I serpenti e i draghi attorcigliati rappresentano la fine del mondo secondo la leggenda nordica dei Ragnarök.
lunedì 4 gennaio 2021
Il portale nord della chiesa di Urnes - Norvegia (XI secolo)
I serpenti e i draghi attorcigliati rappresentano la fine del mondo secondo la leggenda nordica dei Ragnarök.
sabato 2 gennaio 2021
L'antico mito della «lingua degli uccelli»
DI CARLO LAPUCCI
Si dice ai bambini, quando vogliono sapere come abbiamo fatto a conoscere un loro segreto e non vogliamo scoprire il gioco:
Me l'ha detto un uccellino
Può essere che questa frase non sia del tutto casuale, dal momento che i pappagalli e le gracule parlano, altri uccelli si dicono saggi, come il gufo, la civetta e soprattutto le nostre favole sono piene di uccelli parlanti.
In realtà una credenza popolare diffusa vuole che gli uccelli parlino tra loro e quelli che noi riteniamo canti siano invece loro conversazioni. Di fatto sono gli unici animali capaci di pronunciare una parola umana, ma pare che il loro linguaggio sia da interpretare come lingua completamente diversa dalla nostra. Nella tradizione marchigiana, toscana, umbra, romagnola si trova sovente il motivo di favole nelle quali l'eroe viene a conoscenza della lingua degli uccelli e, ascoltando le loro conversazioni, conosce tutto, tutto prevede, per cui arriva a sposare la figlia del re e procurarsi una buona sistemazione a corte. Si dice anche che chi impara la lingua degli uccelli sia destinato ad essere re o papa.
Pitrè riferisce una fiaba siciliana, di probabile provenienza araba, con questo tema, però nella saga nordica dei Nibelunghi Sigfrido, bevendo una goccia del sangue del drago Fafner che ha ucciso, comprende immediatamente la lingua misteriosa e un uccello ha addirittura una parte nel Sigfried di Wagner.
Dietro di noi il paganesimo aveva istituzionalizzato l'arte di vaticinare attraverso gli uccelli. Gli àuguri erano appunto i sacerdoti che si occupavano di trarre questi auspici, inizialmente dal volo e dal canto degli uccelli, poi l'indagine si fece anche attraverso i tuoni, i lampi, le eclissi, le comete e altro.
Questa materia è collegata all'arte divinatoria, nella quale da noi furono maestri gli Etruschi, tanto che l'aruspicina era detta etrusca disciplina. Alla religione etrusca si fa risalire l'origine di tale pratica, in particolare a Tarconte al quale sarebbero state fatte le rivelazioni fondamentali della religione etrusca dal dio Tagete che balzò dal solco tracciato da un contadino a Tarquinia. Con il corpo di fanciullo e il volto di vecchio, apparve, visse e scomparve in un solo giorno durante il quale lasciò i suoi insegnamenti che furono trascritti poi nei Libri Aruspicini.
L'origine della tradizione
Adamo ed Eva si credeva conoscevano bene sia il linguaggio degli animali che quello delle piante: commesso il peccato non si ricordarono più una parola. Nella tradizione poi Salomone, ricevuta da Dio la sapienza, tornò a conoscere il linguaggio degli animali, ma si guardò bene da rivelare ad alcuno il segreto. Per tradizione antichissima, ancora non spenta, si vuole che gli animali parlino tra loro la notte di Natale, ovvero in quella dell'Epifania. Guai a quel contadino che, udendoli, s'intromette nei loro discorsi: cade morto di botto. Si tratta di qualcosa di più serio d'un gioco: sono reminiscenze di qualcosa si molto antico.
Aulo Gellio, nelle Notti attiche (IX, 12), riferisce che si attribuiva a Democrito la teoria che certi uccelli hanno la propria lingua e parlano tra loro. Inoltre insegna che, mescolando il loro sangue, si genera un serpente, mangiando il quale si arriva a comprendere le parole degli alati. Plinio nella Storia naturale (X, 70), ricorda Melampo, mitico indovino che dava i suoi vaticini tolti dalla lingua degli uccelli. Anche in questo caso furono i serpenti, da lui allevati, che, leccandogli le orecchie, vi infusero la virtù di conoscere il linguaggio degli animali. Il collegamento magico tra il serpente e l'uccello è rivelato nella nostra fiaba col suo percorso costante: la forma che più frequentemente assumono le fate è quella della serpe.
Melampo, forte di questa abilità, se ne servì in molte divertenti occasioni, come quando chiese ai tarli, che rodevano le travi della sua stanza, se ne avevano ancora per molto: sentendo che stavano per finire il lavoro, uscì e si salvò dal crollo per miracolo. Ma il colpo grosso lo fece salvando la solita figlia del solito re (Preto si chiamava), sistemandosi benino.
Si tocca così la connessione col sacro di questa strana credenza, diffusa sia pure in modo diverso in una grande quantità di popoli. Che gli uccelli siano messaggeri di Dio in senso proprio lo si è creduto in epoche arcaiche, ma sia pure a distanza di millenni la cosa ha lasciato il suo segno, anzi, quasi alle soglie della nostra epoca si è trasformata prendendo forme sempre più fantastiche ed evanescenti, entrando nelle dicerie, nelle favole, nelle superstizioni che impediscono di cacciare e uccidere certe specie, mettendone altre sotto il patrocinio di divinità come è per noi la rondine protetta dalla Vergine. Questo ha tenuto viva la suggestione che gli uccelli, più delle altre creature, sapessero del mistero del mondo, comprendessero la nostra vita meglio di noi e comunicassero con la loro voce cose che qualcuno riusciva a carpire. Del resto figure diversissime ne hanno subito il fascino: da San Francesco che parla loro come a esseri umani, a Leopardi che scrive l'elogio degli uccelli, per non ricordare Cristo che li addita come esempio, come i fiori.
Che la Terza persona della SS. Trinità compaia nel Vangelo sotto forma di colomba non è un caso, mentre si va perdendo la nostra cognizione del passato e dei messaggi che ci ha lasciato. Ad esempio l'immagine assai comune degli uccelli che bevono a una fontana passa dai mosaici bizantini toccando tutte le epoche, ma un tempo era intuitivo che sì, era simbolo delle anime che s'abbeverano alla verità, ma era altresì pacifica l'allusione che la fontana, soprattutto se aveva tre getti, era l'immagine di Dio e gli uccelli che ne ascoltavano la voce erano le anima umane. Infatti lo spazio sacro del giardino, soprattutto il chiostro, aveva al centro la fontana, il cui mormorio era segno della voce divina, sia per la nostra che per la tradizione islamica.
Una credenza comune, semplice, che ha lasciato una traccia anche nel linguaggio (confidare nella propria buona stella), affonda le sue radici nella notte dei tempi e si presenta ancor oggi molto diffusa: che ogni vita umana sia legata a una stella e da questa dipenda la sorte buona o cattiva secondo che sia benevola o malevola. Essendo considerato il cielo stellato nient'altro che l'esercito di Dio schierato a battaglia (cosmos) è naturale l'identificazione delle stelle con gli angeli e come queste detengono i decreti della volontà divina, gli angeli l'attuano sulla terra e tra gli uomini.
In realtà, come accenna R. Guénon, (La lingua degli uccelli in «Simboli della scienza sacra», Adelphi, Milano 1975, pag. 56), questa credenza sposta l'origine in tempi remotissimi, quando gli uccelli furono visti come messaggeri degli dèi e i loro canti furono presi per parole e, siccome i canti degli uccelli sono di solito belli, l'uomo pensò che in alto ascoltassero la voce di Dio e quaggiù ripetessero le sue parole. Dunque gli uccelli, abitatori del cielo, alati e canori, hanno molto a che fare simbolicamente con gli angeli, che sono appunto i nunzi e gli esecutori della volontà di Dio sulla terra: Tobia, le piaghe d'Egitto, l'annuncio alla Vergine e altri episodi.
La diffusione della leggenda
Un detto vuole che chi comprende la lingua degli animali è destinato a divenire papa, come si legge anche in una fiaba (Comparetti, Novelline popolari italiane, 1875. Il linguaggio degli animali, Novella LVI, pag. 242).
Il motivo della lingua degli uccelli è molto diffuso nelle fiabe, e anche in quelle toscane. La presenza di uno stesso tema in molte aree linguistiche di diversa civiltà o tradizione di solito è segno che all'origine esiste un elemento forte, quale potrebbe essere appunto il fatto religioso o mitologico che abbiamo indicato. Possiamo dire che tale mito è universale perché si trova in Africa in Cina e in molte tradizioni orientali.
Per fare qualche esempio relativamente all'area toscana questo motivo si trova a Pisa nella fiaba L'uccellino che parla (Comparetti 117-24); a Firenze, nella stessa fiaba raccolta dall'Imbriani (La novellaia fiorentina, 81-93); in molte località si trova ne L'uccel-bel-vede che è una fiaba assai diffusa; a Pratovecchio ne La gazza (G. Pitrè Novelle popolari toscane I, 63, pagg. 324-5); ne L'usignolo e i suoi ammaestramenti (Palazzi, Enciclopedia della fiaba, pag. 389) e l'assai nota Capra ferrata.
L'uccello parlante nelle fiabe viene a prendere il posto del vecchio saggio che all'inizio della sua avventura indica al protagonista i pericoli, gl'inganni ai quali andrà incontro, ovvero gli fornisce mezzi o stratagemmi per evitarli. Questo lo pone, sia pure nelle veste dimessa dell'animale, nella metamorfosi di un essere superiore, ovvero nel messaggero del destino o d'una forza sovrumana. Infatti la capacità di parlare si trova estesa poi anche agli animali in genere che dialogano con gli uomini che ne hanno la facoltà. Nelle Fiabe e leggende popolari siciliane del Pitrè vi è una narrazione nella quale Cristo concede a un uomo di intendere questa lingua con il divieto di rivelarlo ad alcuno, pena la perdita di tale potere. Così anche in una leggenda abruzzese.
Tra le popolazioni del mare ha una particolare importanza il gabbiano. Una credenza assai diffusa vuole che i gabbiani non siano uccelli, ma anime di marinai annegati con qualche debito col cielo, condannati a vagare sul mare per cento anni, dopo i quali saranno giudicati da Dio. Per antica usanza le donne quando vedono passare i gabbiani che vanno verso il mare affidano loro messaggi da portare ai loro mariti che navigano in acque lontane, certe che gli uccelli sapranno ispirare le loro parole nella mente dei propri cari. Le vedove un tempo si recavano sulle scogliere per chiedere quale sia stato il destino dei loro sposi dispersi nelle onde, credendo d'intendere le risposte nel gracidare dei gabbiani e nel suono della risacca.
Molte leggende cristiane di santi riferiscono di uccelli con i quali questi intrattennero colloqui e rapporti, o ne furono alimentati e soccorsi, anche per lungo tempo. San Benedetto addirittura, come racconta San Gregorio Magno, dava ogni giorno nella sua cella da mangiare a un corvo che obbediva ai suoi comandi e un giorno, senza neppure assaggiarlo, si accorse che un pane era avvelenato e lo portò dove nessuno avrebbe potuto toccarlo. Altri narrano che sia stato proprio il corvo ad avvertire il santo del pericolo, ma fu sempre un corvo a indicargli la strada mentre andava verso Montecassino a fondare il suo convento.
Di San Paolo eremita si racconta che, ritiratosi nel deserto per fuggire le tentazioni, abitò in una spelonca solitaria dove nessuno mai passava. Per tutto il tempo che visse un corvo giungeva a volo all'ora del pasto a portargli un pane e il Santo poté così dedicarsi allo studio e alla preghiera, senza la necessità di procurarsi il cibo. Ora, un giorno andò Sant'Antonio a visitarlo e l'eremita non sapeva cosa mettere in tavola, ma all'ora consueta, il corvo giunse portando due pani invece di uno, per sfamare anche l'ospite.
Lo schema di questa leggenda si trova nell'Antico Testamento: di Elia profeta si narra che un corvo gli portò per tutto il tempo che rimase nello speco di Carith, un pane che lo sfamò (III Libro dei Re, XVII, 6). La stessa cosa si racconta oltre che di San Paolo eremita, anche di altri Santi e di San Rocco si narra che questo fu fatto da un cane.
Non è quindi un caso che Noè abbia fatto uscire dall'Arca dopo il Diluvio, due uccelli destinati a portare l'annuncio della fine del Diluvio, prima il corvo, che non tornò, fermandosi a mangiare una carogna d'asino (Genesi VIII, 6) e poi la colomba.
Per una strana logica indecifrabile del mondo la civiltà industriale, invece di aver allontanato gli uccelli dalla nostra vita come ha fatto degli altri animali, li ha avvicinati. Infatti la caccia e l'agricoltura, coi fertilizzanti, i diserbanti, le bonifiche e la soppressione di corsi d'acqua e di zone umide, allontanano i poveri uccelli dalle campagne e dai boschi spingendoli sempre più dentro le città, dove pian piano si ambientano, si familiarizzano, si adattano trovando non solo una relativa pace nei parchi, nei viali, nei giardini, lungo i fiumi dove nessuno li prende a fucilate, ma trovano anche di che alimentarsi. E così, forse anche attraverso di loro, arriva a noi talvolta flebile e dolce l'antica voce di Dio.
Simbologia ed iconografia
Ancora Tomaso Garzoni (La piazza universale di tutte le professioni del mondo, Discorso XL) rinverdisce questa credenza nota anche nel XVI secolo, nel quale scrive e fa capire che alla lingua degli uccelli in qualche modo si credeva ancora.
A noi restano, di tutta questa illustre e fascinosa tradizione, oltre alle favole, le briciole che quasi nessuno ormai scopre nascoste come sono nella simbologia e nell'iconografia del passato. Nessuno fa caso ad esempio che nella rappresentazione degli antichi di solito ogni divinità appariva accompagnata dall'uccello che le era sacro: Giove con l'aquila, Atena con la civetta, Venere con i passeri, Giunone con la colomba e così gli altri.
Assai diffusa è la diceria che il canto della civetta porti guai, quello dell'usignolo amore, quello dell'allodola gioia, quello della rondine appena giunta dal mare reca pace e serenità, quello del cuculo danaro se, la prima volta che si sente a primavera, si ha l'accortezza di mettere la mano in tasca e toccare una moneta.
Tuttavia, tutto quello che vola, siccome qualcosa con il cielo ha a che fare, è capace di rivelare l'arcano. Il volo del moscone annuncia una visita, quello della vespa una novità, quello del pipistrello che entra in una casa vi porta discordia, poca allegria portano il canto dei gufi e delle cornacchie: ma si vuole che questa facoltà tali animali le abbiano avuta dal diavolo.
Curiosamente l'espressione lingua degli uccelli indicò in alchimia un sistema di procedere nella ricerca attraverso analogie ed equivalenze fonetiche nella convinzione che le parole abbiano delle connessioni segrete che si attivano attraverso i suoni.
Il gioco dei ragazzi
E' un gioco che fanno ancora i ragazzi quando vogliono formare un gruppo iniziatico che usa un linguaggio incomprensibile agli estranei.
Consiste nell'aggiungere alla fine d'ogni sillaba, più o meno rigorosamente identificata, i suffissi: -gasà, -ghesé, -ghisì, -gosò, -gusù, ripetendo la vocale della sillaba stessa. Una frase come: Gigi ha mangiato la mela, diventa: Gighisì gighisì hagasà mangasà giagasà togosò lagasà meghesé lagasà.
Così si usa raccontare una semplice storia con altri inserimenti precostituiti e variabili secondo le sillabe, come La storia della vecchia inecchia buffecchia, Il Vecieto nareto buffeto o Lu Re-befè-viscotta-e-minnè.
giovedì 24 settembre 2020
Il potente simbolo del Tanit
Un altro simbolo ricorrente, accompagna la storia dell’umanità, sin dall’alba dei tempi.
Questo frattale, rappresenta la dea madre, portatrice di progresso e conoscenza, ma anche simbolo energetico, delle forze che governano la terra ed il cosmo, energia madre vitale, generatrice.
TANIT: lo ritroviamo nella sua forma classica, già in epoca fenicia in tutta la zona del mediterraneo ma anche in estremo oriente, nelle Isole Canarie, in Lapponia e con aspetti grafici leggermente diversi, in tutto il continente americano.
Le valenze cambiano e si “aggiustano” nel tempo, ma il simbolo ed il suo significato iniziatico, rimane pressoché invariato, fino ai nostri giorni.
È un triangolo isoscele appoggiato sul lato più corto, sormontato da un cerchio, le due figure geometriche unite da un segmento parallelo alla base del triangolo. È spesso accompagnato da due elementi verticali laterali ( le colonne del tempio) che a volte, la vedono coinvolta nell’atto di sostenerle. Si intuisce chiaramente il simbolo rozzo di una figura umana, ma si ricollega anche, per analogia, al simbolo preistorico dell’ingresso o uscita del labirinto, nella sua forma stilizzata e sintetica.
Altre volte lo troviamo sormontato da un motivo ad arco che la sovrasta, una sorta di aura o parabola, della stessa forma e nella stessa posizione degli scudi flessibili delle statue di Mont’e Prama.
La forma che va a comporsi superiormente, in questo caso, ricorda anche un rudimentale e stilizzato occhio onniveggente o occhio di ORUS.
È il simbolo di Tanit, misteriosa signora del cielo e del popolo, anche simbolo lunare femminile, legato all’acqua e all’aria (uccello e pesce), ma anche androgino, al contempo, maschile e femminile, Unione degli opposti, a formare l’uno.
È anche legata saldamente al culto dei morti ed in particolare a quei rituali atti a garantirne la resurrezione del corpo dell’individuo, secondo la tradizione legata al “mito”.
È il riflesso di Baal Ammon, cioè la personificazione, della luce del sole ( una luce che si può guardare, perché luce riflessa, non diretta) - ( “era come guardare il sole che si muoveva, ma non dava fastidio agli occhi” - tratto da testimonianze dirette “Fatima”).
Questo simbolo subirà, nel corso dei millenni, diverse evoluzioni ed applicazioni, storiche, simbolico-religiose ed architettoniche: chiave della vita egizia, piramide tronca, Shiva lingam, pozzi lunari neolitici, kofun ed aniwa giapponesi, croce cristiana, simbologia massonica, ma anche pianta architettonica di molte cattedrali e di piazza San Pietro, in Roma.
Possibili decifrazioni del simbolo:
Entità fisica reale, di fattezze femminili, forma di vita intelligente e fisicamente e storicamente esistita ed esistente, colei che vigila, istruisce e guida l’umanità.
Energia della terra ( che viene dal basso -così in terra), campo elettromagnetico terrestre, ma anche gravitazionale ( che irradia spaziotempo locale) che si incontra e si compenetra con ciò che viene dall’alto ( come in cielo: onde gravitazionali cosmiche ma anche spaziotempo cosmico - come sommatoria di spaziotempi locali - tessuto spazioTemporale - dei singoli centri di gravità sparsi nell’universo)-( vedi: ipotesi dei campi tachionici e muonici che solo di recente, è stata ripresa in considerazione da alcuni fisici “illuminati” e che rischia di rivoluzionare dalle fondamenta, la fisica contemporanea), ma anche raggi cosmici di polarità opposta agli elettroni del campo magnetico terrestre. ( positroni ). (Incontro di Materia ed antimateria).
Piccola parentesi sui raggi cosmici:
( recentemente la fisica moderna ha dimostrato come i raggi cosmici, influenzino il clima e rivestano un ruolo fondamentale sui fenomeni di condensazione del vapore acqueo nell’atmosfera, condizionando la formazione delle nubi ).
Ecco tornare gli elementi cari a TANIT- aria-acqua (vapore acqueo) dai quali si formano, (nubi) e per differenza di potenziale elettrostatico rispetto alla terra, i fulmini (immense scariche ad alta tensione, senza l’ ausilio di combustibili fossili).
Ecco che la signora delle palme, dell’acqua e del cielo, torna nella storia degli uomini terrestri, ad insegnarci e ricordarci chi eravamo e chi potremmo essere e a mostrarci la possibile strada da percorrere, per la salvezza del pianeta ed il reale progresso dell’umanità.
O magari, ad uso e consumo degli scettici, questo simbolo ricorrente, rappresentato su pietra da antichi ingegneri, costruttori, matematici ed astronomi, come immagine ricorrente a diffusione praticamente planetaria, è solo frutto di coincidenze, ignoranza e superstizione?
Come sempre .... ogni persona trovi le proprie risposte e tragga le proprie conclusioni.
giovedì 20 agosto 2020
mercoledì 19 agosto 2020
19 Agosto: festa di Venere

C’è chi conduce la nascita di Venere a una conchiglia uscita dal mare, c’è chi invece pensa che Venere sia stata generata da Urano, dio del cielo i cui genitali, che caddero in mare dopo essere stati castrati dal figlio di Urano, Crono, hanno dato origine alla dea. La Festa di Venere celebra dunque una delle dee più apprezzate dell’universo femminile. Dicevamo che Venere è simbolo dell’amore e non a caso sono moltissimi gli amanti di questa dea: Adone, Anchise, Efesto, Ares, dal quale Venere ebbe anche dei figli. Questa dea celebra l’amore tra uomo e donna ma non l’unione coniugale (è un’altra dea a simoboleggiarla).
Secondo coloro che sposavano la teoria di Venere nata dal mare, ecco che questa dea era un simbolo importante per i naviganti, coloro cioè che attraversavano il mare e che in lei ritrovavano stimoli e bellezza. Ma Venere non era accostata soltanto al mare, ammansiva infatti anche la Terra. Venere è infatti la dea della primavera, le sono sacre le rose ma anche tante altre piante, per esempio mirto e melograno. Il 19 agosto, da tempo, si celebra dunque la festa di Venere per rendere omaggio ad una delle dee più importanti della cultura romana. La festa cade in piena estate, dopo la Grande Sabba del Raccolto che si celebra il 31 luglio.
lunedì 17 agosto 2020
Bruciare erbe: la guarigione spirituale secondo gli indiani d'America
I nativi del nord America usano bruciare alcune piante a scopo cerimoniale e nei riti di guarigione. E' anche una forma di aromaterapia.
Certamente una delle piante più utilizzate a questi scopi è la gliceria (Hierocloe odorata), con cui formano lunghe trecce che si possono bruciare, ma anche indossare o riporre come offerta sugli altari. Spesso il suo fumo si unisce al vapore acqueo nelle capanne sudatorie. Come i nostri incensi comuni, si ritiene che il fumo abbia un'azione purificatrice: l'intento non è di inalare il fumo ma di immergersi in esso per favorire le attività spirituali. La gliceria ha un leggero effetto soporifico, l'aroma ricorda la vaniglia e, secondo alcuni, favorisce gli stati meditativi.
Ne parla Barrie Kavasch*, ricercatrice e storica delle culture degli indiani d'America: «Potete offrire il fumo a voi stessi. Muovete la treccia in alto e in basso per circondare di fumo la testa e il busto. Mettendo le mani a coppa, accostate il fumo al vostro cuore, questo porterà amore e attenzione. Poi portate le mani con l'offerta di fumo alla testa per ottenere chiarezza di giudizio e buoni pensieri. Se lo passate sulle braccia e sulle gambe scacciate ogni rabbia, tensione e sconforto».
Altre erbe, spesso miscelate, formano gli incensi tradizionali di queste popolazioni. Una pianta molto popolare è la Salvia ma non quella che troviamo nei nostri supermercati (meglio non bruciarla, può far venire mal di testa). Si tratta di specie autoctone come la Salvia bianca (Salvia apiana) e la Salvia del deserto (che però non è una Salvia ma un'Artemisia). Ancora oggi sono preparate e vendute: ogni tribù ha il suo blend specifico in cui alla Salvia si aggiungono cedro, ginepro, gliceria, mesquite, uva ursina e molte altre sostanze vegetali.
Al fumo generato dalla combustione di queste piante si attribuisce la capacità di generare stati d'animo positivi, scacciando le negatività. Calmano e rilassano. Si trovano bastoncini di Salvia ma si può anche riporre la Salvia o le miscele in un bruciatore. Di solito si tratta di momenti da vivere insieme ad altre persone.
Ancora la Kavasch: «Potete passarvi il bruciatore da uno all'altro: ciascuno gode del fumo e trascorre un momento in silenzio, a pregare, prima di passarlo al prossimo. Le preghiere collettive e le energie positive di questi incontri sono stupefacenti: spesso, un reale senso di guarigione spirituale può pervadere tutti i presenti».
Ma la cosa più importante non è il fumo, che si compra, ma l'inclinazione mentale, che dobbiamo riscoprire in noi stessi.
Queste erbe da bruciare sono in vendita negli shop delle varie comunità indiane e anche nei musei e nei negozi specializzati. Ovviamente sono reperibili via internet.
*Barrie Kavasch è autrice di un testo che raccoglie un'intensa attività di ricerca sui sistemi di guarigione naturale degli indiani del nord America: 'American Indian healing arts'.