarie e, infine, resta ferito a morte. Solo Isotta la Bionda può guarirlo e Tristano la manda a chiamare: il suo arrivo sarà annunciato da una nave con le vele bianche. Arriva nel porto la nave con Isotta, ma la moglie, spinta dalla gelosia, mente e annuncia a Tristano che la vela è nera. Tristano allora si lascia morire. Isotta, scesa dalla nave, cade morta di dolore al suo fianco.

La mummia seduta

Ricordiamo in proposito il raccapricciante episodio di cui fu protagonista, millenni dopo la sua morte, il faraone Ramsete II, che regnò in Egitto durante la cattività degli Ebrei e che è ospitato sin dal 1886 al Museo Nazionale del Cairo. Un pomeriggio particolarmente afoso e umido, il numeroso pubblico presente nella sala di Ramsete II udi’ un forte scricchiolio seguito dal rumore forti  di vetri infranti e, voltosi verso il feretro del sovrano, vide uno spettacolo davvero impressionante: la mummia del faraone, distesa nel sarcofago, s’era d’improvviso alzata a sedere, aprendo la bocca come per gridare, volgendo di scatto il capo a nord, spalancando le braccia incrociate sul petto e fracassando con la destra la vetrina.
Alcuni visitatori svennero, altri, precipitandosi verso l’uscita caddero per le scale, altri ancora, per far più presto, saltarono dalle finestre. Vi furono decine di feriti, il guardiano della sala si licenziò senza che gli si potesse trovare un sostituto, il governo egiziano dovette pagare forti indennità agli infortunati, ed il museo venne a lungo disertato dal pubblico, timoroso di vedersi cadere il palazzo sulla testa. 
Tuttavia non successe più nulla, e gli esperti chiarirono subito la causa del fenomeno, d’altronde non unico: la mummia, abituata all’aria fredda e asciutta della camera sepolcrale sotterranea aveva semplicemente subito gli effetti del mutamento climatico, reagendo a quel modo all’umida afa del Cairo. Ma oggi (la prudenza non  mai troppa) essa riposa col capo rivolto a settentrione, proprio come aveva prescritto la preghiera sepolcrale.
Da “Terra senza tempo” di Peter Kolosimo.

venerdì 20 dicembre 2019

YULE - il solstizio d'Inverno


L'etimologia della parola "Yule" (Jól) non è chiara. È diffusa l'idea che derivi dal norreno Hjól ("ruota"), con riferimento al fatto che, nel solstizio d'inverno, la "ruota dell'anno si trova al suo estremo inferiore e inizia a risalire". I linguisti suggeriscono invece che Jól sia stata ereditata dalle lingue germaniche da un substrato linguistico pre-indoeuropeo. Nei linguaggi scandinavi, il termine Jul ha entrambi i significati di Yule e di Natale, e viene talvolta usato anche per indicare altre festività di dicembre. Il termine si è diffuso anche nelle lingue finniche per indicare il Natale (in finlandese "Joulu"), sebbene tali lingue non siano di ceppo germanico.

Non si sa molto sulla festa di Yule nella tradizione nordeuropea. È certo che la celebrazione avveniva durante il solstizio invernale in epoca precristiana. Nonostante vi siano numerosi riferimenti a Yule nelle saghe islandesi, vi si trovano solo pochi e parziali resoconti circa la natura delle celebrazioni. Si trattava comunque di un periodo di riposo e danze, che in Islanda continuò a essere celebrato per tutto il Medioevo, fino all'epoca della Riforma. Si sa anche che durante la festa avveniva il sacrificio di un maiale in onore del dio norreno Freyr, una tradizione che è rimasta nella cultura scandinava, in cui a Natale si consuma carne di maiale.

Lo storico francese Michel Rouche riporta che le confraternite di artigiani del IX secolo (che in seguito divennero gilde), furono denunciate dal clero cattolico per i loro patti di reciproco sostegno, formulati in banchetti annuali che si tenevano il 26 dicembre, "giorno di festa del dio pagano Jul", in cui venivano evocati demoni e spiriti dei morti.

L'etimologia del termine gilde sembra essere gi(u)l-day.

Quando i missionari iniziarono la conversione dei popoli germanici, adattarono alla tradizione cristiana molti simboli e feste locali (fu lo stesso Gregorio Magno, tra gli altri, a suggerire apertamente questo approccio alle gerarchie ecclesiastiche). La festa di Yule venne quindi trasformata nel Natale, mantenendo però alcune delle sue tradizioni originarie. Fra i simboli moderni del Natale che parrebbero derivare da Yule compare, fra l'altro, l'uso decorativo del vischio e dell'agrifoglio e l'albero di Natale (anche se, probabilmente, la tradizione dell'albero di Natale è collegata al mito di Attis - Cibele: un tempo l'anno nuovo iniziava all'equinozio di primavera, in gran parte dei paesi mediterranei: a Roma il 21 marzo si addobbavano grandi pini in omaggio all'anno nuovo e alla nuova stagione). Così come gli alberi da frutta, anche i sempreverdi sono un elemento fondamentale delle celebrazioni del solstizio invernale. L'albero sempreverde, che mantiene le sue foglie tutto l'anno, è un ovvio simbolo della persistenza della vita anche attraverso il freddo e l'oscurità dell'inverno. La birra e il pane venivano offerti agli alberi in Scandinavia. L'albero di Yule rappresentava la fortuna per una famiglia così come un simbolo della fertilità dell'anno che sarebbe arrivato.

Nella Wicca Yule è una delle feste minori degli otto Sabbat e viene festeggiata il 21 dicembre. In alcune tradizioni si commemora la morte dello Holly King ("Re Agrifoglio") che simboleggia l'anno vecchio ed il sole al declino, per mano del suo successore, Oak King ("Re Quercia"), che simboleggia l'anno nuovo ed il sole che inizia la sua ascesa. In altre tradizioni si celebra la nascita del nuovo dio Sole bambino, (vedi anche l'antica festività Romana del Sol Invictus).

Il rituale tradizionale è una veglia celebrata dal tramonto all'alba successiva (la notte più lunga dell'anno) per assicurarsi che il sole sorga nuovamente. Fra i sabbat neopagani, Yule è preceduto da Samhain e seguito da Imbolc.

Poiché, nell'emisfero meridionale, Natale cade nel periodo più caldo dell'anno, alcuni australiani celebrano una seconda festa nel solstizio d'inverno a giugno; questa festa è nota come Yulefest.

mercoledì 18 dicembre 2019

I Saturnali

I Saturnali erano un ciclo di festività della religione romana, dedicate all'insediamento nel tempio del dio Saturno e alla mitica età dell'oro. In epoca imperiale si svolgevano dal 17 al 23 dicembre, periodo fissato da Domiziano.
I saturnali avevano inizio con grandi banchetti e sacrifici. I partecipanti usavano scambiarsi l'augurio io Saturnalia, accompagnato da piccoli doni simbolici, detti strenne.

Durante questi festeggiamenti era sovvertito l'ordine sociale: in un mondo alla rovescia, gli schiavi potevano considerarsi temporaneamente degli uomini liberi, e potevano comportarsi di conseguenza; veniva eletto, tramite estrazione a sorte, un princeps - una sorta di caricatura della classe nobile - a cui veniva assegnato ogni potere.

Tuttavia la connotazione religiosa della festa prevaleva su quella sociale e di "classe". Il "princeps" era in genere vestito con una buffa maschera e colori sgargianti, tra i quali spiccava il rosso (colore degli dèi). Era la personificazione di una divinità infera, da identificare di volta in volta con Saturno o Plutone, preposta alla custodia delle anime dei defunti, ma anche protettrice delle campagne e dei raccolti.

In epoca romana si credeva che tali divinità, uscite dalle profondità del suolo, vagassero in corteo per tutto il periodo invernale, quando cioè la terra riposava ed era incolta a causa delle condizioni atmosferiche. Dovevano quindi essere placate con l'offerta di doni e di feste in loro onore e indotte a ritornare nell'aldilà, dove avrebbero favorito i raccolti della stagione estiva. Si trattava insomma di una sorta di lunga "sfilata di carnevale".

L'equivalente greco del dio romano Saturno era Kρόνος, Krono, il padre di Zeus. Quando i Romani sovrapposero Saturno a Kronos, la divinità ellenica era già da tempo assimilata a Xρόνος, Chrònos, il tempo che scorre. Tale associazione ha generato la figura di Saturno come sovrano di una mitica Età dell'Oro. Esiliato da Zeus e dagli Olimpi suoi figli al termine della Titanomachia, si diceva che Krono avesse spostato il suo regno in un luogo che, Greci prima e Romani poi, chiamavano "Isole Beate".

martedì 17 dicembre 2019

I Pelasgi, discendenti dagli dei.

Il mito li vuole discendenti dagli Dei e la storia ufficiale li identifica con le popolazioni preistoriche autoctone della penisola balcanica che lentamente si evolvettero in quelli che conosciamo come Greci. Di fatto archeologicamente, linguisticamente, geneticamente non esistono popoli dei Pelasgi, ma i tratti distintivi della loro cultura, tramandati dagli storici, sono identificabili in moltissime aree del nostro pianeta. Dunque chi erano i Pelasgi? Un enigma vasto, intricato e soprattutto carente di documentazione.
Il naturalista Alexander Von Humboldt (1769 – 1859) botanico tedesco diceva: “... i pre-ellenici abitanti Pelasgi d'Arcadia si definivano Preseleni, perché si vantavano di essere venuti al mondo prima che la Luna accompagnasse la Terra. Pre-ellenica e pre-lunare erano sinonimi”. E ancora: “Nei tempi più remoti, prima che la Luna accompagnasse la Terra, secondo la mitologia degli indiani Muysca o Mozca, gli abitanti della piana di Bogotà vivevano come barbari, nudi, senza alcuna forma di leggi o di culto religioso”.

domenica 15 dicembre 2019

Il mito di Chirone



Solo il guaritore ferito può guarire” Jung


Carl Gustav Jung diceva che il “terapeuta può guarire gli altri nella misura in cui è ferito egli stesso”. L’archetipo del guaritore ferito era quello di Chirone (wiki) centauro e personaggio della mitologia greca, considerato il padre della medicina.chironegr.gif
Qui la storia:
Chirone è figlio di Crono e di una Ninfa, ed è un centauro anche se, a differenza dei suoi simili, è gentile e benevolo e sapiente.
Rifiutato dai suoi genitori (primo trauma), cresciuto da Apollo, Chirone non solo è una creatura generosa e delicata, ma è anche colto, e conosce l’arte medica; è talmente bravo che questa diviene suo mestiere ed è tutore addirittura di alcuni dei dell’Olimpo.
Solo che, a un certo punto, una freccia lo ferisce gravemente, una ferita che non guarirà mai. Il dolore è enorme, tanto che Chirone decide di rinunciare alla propria immortalità piuttosto che convivere con questa pena straziante.
Nell’inutile ricerca di una guarigione per se stesso, Chirone diviene esperto di erbe medicinali, conosce la sofferenza e fa sì che la sua lacerazione impossibile da risanare possa servirgli per aiutare gli altri.
Mette a disposizione ciò che ha imparato a servizio di chi è attorno, divenendo appunto il “guaritore ferito”
Proprio attraverso la sofferenza che Chirone impara l’arte della cura e a tenere sempre presente la propria ferita, che è simbolicamente lo spazio attraverso cui il dolore e la sofferenza possono entrare in lui.
Come Chirone, così il terapeuta può comprendere la sofferenza dell’altro solo riconoscendo e integrando la propria sofferenza, non come debolezza o fragilità, ma come forza e strumento per poter lasciare entrare ed entrare in contatto con l’altro.
Spesso sembra che il terapeuta sia entità astratta che ha in sé le tecniche e gli strumenti appresi teoricamente per poter guarire l’altro, che possiede la verità, immune dalla sofferenza, infallibile. In realtà un buon terapeuta è un uomo o una donna ferito/a, che è entrato in contatto con la propria sofferenza e che ci ha “fatto i conti”, che l’ha affrontata, l’ha integrata, e da questa ferita ha trovato la via per prendere contatto con le ferite altrui. 
La domanda è: qual’è la mia ferita che sta alla base del desiderio di aiutare gli altri?
Non intendo né essere definito terapeuta, né (ancor peggio) usare il termine guaritore.
Ho sentito risuonare in me la frase di Jung nell’ambito della Biodinamica Craniosacrale. E definendomi un educatore somatico, o un facilitatore, o ancor più semplicemente con una capacità di presenza, ascolto e accoglienza.
Mi interrogo sulla mia ferita e mi rendo conto che non c’è né una specifica, ma un evolversi di lacerazioni, strappi più o meno violenti che si susseguono e toccano diverse aree e parti del corpo-mente-spirito, alimentati dalla ferita originaria della separazione.
Paolo Maderu Pincione

sabato 7 dicembre 2019

Ancora sulla costruzione del Natale cristiano

Laura Fezia
ANCORA SULLA COSTRUZIONE DEL NATALE CRISTIANO
Nel mese di dicembre i Paesi occidentali vengono ipnotizzati dall’imminente celebrazione del Natale. Le aziende e i centri commerciali, addirittura, iniziano ben prima a sbandierare pubblicità di sapore natalizio o a offrire articoli per addobbare la casa, organizzare cene, spendere in regali.
Già: i regali. Sono certamente il piatto forte delle cosiddette “feste”, quello sul quale si fiondano i commercianti per realizzare incassi che, spesso, rappresentano il 90% del fatturato annuale di un piccolo o medio negozio.
Ma l’usanza dei regali di Natale non è un’invenzione recente: come tutto ciò che concerne la più importante festività occidentale affonda le sue radici in un tempo molto lontano.
Abbiamo già visto in precedenza (e chi non sa di cosa stia parlando può andarsi a ripescare i post del 21/11 e del 27/11) come la data del 25 dicembre fu fissata dalla Chiesa per sostituire la celebrazione dei Saturnalia, feste pagane nate intorno al solstizio d’inverno in uso nell’antica Roma dal 17 al 21 dicembre, con un prolungamento fino al 25 per il “Dies Natalis Solis Invicti”.
I Saturnalia traevano il loro nome da Saturno, padre di Giove, che si favoleggiava fosse stato il signore della mitica Età dell’oro. In quel periodo, venivano rivoluzionate tutte le regole sociali: gli schiavi si sostituivano ai padroni, si organizzavano BANCHETTI che spesso si trasformavano in orge, veniva eletto una sorta di “re” della festa che sfilava vestito di rosso ed era simbolicamente sacrificato al termine delle celebrazioni. Inoltre, c’era lo SCAMBIO DI REGALI: sia da parte degli schiavi ai padroni per conquistarne la benevolenza, sia per blandire le anime dei defunti, attirate dai clamori dei festeggiamenti a varcare la soglia che separa il regno dei morti da quello dei vivi.
L’organizzazione di banchetti (che oggi finiscono in una tombolata, più morigerata di un’orgia) e lo scambio di regali, dunque, sono rimasti nella celebrazione del Natale cristiano.
Ma ci sono alcune tradizioni natalizie inventate ex novo per colpire l’immaginario popolare e altre che appartengono a culture del tutto estranee al cristianesimo.
Partiamo dalla più nota, ossia il presepe e per prima cosa chiariamo che il termine non significa «rappresentazione della nascita di Gesù» come la maggior parte del pubblico è indotta a credere, ma – dal latino “praesepe” – vuole dire “mangiatoia/stalla/recinto per gli animali” . E ci hanno anche raccontato che il primo “presepe” fu organizzato da Francesco d’Assisi a Greccio nel 1223. È vero… ma ricordiamo cosa significa “presepe”: nella rappresentazione di Francesco, infatti, c’erano solo la mangiatoia, un bue e un asino, niente Divin bambinello, niente Maria, niente Giuseppe, niente pastori né Re Magi. Tutto il contorno fu aggiunto successivamente, ricordando quale effetto scenografico avevano realizzato coloro che si erano recati ad ammirare il presepe francescano illuminando il set con le fiaccole.
Ma c’erano davvero un bue e un asino a riscaldare il neonato Gesù? Certamente no. Luca, l’unico che parla di una mangiatoia/stalla, non li cita; a maggior ragione non lo fa Matteo, il quale afferma che i Re Magi trovarono il pupo in una casa «con Maria sua madre». Dunque da dove sono spuntati i due animali? Tanto per cambiare, da un’interpretazione di comodo di un passo di Isaia (1,3), che non si è mai sognato di profetizzare la venuta del Messia e da una errata traduzione di un passo del profeta Abacuc (3,2), dove la frase ebraica «nel mezzo del tempo» nella Bibbia dei Settanta era stata tradotta «in mezzo a due animali», confondendo due parole greche quasi identiche (ζωῷον e ζῷον). Di bue e asinello, infatti, si parla nel vangelo dello Pseudo-Matteo e nel protovangelo di Giacomo, due testi apocrifi databili al VIII/IX secolo il primo e al II/III secolo il secondo.
Nel racconto della nascita di Gesù, quella rappresentata – seppur brevemente – nei vangeli di Luca e Matteo, però, c’è un’altra stranezza: si tratta di quel censimento che avrebbe indotto Giuseppe e Maria, incinta al nono mese, a lasciare Nazareth e la Galilea per recarsi a Betlemme, in Giudea, affrontando un viaggio irto di pericoli. Nell’Impero romano i censimenti venivano ordinati per motivi fiscali o militari, ma senza obbligare le folle a spostarsi: era sufficiente rilasciare una dichiarazione a un incaricato locale circa la propria situazione patrimoniale e famigliare. Mai nessun imperatore ne organizzò uno imponendo alla gente di trasferirsi nei rispettivi luoghi di provenienza, per tornare poi nei posti dove aveva preso residenza o domicilio. Luca cita esplicitamente «un editto di Cesare Augusto che ordinava un censimento di tutta la terra» (Lc 2, 1). Tuttavia risulta che Augusto indisse tre censimenti universali: nel 28 a.C., quando ancora non era imperatore, nell’8 a.C. e nel 14 d.C.; sempre sotto il suo regno, furono banditi alcuni censimenti provinciali e ormai è assodato che Luca fa riferimento a quello del governatore Publio Sulpicio Quirino, che riguardò la Siria e la Giudea, avvenuto, però, sei anni dopo la nascita di Gesù. Inoltre, cosa poteva importare ai Romani che Giuseppe appartenesse alla Casa di Davide, una classificazione che interessava strettamente il mondo ebraico? Infine, il censimento di Quirino fu di tipo fiscale, riguardò, cioè, non le persone, ma i loro beni: Giuseppe possedeva forse delle proprietà a Betlemme che era necessario censire? In tal caso, ossia se fosse stato un ricco possidente, avrebbe forse avuto la possibilità di viaggiare e alloggiare più comodamente, soprattutto con una moglie alle soglie del parto ed è anche curioso che la coppia abbia intrapreso il lungo cammino da sola, senza aggregarsi a una carovana, come era consuetudine dei viaggiatori per evitare gli assalti dei predoni.
Insomma: il Natale cristiano è stato costruito ad arte non solo per sostituire i Saturnalia, ma anche per provocare nel gregge quel senso di colpa evocato da un bambino che nasce «in una grotta al freddo e al gelo» dopo che ai suoi genitori era stato negato il conforto di un alloggio. L’apoteosi di questo quadretto di sofferenze avverrà a Pasqua con la crocifissione.
Ci sono molti altri particolari del Natale cristiano che non tornano: ma, come sempre, questa è un’altra storia che racconterò in seguito.

Dal Malleus Malleficarum


Una delle tecniche di tortura in voga presso Santa Romana Chiesa, nel periodo che va dal 1480 al 1650, inflitte alle streghe ed agli eretici, consisteva nel prendere un topo vivo e di inserirlo nella vagina o nell’ano con la testa rivolta verso gli organi interni della vittima e spesso, l’apertura veniva cucita. La bestiola, cercando affannosamente una via d’uscita, graffiava e rodeva le carni e gli organi dei suppliziati.

venerdì 29 novembre 2019

I calendari Maya

I Maya avevano diversi calendari: il calendario cerimoniale di 260 giorni; il calendario solare di 365 giorni; il ciclo di 584 giorni del Pianeta Venere e il ciclo di 780 giorni di Marte e fra gli obiettivi di questi calendari è cercare l’armonia tra gli eventi del cielo e i rituali sacri . Inoltre è noto il calendario del Lungo Computo che copriva un periodo di 5125 anni che si ripete ciclicamente. L’attuale Era è la quinta, quindi calcolando a ritroso si ottiene come data d’inizio della civiltà Maya il 18.490 a.C.

martedì 26 novembre 2019

L'acqua Tofana

«L'uomo uccide con la forza
e la lama è la sua arma,
la donna uccide con astuzia
e il veleno è il suo espediente»
Il veleno è da sempre l'arma di difesa e offesa di moltissimi animali e piante, ma l'uomo ha saputo estrarlo ed usarlo per uccidere i propri simili per poter affermare e continuare il proprio albero genealogico.
In passato si usava dire che il veleno era l'arma preferita dalla donne perché procura una morte invisibile, atroce e molte volte senza lasciare tracce. In realtà il veleno è ed è stato largamente usato anche dagli uomini, che ne hanno fatto il mezzo più adatto per sviare i sospetti e simulare una morte naturale.
Anche in Italia abbiamo avuto alchimisti e erboristi che hanno estratto e sperimentato veleni mortali, ma uno dei più letali è sicuramente "l'acqua tofana", conosciuta anche come acqua perugina, acqua di Napoli o Manna di San Nicola.
Tra il XVII e il XIX secolo l'acqua tofana venne ampiamente utilizzata da Roma in giù, specialmente dalle donne che, insoddisfatte dei propri mariti (o smaniose di denaro), volevano diventare vedove il prima possibile.
La scoperta (o meglio la prima fabbricazione) viene attribuita a Giulia Tofana, una cortigiana originaria di Palermo che nel 1640 elaborò la ricetta della pozione mortale. Incolore, insapore e inodore, era un'arma micidiale con cui eliminare una persona senza destare alcun sospetto, anche perché l'effetto era ritardato di giorni e nessuno riusciva a ricondurre la morte ad altro che un attacco di cuore.
Giulia Tofana con la sua acqua divenne ricchissima e le richieste erano talmente numerose che dovette comprare una distilleria per poter far fronte a tutti. La donna assunse la nomea di "fattucchiera", ma nonostante questo ogni giorno alla sua porta si presentavano persone di ogni età e casta a comprare il suo veleno. Eri insoddisfatto del coniuge? Il tuo vicino ti rubava il raccolto? Un giovanotto faceva smanceria a tua figlia? Il tuo rivale politico ti metteva in ridicolo? Nessun problema: gli si offriva da bere e tutto finiva nel migliore dei modi, ovviamente non per chi beveva…
L’acqua tofana aveva la stessa consistenza dell'acqua e poteva essere tranquillamente diluita in ogni bevanda senza creare reazioni sospette. Secondo gli scritti del tempo per crearla bisognava seguire alla lettere la ricetta originale stilata da Giulia Tofana, che era più o meno questa:
Si metteva dell'acqua in una pentola e si aggiungeva arsenico macinato e limatura di piombo o di antimonio e si metteva il tutto a bollire premurandosi di coprire la pentola in modo che l'acqua non evaporasse. Quando l'acqua tornava limpida e incolore la pozione era pronta e poteva essere imbottigliata. E' probabile che la mistura contenesse anche belladonna, ma non venne mai dimostrato. In ogni caso ne risultava una soluzione di sali di arsenico e piombo ad altissimo tasso di tossicità che bastava versare nel vino o in una minestra.
In genere provocava vomito e dopo qualche giorno sopraggiungeva la febbre; la morte per avvelenamento avveniva qualche giorno dopo, a seconda della dose ingerita dalla vittima.
Per celare il reale scopo della sua acqua Giulia Tofana la vendeva come cosmetico o come acqua benedetta di san Nicola (più tardi addirittura la si imbottigliò in fialette recanti l'immagine del santo) e in pochi anni, solo a Roma, le morti sospette legate a quell'intruglio furono centinaia.
A svelare il veleno mortale fu una donna pentita di aver ucciso il suo consorte che si andò a confessare e fece anche i nomi dei fornitori e delle comari che lo avevano utilizzato.
Lo scandalo culminò nel famoso “processo dei veleni” del 1659 in cui vennero imputate 46 donne. Nessuna di loro ricevette la grazia e, per monito alla gente, alcune furono impiccate nel Campo de’ Fiori, altre furono murate vive nelle carceri dell’Inquisizione.
Una variante dell'acqua tofana era già in voga nel 1630 e veniva chiamato "liquore mortifero". Lo scopo era lo stesso (eliminare una persona scomoda), ma in realtà era acqua in cui venivano messi a mollo topi morti di peste o presi dalle fogne. Si diceva che poche gocce bastassero per essere contagiati dal terribile morbo.
La paura del contagio portò ad una vera e propria isteria di massa, e a Roma si diffuse l'idea che alcuni uomini scellerati usassero il liquore mortifero per versarlo in fontane, pozzi e in ogni luogo dove vi fosse dell'acqua. perfino le acquasantiere delle chiese. Quella credenza scatenò il sospetto in chiunque si immettesse in luoghi comuni come taverne o il mercato e a volte nascevano risse o discussioni per le cose più frivole. La leggenda vuole che nessuno entrando in chiesa osasse più bagnarsi la mano con l’acqua benedetta e un giorno, quando il sacrestano della chiesa di S. Lorenzo Damaso vide un poveretto intingere le dita per farsi il segno della croce, cominciò a gridare all'untore provocando nella basilica un fuggi fuggi generale

Streghe a Messina: la storia di Pellegrina Vitello

Messina è nel Cinquecento una città fiorente, tra le più ricche della Sicilia. Suo fiore all’occhiello sono la produzione e il commercio della seta, cui sovrintende dal 1520 il “Consolato dell’arte della seta”. Di questa importante attività oggi rimane traccia solo nel nome di una strada, Via dei Setaioli.
In questo quadro si sviluppa la storia di Pellegrina Vitello, napoletana residente a Messina, sposata a un setaiolo, presto abbandonata per un’altra donna e incolpata da alcune anziane donne di “magarìa”. Fatture, sortilegi, stato di trance mentre guarda una caraffa piena d’acqua, nella quale galleggiano strane cose nere che paiono demoni: queste sono le accuse che vengono rivolte alla giovane donna. Il processo si svolge intorno al 1550. La Corte è presieduta da Monsignor Bartholomeo Sebastiàn, Vescovo di Patti, che dal 1546 al 1555 ricopre la carica d’Inquisitore Generale di Sicilia. Dopo 14 giorni di prigionia, durante i quali viene sottoposta alla terribile tortura della corda, la “domina nocturna” confessa in parte le sue “magarìe”. L’iniziale condanna al rogo viene commutata. Pellegrina verrà costretta ad essere fustigata mentre si muove in processione lungo le strade di Messina, con un cero in mano e una mitria in testa.

sabato 23 novembre 2019

Il culto della bellezza presso gli egizi


Gli Egizi di tutte le classi sociali avevano estrema cura del proprio corpo come pratica di significato anche spirituale: “…Rendi il tuo corpo forte e felice e cura te stesso per rispetto al Signore dell’Universo” .
Le persone abbienti si lavavano al risveglio e prima e dopo i pasti principali; al posto del sapone, ancora sconosciuto, usavano una crema a base di cenere e di argilla, calcite, sale, miele e natron (= soda) amalgamati con acqua di palude, il cui contenuto di argilla garantiva un leggero effetto abrasivo; per un peeling piu’ radicale si aggiungeva polvere di alabastro.
Dato il clima assolato del paese era abitudine ungersi la pelle per nutrirla, per evitare le scottature e per difendersi dagli insetti; questa pratica era estesa a tutta la popolazione tanto che sotto Ramesse III gli operai addetti alla necropoli di Tebe scioperarono perché non venivano consegnate le derrate alimentari, la birra e le scorte di oli solari.
A tal fine erano molto usati grassi animali (toro, oca, coccodrillo, leone, ippopotamo, serpente), oppure olio di balano, dattero, mandorle, sesamo, ricino, jojoba e, dopo la metà del II millennio a.C anche l’olio di oliva, che venivano profumati con essenze o resine balsamiche (incenso, cipresso, mirra, cinnamomo, ginepro, coriandolo o galbano); la mirra veniva usata anche come “burrocacao”.
La tonificazione avveniva con l’uso di acque aromatiche ottenute per macerazione di fiori di rosa, giglio, loto, ninfee, gelsomino o in alternativa con latte o miele; le nobili si facevano massaggiare con unguento di rosa o a base di olio di mandorle, miele, vino aromatico, resine e cannella, oppure con olio di cedro importato dal Libano, mentre le donne comuni usavano olii meno pregiati come quello di ricino, arricchito con profumi più ordinari come menta, timo, origano.
Si usavano talchi profumati all’iris, sandalo, lavanda o citronella e si profumavano i vestiti con mirra impastata con cannella.
Per l’igiene orale si usava il natron che veniva strofinato sui denti con un ramoscello sfilacciato; per mantenere l’alito fresco si effettuavano sciacqui con un colluttorio disinfettante a base di mirra o si masticavano preparati dall’aroma molto intenso come ad esempio ramoscelli di mirto.
Plinio, autore romano vissuto nel I’ secolo d. C. riferisce che “L’Egitto era il più grande produttore di unguenti e pomate, le sostanze più raffinate venivano dal Delta del Nilo ed erano custodite in vasetti molto belli, realizzati in alabastro, ceramica o vetro, decorati con pezzi di pietre colorate che formavano dei disegni geometrici”.
Qui sotto trovate una raccolta di questi contenitori, che erano riposti anche nelle tombe, perche’ il defunto avesse i prodotti per la bellezza e la cura del corpo anche nell’Aldilà.

Nefertiti l'atlantidea

Edgar Cayce è considerato da molti studiosi come uno dei più grandi psichici del ventesimo secolo. Recentemente, è apparso in diversi programmi TV annunciando al mondo che le sue profezie starebbero per avverarsi così come da lui preannunciato . Sorprendentemente, tutte le sue precognizioni le ha ottenute durante uno dei suoi stati di dormiveglia. Il profeta dormiente ha previsto anche che le prove in grado di confutare una volta per tutte l'esistenza del mitico continente perduto di Atlantide e la tecnologia utilizzata dagli antichi terrestri devono essere cercate proprio sotto le monumentali strutture piramidali edificate nella piana di Giza. Ciò che è stato individuato all'interno di una di queste enormi strutture potrebbe rappresentare una scoperta rivoluzionaria e quindi gettare nuova luce sul lignaggio reale della famiglia regnante di Amarna.
La nuova scoperta archeologica sembra dimostrare una certa connessione tra il faraone Akhenaton, la regina Nefertiti e il mitico continente scomparso di Atlantide, un nuovo passo in avanti nel campo dell'archeologia grazie alla scoperta di alcuni antichi manufatti risalenti a 10.000 anni aC!
Carmen Boulter spiega che le sue nuove scoperte ottenute all'interno di un remoto sito in Turchia contenente un gran numero di manufatti egizi, potrebbero rivelare un antico legame tra i popoli mediorientali e il mitico continente di Atlantide. L'evidenza dimostrata dalla scoperta di quella che doveva essere una principessa di Atlantide custodita tra i resti di un'antica tomba apre una serie di interrogativi affinché giungere ad una corretta datazione dei vari manufatti appartenenti all'Antico Egitto così come quella della civiltà scomparsa di Atlantide. Come spiega Dr.Boulter, la scoperta di alcuni manufatti potrebbe cambiare per sempre ciò che sapevamo dell'umanità antica e l'improvvisa comparsa di avanzate civiltà!
La teoria dell'esistenza del continente scomparso di Atlantide, è stata spesso disprezzata dagli accademici che hanno preferito considerarla come un mito senza fondamento. Ciò verrebbe smentito dagli antichi resoconti redatti dal filosofo greco Platone secondo il quale, da qualche parte nell'Atlantico, si celerebbero i resti di un'antica civiltà collassata per via di uno stile di vita perverso e in contrapposizione dei valori spirituali trasmessi dai loro antichissimi rappresentanti. La sorprendente scoperta in Turchia di un'antica tomba nascosta all'interno di una montagna non ha fatto altro che innescare una serie di accesi dibattiti e polemiche soprattutto tra gli esperti di antiche reliquie.
Boulter è considerato da molti per essere un affermato ed esperto egittologo grazie anche alle sue scoperte riportate nel suo libro 'Il Codice della Piramide' il cui contenuto potrebbe cambiare definitivamente il nostro modo di guardare il livello di sviluppo tecnologico e spirituale dei popoli antichi.
Il suo profondo coinvolgimento in questa sorprendente scoperta non solo ha dato grande credibilità alla teoria atlantidea, ma ha anche permesso agli esperti di condurre rigorosi test scientifici su alcuni antichi reperti rinvenuti all'interno delle tombe egizie. I primi sorprendenti risultati hanno dimostrato che tali oggetti sembrano risalire al 10.000 aC ancor prima della comparsa dei classici manufatti dinastici dell'antico Egitto Tali antichissimi reperti sembrano precedere di molto la civiltà egizia,almeno di 8.000 anni!
Questo lignaggio reale includeva Akhenaton, Amenhotep, Nefertiti, Hatshepsut e Tutankhamon. La scoperta di una presunta principessa Atlantidea potrebbe far sollevare importanti interrogativi sulla vera storia dell'umanità.
Probabilmente la stirpe dinastica di Amarna potrebbe essere un patrimonio di sangue trasferito agli adepti dell'antico Egitto da alcuni reali Atlantidei dai quali avrebbero ottenuto elevate conoscenze spirituali e delle capacità psichiche del tutto straordinarie.

L'albero del vampiro



Tra le nazioni che mi piacerebbe visitare c'è sicuramente il Messico, ricco di storia, misteri, folclore e credenze. Se dovessi mai andarci sicuramente mi fermerei a Guadalajara, uno dei centri nevralgici della cultura messicana. Proprio a Guadalajara, tra le tante leggende metropolitane, ce n'è una che ha fatto il giro del mondo e che ancora oggi attira moltissima gente al ...cimitero di una cittadina vicina chiamata Belén: l'albero del vampiro.
La lapide è poco leggibile al giorno d'oggi, ma testimonia la morte di un certo Don Jorge che venne ucciso nel 1880 dalla folla inferocita. La storia che si tramanda sin da allora parla di quest'uomo, di origine europea, per gestire una colonia nei pressi di Guadalajara; era un ricco proprietario terriero piuttosto eccentrico e dalle abitudini talmente strane da incutere paura nella gente.
Si dice che fosse solito uscire di casa solo dopo il tramonto e che vestisse sempre e solo di nero. Alcuni dei coloni che lo servirono parlavano di un uomo barbuto, pallido, molto magro e dalle unghie straordinariamente lunghe. Fin qui non c'era nulla di male, o quasi.
I sospetti su di lui nacquero poche settimane dopo il suo arrivo a Belén, quando i contadini iniziarono a rinvenire sempre più animali morti nelle loro fattorie e al limitare delle boscaglie: le carcasse presentavano tutte segni di artigli, zanne e soprattutto la mancanza quasi totale di sangue, presente invece in rivoli nei pressi della bocca e della giugulare.
I sospetti divennero poi terrore quando iniziarono le vittime umane: oggi si sa che al tempo in tutto il continente scoppiavano epidemie di difterite, sifilide, tubercolosi e malattie simili, oltre ad essere inarrestabili, portavano spesso alla morte le persone con fuoriuscite di sangue dagli orifizi e specialmente dalla bocca: ciò, unito alla credenza ancora viva di streghe e vampiri, faceva il resto.
Don Jorge venne additato come il responsabile delle morti della cittadina e se all'inizio erano semplici voci, ben presto si scatenò una vera a propria psicosi di massa. Probabilmente ciò che effettivamente avvenne fu un'epidemia di tubercolosi, ma le cose nella cittadina vennero ingigantite dai contadini e da chi probabilmente odiava l'uomo e iniziarono a circolare voci terribili su di lui.
Si diceva che ai confini della proprietà di Don Jorge ogni giorno veniva ritrovato un corpo umano senza una goccia di sangue; alcuni affermarono addirittura di aver visto l'uomo mordere il collo di uno dei contadini e di averlo visto bere da un calice colmo di sangue umano.
L'enorme paura scatenata nei cuori di quegli umili contadini degenerò velocemente: nessuno usciva di casa dopo il tramonto, molti si riunivano in gruppi di preghiera e perfino il parroco del paese durante l'omelia disse che era necessario fermare il vampiro una volta per tutte. I più coraggiosi formarono un gruppo armato di bastoni, machete e torce e si presentarono davanti alla magione di Don Jorge. L'uomo tentò la fuga nei campi e cercò rifugio nei pressi del cimitero del paese, ma venne raggiunto e circondato dalla folla che, guidati dal sacerdote, lo legarono e lo sottoposero ad un esorcismo.
Terminato il rito il parroco disse che l'unico modo di liberare il paese dalla sua influenza nefasta era piantargli un paletto nel cuore e ardere il suo corpo e così fu fatto. Mentre uno degli abitanti tagliava il ramo di un albero poco distante e ne faceva la punta, Don Jorge, forse aizzato dalla gente, forse per spaventarla e sperare che scappassero (o forse è solamente una diceria), imprecò contro i suoi aguzzini e giurò vendetta contro chiunque di loro gli avesse fatto del male.
I cittadini gli sfondarono il petto con il ramo e poi diedero fuoco al suo corpo sul posto. I suoi resti vennero sepolti all'interno del cimitero, recintati da un cancello metallico e da allora riposano sotto una lapide ormai distrutta dal tempo. La leggenda vuole che lo stesso paletto che lo uccise attecchì e divenne l'albero che oggi torreggia sopra la lapide dell'uomo; si pensa che quell'albero impedisca al vampiro di tornare in vita a che quando morirà o verrà tagliato il malvagio Don Jorge possa tornare a vendicarsi dei discendenti di coloro che lo catturarono.

lunedì 4 novembre 2019

L'eco degli déi e dei Celti al Passo della Mezzaluna



Ci sono luoghi in cui il passato risuona ancora, più forte e prepotente del presente. Sono posti in cui la vita di popoli antichi è tangibile, vera, concreta, e la natura tutto intorno ne propaga l'eco, dandoci la possibilità di ascoltarla, sentirla e persino vederla.
Uno di questi posti si trova sul sentiero per il Passo della Mezzaluna, che attraversa il Bosco di Rezzo e in cui si trovano tracce degli antichi insediamenti pastorali della zona, la cui presenza è ben visibile nel Ciotto di San Lorenzo.
Ci troviamo nella provincia di Imperia, nella Valle Argentina, così ricca di mistero, magia e tradizioni. Qui, in Liguria, le antiche popolazioni vennero a contatto con i Celti e ne assorbirono usanze e cultura; la presenza celtica tra questi sentieri e in giornate nebbiose si fa prepotente, tanto che sembra di essere finiti in un tempo lontano, quando druidi, fate e divinità camminavano ancora sulla Terra.
Il sentiero si inoltra nel bosco, dove faggi maestosi e noccioli sono i padroni indiscussi. L'atmosfera è surreale e un cartello avverte subito della presenza del lupo.
Sopra di noi un tetto di foglie copre la vista del cielo, un fogliame così verde da sembrare uscito da una cartolina irlandese.
Gli alberi sono alti, imponenti e non si può fare a meno di sentirsi piccoli al loro confronto. Quello di Rezzo è un bosco antico, suscita rispetto, tant'è che viene spontaneo abbassare il tono della voce quando si percorre il sentiero tra i faggi. Si dice che tra le radici di quegli alberi si nascondano le abitazioni di fate e spiritelli silvani, troppo timidi e timorosi della presenza dell'uomo per lasciarsi osservare, ma non per questo meno veri e reali.
Si prosegue in falso piano nella foresta fino ad arrivare là, in uno dei punti di maggiore interesse dell'intero sentiero. Il Ciotto di San Lorenzo è un posto davvero intriso di magia, l'energia che emana è tangibile, si sente sottopelle. Prima dell'arrivo dei Romani, ogni anno i pastori percorrevano questo sentiero per la transumanza e giungevano in questa depressione del terreno per spartirsi i pascoli alti del Passo della Mezzaluna, non prima di aver sacrificato un animale agli dèi. Quell'altare sacrificale è ancora lì, ricordo di tempi lontani, di timore reverenziale e rispetto verso quella natura che oggi deturpiamo senza pietà né scrupoli. E' ancora presente anche la coppella per raccogliere il sangue della vittima, con relativo canale di scolo.
Poco distante dalla pietra-altare, un cerchio di pietre delimita l'area di riparo dei pastori e là, sopra la depressione del terreno, si ammira una pietrafitta, un antico menhir la cui datazione si è persa nel tempo e che serviva per le osservazioni astronomiche.
E' una roccia alta due metri, larga sessanta centimetri e spessa dieci che oggi si presenta inclinata. Un tempo segnava l'azimut del sole al tramonto nel periodo del Solstizio invernale.
La nebbia avvolge tutto, rendendo l'esperienza ancora più mistica. I corvi imperiali osservano i nostri passi, gracchiando e volando intorno a noi, guardiani alati di un luogo ricco di storia e conoscenza che mi hanno riportato alla mente i corvi di Odino, Huginn e Muninn (Pensiero e Memoria). Impossibile non farsi sopraffare dalla magia del luogo, non lasciarsi trasportare dalla fantasia, e allora persino Avalon sembra reale in quel cerchio di pietre, a un passo da noi. Massi di enormi proporzioni caduti dall'alto hanno permesso la costruzione di rifugi improvvisati, che hanno tutta l'aria di "capanne dello stregone". E poi la nebbia... avvolge tutto, persino i pensieri, aprendo l'immaginazione a un mondo che va oltre la materialità, sfiora il sensibile e proietta verso l'immateriale, l'intangibile e l'incredibile.
Lasciato quel posto di rara bellezza con un senso di pace e comunione con la Natura tutta, si prosegue ancora nel bosco, che man mano diventa più cupo. E di nuovo il silenzio si impone, interrotto solo dai versi degli uccelli che avvertono il Bosco della nostra presenza. Tra quegli alberi lupo e cinghiale la fanno da padroni, si percorre il sentiero guardandosi intorno, alla ricerca di due occhi gialli in mezzo al fogliame. E lo si fa con il cuore in gola per l'emozione, cercando avidamente la loro presenza, come se fosse essenziale, come se la nostra anima avesse un atavico bisogno di scorgerli, per poi non dimenticarli mai più.
E infine, dopo qualche salita e attraversando praterie montane che aprono lo sguardo e il cuore, si arriva lassù, al Passo della Mezzaluna (1454 m.s.l.m.) . Gli occhi abbracciano l'immensità e ci si sente ristorati, sereni, accolti da Madr
e Natura come figli tornati ad amarla e a venerarla.