giovedì 28 marzo 2019
Cacciatori di teste
La domanda perché un uomo deliberatamente taglia la testa a un altro uomo può avere risposte diverse, ma la pratica di una tale barbarie trova riscontro in tutti i popoli fin dai tempi remoti. Già in tempi preistorici dobbiamo presupporre decapitazioni come lo mostrano scoperte paleolitiche in Baviera, ove teste tagliate con cura si trovano ad una certa distanza dai corrispondenti corpi (Kleiss). Nell'antichità, presso gli Assiri, era normale tagliare le teste dei nemici sconfitti e portarsele come trofei di vittoria oppure come dono per gli dei. Usanze basate su queste pratiche le troviamo nei poemi epici in cui la componente magico-rituale è adombrata da quella eroica. In tutte le epoche e in tutte le civiltà, le teste di malfattori decapitati o di nemici sconfitti erano mostrate pubblicamente sia impalate sulla punta delle lance, sia sui pinnacoli delle fortezze, sia ancora in gabbie appositamente costruite. Nel Museo anatomico di Napoli si conservano crani di delinquenti giustiziati che, per molti lustri rinchiusi in graticci di ferro, erano rimasti appesi alle mura del Tribunale della Vicaria. Se alla base di queste decapitazioni possiamo trovare motivazioni rituali, eroiche, di potere e di giustizia, altro significato hanno quelle dei cacciatori di teste, una pratica in passato assai diffusa fra le tribù primitive di vastissime zone dell'Indonesia, dell'Africa e delle due Americhe. Per gli indigeni delle Isole Salomone motivo della barbara caccia era la credenza che i nemici decapitati continuassero a vivere acefali anche nell'aldilà. Parecchie tribù della Nuova Guinea e soprattutto gli Alfuri della zona olandese praticarono la caccia alle teste con l'unico scopo di rientrare trionfalmente al villaggio con le teste dei nemici uccisi per farne il centro di una vesta per la vittoria. La caccia alle teste fu anche praticata, su larga scala, da alcuni popoli dell'Asia sud-orientale. Presso i Daiaki di Borneo si usava custodire in casa crani conquistati per poi deporli nella tomba di un defunto, affinché l'anima del decapitato servisse come uno schiavo il suo vincitore nell'altro mondo. Si credeva anche che l'accesso al regno dei morti veniva rifiutato all'uomo che non avesse conquistato almeno una testa. In Africa, la pratica della caccia di teste è stata molto meno diffusa, tuttavia gli indigeni della Costa della Guinea usavano i crani-trofeo dei nemici uccisi come tazze e numerose tribù dell'Africa occidentale ornavano con crani-trofeo gli strumenti musicali e, soprattutto, le lunghe trombe e i tamburi che servivano a infondere coraggio e furore bellico. Nella Nigeria settentrionale, dopo la conquista di una testa, l'intera tribù festeggiava il vincitore per parecchi giorni. Nell'America meridionale, presso alcune tribù (Macaco, Chiriguani, Guayacurù, Guaranti e Araucani) veniva attribuita la vittoria alla parte di colui che per primo riusciva a tagliare la testa di un nemico e ad issarla sulla punta della lancia. Il nemico interpretava questa visione come una prova dello sfavore degli dei e accusava partita persa. Tutte queste popolazioni attribuivano valore di trofeo alla testa intera. Tagliata la testa, veniva asportato il contenuto endocranico attraverso il foro occipitale. La testa, dopo ripetute immersioni in un miscuglio d'olio vegetale e di tintura rossa d'urucu (Bixa orellana) veniva affumicata per qualche giorno o lasciata seccare al sole. Ai capelli venivano annodate cordelline fittamente guarnite di penne rosse e nere. Cacciatori di teste si troverebbero, ancora oggi, in quelle parti del mondo ove le proibizioni dei governi hanno poco effetto nella giungla. È il caso dei Jivaros che in quest'arte crudele si distinguono perché la loro "specialità" sta nel rimpicciolire le teste. Queste teste rimpicciolite o tsantsas sono uniche nel loro genere: si tratta della pelle della testa di un uomo adulto ridotta con abilità sconcertante e attraverso numerose operazioni al volume di un pugno. Le labbra vengono cucite con numerosi lacci di fibre le quali formano un ciuffo penzolante della stessa lunghezza della capigliatura. Se cerchiamo di capire la mentalità di questi Jivaros che tagliano la testa ad un nemico ucciso, bisogna convenire che non si tratta di furia sanguinaria, ma di una forma di spiritualità profondamente ancorata. Come il cannibale mangia parti del cadavere ( dove la fame ha solo un ruolo secondario) così il trofeo in forma di testa dà al proprietario certe forze come il coraggio, la potenza che erano propri della vittima. In questo modo il trofeo può anche diventare un talismano per tutto il clan, il che spiega tutte le cerimonie connesse con la produzione e l'accettazione da parte del clan di una testa rimpicciolita. La credenza che spinge un Jivaro alla caccia della testa di un nemico è una vendetta che serve a placare lo spirito della persona da vendicare. Solo così lo spirito di questa persona potrà riposare in pace anziché aggirarsi intorno tormentato. È questa credenza religiosa che continua a perpetuare la guerra tra i Jivaros. Questa è la ragione perché un Jivaro taglia la testa di un altro Jivaro, la riduce alle dimensioni di un pugno e, infine, danza intorno ad essa. Il solo guaio dei Jivaros è quello di credere a tutta una serie di superstizioni: i Jivaros non si chiedono perché un albero cadendo uccide un fratelli. Lo sanno: gli spiriti maligni del wishinu nemico ne hanno la colpa. Non si domandano perché un fiume straripa. Lo sanno: sono gli spiriti maligni dell'acqua. I Jivaros temono solo l'inguanchi, lo spirito del male. Il loro mondo abbonda di spiriti, alcuni buoni ed altri maligni. A tutte le cose che esistono nel mondo, alberi, animali, ucelli, fiumi, pesci, farfalle, formiche, nubi, terra, nonché alle cose che splendono in cielo, corrispondono altrettanti spiriti. Perciò è arduo scoprire che cosa può preoccupare un Jivaro. Il guerriero che ha tagliato la testa deve badare a che lo spirito del nemico non gli faccia del male, perché il suo spirito ha sede nella testa, e soprattutto nei capelli. Naturalmente esso cerca di rivolgersi contro questo spirito e, perciò, fa di tutto per indurlo ad obbedire e ad aiutarlo. Pianta la tsantsa su una lancia conficcata nel terreno, la stessa lancia con la quale il nemico è stato ucciso e, insieme agli altri, danza intorno puntandole contro la lancia in modo da spaventare lo spirito e mostrare come lo ha ucciso. Anche le donne danzano e cantano. Le altre, quelle della jivaria nemica se ne stanno lì vicino e piangono. Quando non vengono catturate donne, si incaricano quelle della propria jivaria di fare la loro parte e di piangere a calde lacrime. Il tagliatore della testa deve digiunare, non può mangiare carne di grossi animali e grandi pesci, perché lo spirito del nemico può entrare in loro e da lì in lui. E non può avvicinare nessuna delle sue mogli; per sei mesi deve osservare la più completa astinenza.
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