sabato 18 settembre 2021
LA FONTANA ANGELICA
Nella città di Torino sembra che nulla sia stato lasciato al caso, nemmeno l’orientamento delle chiese, dei palazzi, il disegno delle piazze o addirittura le facciate di certe costruzioni patrizie: gli architetti si sono tramandati per secoli i significati nascosti dei simboli attraverso le loro opere. Per capire, o non capire ciò, dobbiamo rifarci alla Massoneria che custodisce ancora il segreto dei simboli e tornare a migliaia di anni fa quando Hiram costruì a Gerusalemme il tempio di Re Salomone. Hiram era il depositario dei segreti che provenivano da Kha, l’architetto dei faraoni, e prima di lui da Toth, che insegnò agli uomini linguaggio, scrittura e tecnologia.
La Fontana Angelica di piazza Solferino è costruita secondo queste regole e al di là della sua architettura esteriore c’è tutta una tradizione massonica molto difficile da interpretare. Storicamente la fontana era stata richiesta al Comune dal grand’Ufficiale Pietro Bajnotti a ricordo dei propri genitori, e avrebbe dovuto essere collocata di fronte al Duomo. In chiave esoterica la scelta di spostarla dove si trova oggi fu sbagliata, perché la fontana ha perso l’orientamento verso est.
Così come ci appare è composta da quattro gruppi di statue appoggiati a basi di granito: ai lati ci sono due gruppi femminili, la Primavera e l’Estate; al centro in posizione più alta si trovano due figure maschili che versano acqua da un otre, l’Autunno e l’Inverno. La Primavera è seduta su un mantello di fiori e con una mano accarezza un bimbo che lancia nell’aria uno stormo di rondini; alle loro spalle c’è un altro bambino che solleva il mantello dove è seduta la donna. L’Estate è sul lato destro appoggiata a fasci di spighe e vicino ha un bimbo che sorregge una ghirlanda piena di mele, pere ed uva. L’Autunno, giovane, è appoggiato alla chiglia di una nave e nasconde in una mano una rosa un po’ appassita; la figura è avvolta da una ghirlanda di melograni e sull’altro lato vi è un bambino che gioca con ananas, banane e pannocchie. L’Inverno è una figura barbuta e corrucciata, appoggiata ad un ceppo di quercia dai rami spogli e nodosi; la sua mano afferra l’otre a forma di ariete, poggiato ad un’aquila con una sola ala aperta. Sul lato posteriore si trova un bimbo sorridente con i capelli disposti a raggiera; un altro bimbo gli offre un grosso pesce, mentre un terzo gioca con una ghirlanda di pigne.
Ma veniamo al significato nascosto dell’opera. L’Inverno guarda verso oriente e, insieme con l’Autunno, rappresenta i giganti Boaz e Jaquim, i due sostenitori delle colonne d’Ercole, i guardiani della soglia che immette sull’infinito. Boaz è la "parola di passo", il primo grado dell’iniziazione che il neofita compie nel cammino per i trentatré scalini delle logge massoniche. Jaquim rappresenta la perfezione, la luce, la conoscenza, mentre Boaz le tenebre e l’ignoranza. La conoscenza è simboleggiata dall’acqua che i due personaggi versano dagli otri, mentre questi ultimi sono due simboli astrologici: l’acquario è l’età verso cui si avvicina l’umanità, e l’ariete il segno sotto il quale si trova l’Italia.
Nel significato alchemico l’ariete è simbolo del vello d’oro, meta degli Argonauti, ma anche momento di trasformazione della materia verso la perfezione. Il bimbo con i capelli a raggiera è il frutto di ciò, è il Sole; quello con il pesce è il simbolo del Cristianesimo che si avvicina al suo maestro.
Le due figure maschili rappresentano anche Osiride, la più antica divinità egizia, le figure femminili rappresentano Iside, sua sposa e sorella. Ma le due donne simboleggiano anche i due aspetti dell’amore, quello sacro (Primavera) e quello profano (Estate), e anche la Virtù contrapposta al Vizio.
Un altro grande segreto è custodito nella disposizione dei blocchi di granito. Se si osserva la fontana a distanza, da posizione centrale, si nota che fra le due figure maschili si apre un varco rettangolare. E’ il cuore del mistero e rappresenta la soglia invalicabile per i profani, oltre la quale si entra in una dimensione sconosciuta, si accede a terre al di là delle colonne d’Ercole. E’ l’ingresso alla Caverna Luminosa in cui sono custoditi i misteri alchemici che regolano tutto il mondo.
domenica 21 marzo 2021
Ma chi era Melqart?
Molte civiltà mediterranee assegnano un posto di primaria importanza all'ulivo, che diventa cosi' simbolo anche di varie divinità, tra le quali Atena è forse l'esempio più noto.
Ma la prima divinità a cui è stato associato l'olio era il fenicio Melqart. I Fenici, come li chiamava Omero, o Cananei, come li identificava la Bibbia, furono tra i primi a conferire sacralità al prezioso unguento, utilizzato nei sacrifici a vari dèi, come appunto Melqart. Nel tempio di questa divinità a Tiro, infatti, campeggia un ulivo dalle fronde lussureggianti, che in altri templi dedicati a Melquart diventa un'ulivo di smeraldi.
Ma chi era Melqart? Si tratta senza dubbio di una divinità misteriosa, la cui natura originaria è praticamente sconosciuta. All'inizio probabilmente questo dio possedeva attributi solari e anche marini, e si configurò come protettore dei naviganti.
R. Dussaud ipotizza che Melqart fosse il frutto della fusione tra il dio marino Yam e Baal, la divinità più importante delle popolazioni cananee. Tuttavia tale affermazione è priva di fondamento, visto che nei testi poetici di Ugarit le due divinità appaiono in contrapposizione l'una con l'altra. Un'altra scuola di pensiero, capitanata da W. F. Albright, identifica Melqart con una divinità del mondo sotterraneo, Malku, il quale si accompagnava a Nergal, un altro dio mesopotamico (precisamente sumero) dell'oltretomba. Ma anche in questo caso si tratta di mere supposizioni che mancano di prove convincenti.
Quel che è certo è che Melqart era il dio poliade di Tiro, una delle città più importanti della Fenicia, e da lì il suo culto si diffuse in altre città puniche, come Cartagine e Gades (o Tartesso), l'antica Cadice. Il nome originario fenicio Milk-Qart significa infatti "re della città" e connette strettamente questa divinità all'istituzione della monarchia, che a Tiro assunse un'importanza peculiare rispetto ad altre città fenicie. Basti pensare che a Tiro si credeva che i bambini sacrificati (tra i Fenici vi era l'usanza di sacrificare infanti, definita moloch) assurgessero, dopo la morte, a una condizione divina e assumessero il titolo di "re".
Questa divinità assunse un'importanza sempre maggiore, tanto che il Gran Sacerdote di Melqart, a Tiro, era secondo solo al re. Divenne d'uso pronunciare il nome di Melqart durante la stipulazione dei contratti, il che rese il dio il nume tutelare dei mercanti i quali, per un popolo di naviganti e commercianti come i Fenici, rappresentavano la classe sociale principale. Per questo, si cominciò a costruire un tempio dedicato a Melqart in ogni colonia fenicia; uno dei più importanti si trova a Cadice, centro fondamentale del culto di Melqart. Perfino in alcuni nomi punici, come Amilcare e Bomilcare, si può notare la forte presenza di questa divinità tra il popolo fenicio.
Sembra che anche il grande condottiero cartaginese Annibale Barca, figlio di Amilcare Barca, fosse molto devoto a Melqart. Lo storico Livio ci narra la leggenda che vuole che prima di compiere la marcia verso l'Italia, Annibale si fosse recato in pellegrinaggio a Gades (l'attuale Cadice) e avesse offerto un sacrificio a Melqart. La notte prima della partenza, al condottiero apparve in sogno un bellissimo giovane, inviato da Melqart per mostrargli la via per l'Italia. Il giovane raccomandò ad Annibale di non voltarsi indietro durante il percorso, ma il Barcide non resistette e vide dietro di sé un enorme serpente che distruggeva ogni cosa che incontrasse sul suo cammino. Quando Annibale chiese al suo accompagnatore il significato di quella visione, Melqart stesso gli disse che ciò che aveva visto era la desolazione della terra d'Italia. Quindi, il dio intimò al condottiero di seguire la sua stella e di non indagare oltre riguardo ai disegni oscuri del cielo.
In seguito, in epoca ellenistica e romana, a causa dei suoi attributi solari, Melqart venne identificato con Eracle di Tiro (l'Ercole romano) e anche con Crono (Saturno per i Romani). Questo perché nelle relazioni dei loro viaggi, i geografi e gl storici antichi tendevano a riprodurre e a riportare entro i connotati della propria cultura di appartenenza le divinità e le usanze dei popoli stranieri. Ciò accadde anche a Melqart, che venne identificato totalmente con l'eroe che compì le dodici fatiche. Anche il tempio di Gades venne annotato da Strabone come "il più occidentale tempio dell'Eracle di Tiro" e le sue colonne erano ritenute (erroneamente, secondo lo storico greco) le autentiche colonne d'Ercole, che l'eroe aveva eretto come estremo confine occidentale del mondo.
giovedì 18 marzo 2021
martedì 9 marzo 2021
I semi di cacao
Nel disegno una donna Azteca prepara la bevanda di cacao. Il liquido viene versato da una certa altezza per creare la schiuma.
‘Cioccolato’ deriva dalla parola xocolatl , che significa ‘acqua amara’ in Azteco. Anche se il cioccolato ha le sue origini nella lingua azteca (formalmente conosciuto come nahuatl), è stato suggerito che gli Aztechi potrebbero aver ereditato la ricetta da civiltà mesoamericane precedenti, come i Maya o gli Olmechi.
I semi di cacao venivano vinificati, arrostiti, e si ricavava una pasta. La pasta di cacao che veniva miscelata con acqua o vino, granoturco macinato e una varietà di aromi. Questi aromi comprendevano peperoncino, vaniglia, spezie e miele. La miscela poi si passava attraverso un processo chiamato "schiumare", in cui viene versata una tazza in una pentola girando avanti e indietro fino a formare una schiuma profonda sulla parte superiore.
L’ ‘acqua amara’ veniva consumata da nobili e guerrieri, in un rituale solenne. Si credeva che la pianta fosse un dono degli dei, e veniva associata dagli Aztechi a Quetzalcoatl.
la Batteria di Baghdad
La Batteria di Baghdad è un manufatto risalente alla dinastia dei Parti (250 a.C.–226 d.C.) in Persia, scoperto nel 1936 vicino al villaggio di Khujut Rabu, nei pressi di Baghdad, Iraq.
L’oggetto divenne noto all’opinione pubblica solo nel 1938, quando il tedesco Wilhelm König, direttore del Museo nazionale dell’Iraq, lo trovò nella collezione dell’ente da lui diretto.
Si tratta di un vaso di terracotta nel quale è inserito un cilindro di rame. Sospeso al centro del cilindro risiedeva una barra di ferro, posizionata in modo da non entrare in contatto con l’altro metallo. Sia il cilindro che la barra erano tenuti in posizione con un tappo di catrame.
Rame e ferro costituiscono una coppia elettrochimica, la quale in presenza di un elettrolita, una soluzione acida o basica, genera una differenza di potenziale, in parole povere: corrente elettrica.
Gli studiosi contemporanei ritengono impossibile che gli antichi utilizzassero l’elettricità per alimentare lampadine ad incandescenza, perciò, quando guardano al manufatto, l’unica ipotesi ritenuta plausibile è che gli antichi lo utilizzassero per placcare elettricamente i gioielli in metallo.
Tuttavia, in un articolo comparso sul Journal of Near Eastern Studies, Paul T. Keyser propone un’ipotesi alternativa: dato che in antichità la corrente prodotta dalle anguille veniva utilizzata per lenire il dolore o anestetizzare una zona del corpo per le cure mediche, si può ipotizzare che la Batteria di Baghdad venisse utilizzato come dispositivo sanitario?
Come riporta Karla Akins su Ancient Origins, alla luce si alcuni aghi di bronzo e ferro rinvenuti a Seleucia insieme alle batterie, Keyser ritiene che il dispositivo potrebbe essere stato utilizzato per sedute di agopuntura, una pratica molto comune nella Cina di quel periodo.
Dal momento che pesci capaci di emettere corrente elettrica non si trovavano nel Golfo Persico o nei fiumi della Mesopotamia, forse gli antichi, consapevoli dei benefici, hanno inventato la batteria in sostituzione di questi.
È noto che diverse culture utilizzavano l’elettricità per scopi medici. I Greci e i Romani, per esempio, usavano i pesci elettrici per curari il mal di testa e la gotta.
Naturalmente, questa nuova ipotesi non ha trovato molta popolarità tra gli studiosi convenzionali, dato che entra in conflitto con la loro teoria evolutiva del genere umano, la quale pretende di incasellare l’Homo Sapiens in un cammino forzato a tappe, nel quale intelligenza, pensiero creativo e inventiva è appannaggio solo degli esseri umani moderni.
Se prendiamo per buona la teoria convenzionale, allora la Batteria di Baghdad, automaticamente, rientra nel file degli Ooparts, cioè di quei manufatti che non dovrebbero esistere data l’arretratezza culturale dei nostri antenati.
Se, invece, diamo spazio all’idea che nel passato dell’umanità c’era spazio anche alla creatività e all’intelligenza, allora possiamo forse renderci conto che i nostri antenati erano meno stupidi di quanto vogliamo credere
domenica 14 febbraio 2021
Janas: fate e streghe della tradizione popolare della Sardegna
Le janas o gianas sono gli esseri fantastici più conosciuti delle leggende sarde. Descritte generalmente come piccole donne magiche abitanti nelle tombe prenuragiche scavate nelle rocce (dette appunto domus de janas o domos de gianas), sono le protagoniste di numerosi racconti popolari, favole e fiabe in varie parti della Sardegna.
Oggi vengono identificate principalmente con le fate della tradizione europea e orientale. Tuttavia, è importante sapere che in Sardegna esistono numerose leggende sulle janas e che non sempre queste figure mitiche vengono descritte come fate ma bensì anche come streghe, maghe e vampiri.
Da Cabras a Pozzomaggiore, da Ghilarza al Supramonte di Orgosolo, da Esterzili al pozzo sacro di Santa Cristina, in ogni località dell’isola è possibile trovare leggende sulle janas streghe o fate. Ognuna di queste, come vedremo, è a suo modo unica: non cambiano solo i nomi delle janas ma anche le loro qualità fisiche, morali e spirituali.
Nella fantasia dei sardi, col termine janas o gianas, si indicano per lo più delle creature fantastiche di minuscola statura. La denominazione più diffusa nelle varie parlate dell’isola per indicare questi esseri è appunto quella di janas, gianas o giannèddas.
Tuttavia, in varie località dell’isola il loro nome in sardo cambia. Per esempio, a Perdas de Fogu vengono indicate col termine mergianas, a Isili margianas, in Barbagia con quello di bírghines e, nel territorio sassarese e tempiese, si chiamano per lo più li faddi. Ma non solo. I
Ad Aritzo la mitologia sulle janas ci racconta di piccole fate, alte non più di venticinque centimetri, dotate di un’intelligenza superiore a quella umana. Vivevano in piccole case scavate nelle rocce ed erano molto industriose. Infatti, si erano costruite “tutti gli arredi delle loro piccole case e tutti gli strumenti necessari alla vita”, coltivavano il grano e facevano il pane, e andavano alla ricerca di varie erbe officinali nonché a caccia di animali che mangiavano crudi.
Miti, favole e leggende sulle janas della Barbagia narrano inoltre che nelle belle giornate di sole, le fate sarde erano solito porre all’aria aperta i loro arredi e i loro oggetti più preziosi. Ma poiché temevano gli esseri umani per la loro statura, ritiravano tutto alla svelta e si nascondevano nelle loro domus de janas chiudendone gli ingressi con grosse pietre. Ciò perché queste piccole fate non amavano entrare in contatto col mondo esterno, preferendo al contrario vivere la loro magica esistenza lontano dalla realtà umana, verso la quale non si dimostravano né malefiche né benefiche.n alcuni paesi esistevano anche janas di sesso maschile, in altri le janas erano fate buone mentre in altri ancora rassomigliavano piuttosto a streghe se non addirittura a vampiri.
A Fonni le leggende sulle janas raccontano di esseri minuscoli sia di sesso femminile che di sesso maschile. Una delle loro peculiarità era la bellezza e venivano descritte come incantatrici. Ciò era legato anche al fatto che avessero una voce tanto deliziosa quanto ammaliante. Vivevano nelle domus de janas che si scavavano con maestria da soli grazie all’utilizzo di vari arnesi come ad esempio le accette.
A Belvì, paese poco distante da Tonara ed Aritzo, le janas venivano descritte come bellissime e ricchissime donne, giunte da paesi molto lontani. All’inizio amarono gli uomini, regalando loro ogni sorta di ricchezza e facendo loro del bene, come trasportare magicamente gli oggetti pesanti o badare alle greggi al pascolo.
Erano fate generose e mansuete, che vissero a contatto con gli esseri umani fino a quando questi furono buoni e si comportarono bene. Ma siccome il genere umano, col tempo, divenne sempre più egoista, malvagio e interessato solamente alle loro ricchezze che custodivano nelle rocce o in altri siti magici, le janas decisero di abbandonarli e scomparire. Ed è per questo motivo che non si vedono più in giro.
A Tortolì in Ogliastra le janas sono sempre state descritte in maniera del tutto particolare. A differenza di quelle della Barbagia e del Mandrolisai, la mitologia e il folklore di questa regione della Sardegna hanno consegnato ai posteri delle gianas con delle mammelle lunghissime che erano solite gettarsi a mo’ di capelli dietro le spalle. Tale gesto si dimostrava quanto meno necessario sia per non far toccare i lunghi seni a terra quando lavoravano, ma anche per allattare i bambini. Infatti, le janas ogliastrine si portavano sempre dietro i loro figlioletti, inserendoli in particolari ceste che si legavano sulla schiena.
Inoltre, queste creature erano caratterizzate dall’avere delle lunghissime unghie di ferro o d’acciaio, grazie alle quali si erano scavate le loro domus nelle rocce senza l’ausilio di alcun arnese. Ma non solo. Le unghie potevano anche essere utilizzate contro gli esseri umani da queste maghe e streghe, considerate dalla mitologia sarda molto dannose.
Per nulla indifferenti alle sorti degli uomini, con i quali hanno convissuto a lungo, a Tempio le janas sono state spesso descritte, come già accennato, alla stregua di janas streghe o janas malefiche.
A Oniferi così come a Nuoro le janas sono streghe o maghe dannose per gli esseri umani che devono far di tutto per non incontrarle, men che mai entrare nelle domus de janas dove, oltre alle loro proverbiali ricchezze, avrebbero trovato ad attenderli terribili mostri divoratori di uomini.
A Isili le janas hanno sempre avuto il dono di leggere nel futuro ma fare profezie anche decidere il destino degli esseri umani. La loro presenza è storicamente associata a quella dell’antico e bellissimo nuraghe Is Paras alle porte del paese. Ancora oggi, secondo alcuni, è possibile sentire il rumore del telaio d’oro, specialmente la notte, quando si mettono al lavoro per tessere le loro incredibili stoffe.
Un telaio d’oro sarebbe custodito nell’affascinante quanto tenebrosa gola di Gorroppu e nel Supramonte di Orgosolo. Secondo alcune leggende sarde janas e altre creature magiche avrebbero abitato a lungo in questi luoghi inaccessibili agli esseri umani. In particolare, una bellissima fata si nascondeva in una grotta, il cui ingresso era celato da piante e arbusti, all’interno della quale lavorava col suo telaio dorato. A dire di qualcuno, questa sarebbe stata anche un’abile amazzone.
Anche a Nuragus le janas erano descritte come donne molto ricche e incredibilmente belle, che non si facevano mai vedere di giorno per paura che il sole rovinasse e bruciasse la loro candida pelle. Dotate di dita fini e delicate, tessevano tutto il giorno delle splendide stoffe e dei preziosi broccati in favolosi telai d’oro. Si trattava di creature dalla duplice natura: erano, infatti, gentili e soavi, ma si trasformavano in creature terribili se venivano guardate e molestate dagli esseri umani.
Proprio per quest’ultima ragione, a Cabras come a Pozzomaggiore e a Ghilarza, le janas sarebbero scomparse dal mondo degli uomini. Fuggendo, però, avrebbero lasciato il loro tesoro nascosto da qualche parte, ma sino ad oggi nessuno l’ha ma trovato. Uno dei più celebri sarebbe nascosto sulla collina di Montoe, dove una volta esisteva un magnifico palazzo abitato dalle janas.
Un’altra celebre dimora delle janas è stata individuata dalla tradizione popolare di Esterzili in un antico tempio, simile a quelli che edificavano i greci e denominato Sa domu ‘e Orgia (Orgìa). Questa era infatti una jana strega, per nulla amata dalla gente, che la cacciò via dal tempio. Ma prima di partire, la donna si vendicò, lasciando due vasi: uno pieno di api e l’altro di musca macedda. A quanto pare, i due orci stanno ancora là, sotterrati chissà dove.
A Laconi le janas sono simili alle panas, le anime delle donne morte di parto, che si riuniscono sulle rive dei fiumi e lavano i panni dei loro neonati.
Anche a Orosei si sono tramandate alcune leggende che identificano le janas a fantasmi di donne morte. Uno degli esempi più noti è quello di Maria Mangrofa, l’ultima custode del villaggio scomparso di Ruinas, dal quale avrebbe portato con sé un telaio dorato, delle stoffe d’impareggiabile bellezza e un immenso tesoro. Donna bellissima, fata e strega, la jana di Orosei sarebbe ancora oggi la vera custode della sorgente di Su Gologone e avrebbe il potere di far guarire dalle malattie degli occhi.
Anche a Tonara le leggende più antiche riportano come fosse impossibile distinguere tra janas femmine e janas maschi. Questo perché gli individui dei due sessi erano uguali se osservati esteriormente dagli esseri umani: vestivano in maniera identica e avevano tutti una figura piccola e tozza.
Vivevano in caverne e antiche domus alle porte del paese. Quando qualcuno si avvicinava alle loro abitazioni, le janas stendevano un meraviglioso velo tutto bianco e magicamente filato, che ricopriva tutta la campagna. Le persone che non erano a conoscenza di questo artificio ne rimanevano estasiati e affascinati, e allo stesso tempo ammaliati. In questo modo, il velo si rivelava essere simile alle tele dei ragni e lo sfortunato passante veniva catturato dalle piccole creature e gettato in una buca insieme ad altre vittime.
Un triste destino lo attendeva, però. Egli, infatti, diventava la preda della Jana Maista, la malefica regina delle janas, che gli succhiava il sangue.
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7Patrizia de Ciuceis, Antonella D'alfonso e altri 5
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