– “E’ necessario curarsi di ciò che conduce alla felicità, se è vero che, quando essa è presente abbiamo tutto, mentre quando non c’è ci sforziamo in tutti i modi per ottenerla“. La frase è del filosofo greco Epicuro, contenuta nella celebre Lettera a Meneceo.
Siamo sempre alla ricerca della felicità ma, in realtà, sappiamo cosa stiamo cercando? I nostri bisogni non sono facilmente interpretabili. Il rischio di confondere desideri e necessità, futilità e utilità è molto facile.
Per Epicuro la felicità si misura con il piacere e l’assenza di dolore. Ogni nostra scelta, ogni nostra azione, deve essere volta a non provare né dolore né timore. Il piacere consiste nell’assenza di turbamento dell’anima che rende, quindi, sereni.
Come tutti i filosofi che hanno parlato di felicità in termini di ricerca del piacere, anche Epicuro è stato spesso equivocato nella storia, anche tra i suoi contemporanei (si narra di numerose maldicenze che colpirono il filosofo). Spesso la parola “piacere” è accostata erroneamente a desideri superflui ed eccessivi rispetto alle reali necessità di un individuo.
Ma Epicuro, di sfarzoso ed eccessivo non aveva alcun comportamento, né abitudine. Il narratore Diogene Laerzio, nella sua opera “Vita dei Filosofi“, lo descrive come uomo mite e modesto con molti amici a cui dimostrava benevolenza e fedeltà continua. Gli amici lo andavano a trovare spesso nel suo giardino, il luogo di ritrovo che Epicuro aveva acquistato per ottanta mine. Nel “giardino dei piaceri”, in realtà Epicuro e i suoi amici chiacchieravano mangiando pane e bevendo acqua, talvolta un vinello. Un formaggio veniva conservato nel caso rarissimo si volesse proprio esagerare col banchetto.
Ma è lui stesso, Epicuro, a spiegare il concetto della semplicità collegata al piacere e alla felicità: “Dalle vivande semplici si ricava un piacere pari a quello che se ne trae da una tavola riccamente imbandita, quando sia stata cancellata ogni sofferenza legata al bisogno“. E poi ancora: “…una focaccia e dell’acqua procurano il piacere più intenso, qualora se ne cibi chi abbia fame. Abituarsi a un tenore di vita modesto e non sfarzoso giova dunque alla salute e fa sì che l’uomo non esiti a riconoscere ciò che davvero occorre per vivere…“
Il fine per Epicuro non è la dissolutezza, quindi, ma il non provare dolore nel corpo e raggiungere l’assenza di turbamento nell’anima. Ognuno di noi può desiderare all’infinito nella natura dei piaceri ma il rischio è proprio quello di trovare dolore da quei piaceri inutili. Ogni nostra azione deve essere rivolta quindi allo stare bene con noi stessi agendo sì per noi ma anche senza arrecare danno agli altri. Nelle massime capitali Epicuro ce lo ricorda in riferimento alla giustizia: “L’ingiustizia non è un male in sé; lo diventa nel sospettoso timore di non riuscire a sfuggire a coloro che sono incaricati di punire atti di questo tipo“. In poche parole, se si commette un’ingiustizia si proverà turbamento per l’ansia di essere scoperti e, in questo stato, sarà impossibile raggiungere la felicità.
A margine del ragionamento di Epicuro sorge così una riflessione. Quanto noi desideriamo è davvero da ricercare fuori dalla nostra vita quotidiana oppure disponiamo già, spesso senza accorgercene, di ciò che sarebbe sufficiente a soddisfare i nostri reali bisogni e a vivere senza turbamento d’animo? A volte la felicità è semplicemente un’interpretazione di ciò che già abbiamo nella realtà quotidiana. Sta a noi saperla leggere dal lato giusto.
Salvatore Primiceri