Estratto dal libro "La Messa è Finita" di Michele Giovagnoli
In tutte le culture del mondo, l’albero rappresenta da sempre un cardine imprescindibile della spiritualità, un punto di riferimento visivo e simbolico, un’espressione viva che unisce Terra e Cielo. In tutte, tranne che in quella cattolica.
Baobab immensi, Sequoie millenarie, foreste incontaminate latine e asiatiche non trovano il degno corrispettivo in un’Europa che, salvo casi sporadici, presenta alberi non più vecchi di qualche secolo. Dove sono finite le querce secolari che raggiungono dimensioni impressionanti come quelle narrate da Plinio Il Vecchio nella sua opera Naturalis Historia? Testualmente:
«Le querce per la loro smisurata invadenza nel crescere occupano addirittura il litorale e, a causa delle onde che scavano la terra sotto di esse o del vento che le sospinge, si staccano portando con sé grandi isole costituite dall’intreccio delle loro radici: restano così dritte, in equilibrio, e si spostano galleggiando. La struttura dei grossi rami, simile a un armamentario velico, ha spesso creato lo scompiglio nelle nostre flotte quando le onde sospingevano questi isolotti, quasi di proposito, contro la prua delle navi alla fonda di notte; ed esse, non riuscendo a trarsi d’impaccio, ingaggiavano uno scontro navale contro delle piante. Sempre nelle regioni settentrionali la selva Ercinia con le sue querce di enormi dimensioni (lasciate intatte dallo scorrere del tempo e originate insieme con il mondo) è di gran lunga, per questa condizione quasi immortale, il fenomeno più stupefacente. Per non stare a menzionare altri fatti che non suonerebbero credibili, risulta effettivamente che le radici, arrivando a fare forza l’una contro l’altra e spingendosi indietro, sollevano delle colline; oppure, se il terreno non le segue spostandosi, s’incurvano fino all’altezza dei rami e formano degli archi a contrasto come portali spalancati, tanto da lasciare il passaggio a squadroni di cavalleria».
L’azione della rivoluzione industriale ha inciso violentemente sugli aspetti ecologici dei territori. Su questo non vi è alcun dubbio. Personalmente però non ritengo sia la causa diretta alla quale imputare l’estinzione quasi totale dei Patriarchi verdi. Al limite una conseguenza o, al massimo, un agente parallelo. A mio avviso, il punto di propagazione è squisitamente culturale. Qualcosa di molto più sottile e profondo. Se ciò non fosse, in tutte le aree dove l’onda del progresso tecnologico è arrivata, osserveremmo ora le stesse condizioni. E non è così!
Non voglio esprimermi in termini assolutistici, perché qualcosa è sopravvissuto di certo da un passato dove il binomio uomo-albero era addirittura inevitabile, ma
è un dato inconfutabile che più ci si allontana geograficamente dal fulcro del dominio cattolico, quindi da Roma, maggiore è la probabilità di incontrare esemplari di dimensioni straordinarie e popoli con tradizioni che riconoscono all’albero un potere super partes nel vissuto spirituale.
A conferma, è sufficiente pensare che in nessuna usanza cattolica ufficiale risulta esserci un albero al centro di un atto contemplativo, al massimo dei rami di ulivo nella Domenica delle Palme o un abete ricoperto di lucine colorate a ornare un presepe.
L’Italia, che è il Paese nel quale il Parassita cattolico si è aggrappato per aprire i suoi tentacoli all’esterno, si è dotata di una legge quadro sulla protezione delle aree verdi soltanto nel 1991 a fronte dell’istituzione della prima area protetta di carattere nazionale, ovviamente alpina, datata nel 1922. L’evidentissima reticenza politica nel concedere al verde la propria naturale importanza, attraverso una presa di posizione forte e complessiva, conferma a pieno la presenza di un atteggiamento ostile ben inculcato nei geni di una popolazione cresciuta sotto il suono dei campanili da sempre. L’educazione ambientale nelle scuole, per fare un altro esempio, è insegnata da appena un ventennio, a differenza di tanti altri Paesi, alcuni anche economicamente meno sviluppati.
Al Grande Parassita la Natura selvatica non è mai piaciuta tanto, anzi, l’ha sempre considerata un intralcio. Chi conosce la Natura selvatica comprende meglio e più velocemente anche la propria. Chi si confronta con le grandi leggi che muovono la manifestazione, attraverso un confronto diretto con lo strato più dinamico del Cosmo Terra, apprende conoscenze che lo evolvono nella semplicità. Chi si sofferma a contemplare la bellezza, anche di un semplice filo d’erba, assorbe un nutrimento preziosissimo che lo eleva verso piani esistenziali superiori. In definitiva: chi ritrova in sé gli stessi impulsi celesti che muovono un albero secolare o una farfalla difficilmente si genuflette a una croce con uno sconosciuto inchiodato sopra.
L’essere umano che dialoga con il bosco difficilmente accetta ordini che tradiscono la propria identità. Difficilmente spegne il desiderio di prendersi cura di chi gli permette di esistere. Chi segue la Natura è più libero, forte, autentico.
L’Eros scorre lecito e incontrastato nelle vene di un’anima selvatica, porta in superficie domande, curiosità, dubbi e reazioni. Il termine vita trova nella Natura una delle sue più alte espressioni, quasi fossero sinonimi con semplici variazioni cromatiche.
Al Grande Parassita la Natura selvatica non è mai piaciuta tanto, anzi, l’ha sempre considerata un pericoloso nemico. Un nemico in quanto complice della sua preda preferita: l’uomo. L’uomo che vive e viveva a contatto con gli alberi dispone e disponeva di un grande mentore. Un saggio sempre pronto a elargire consigli e a ricordare costantemente l’ordine delle cose e la potenza dell’armonia. Un uomo che vive a contatto con gli alberi sa bene nell’intimo che è vivo grazie a loro. Sa bene che appena è uscito dalla pancia della propria madre loro sono “entrati” nei suoi polmoni adottandolo. Sa bene di avere un organo per respirare che è un albero capovolto, marchio di appartenenza energetica e biologica al bosco.
Non c’è una croce a congiungerci con l’esterno, c’è un albero.
E gli alberi verdi, con il tempo, diventano grandi, alti anche trenta volte l’uomo. E vivono a lungo, tanto a lungo. Sono lì quando nasci e tuo nonno ti parla di loro, e te ne vai anziano raccontando di loro ai tuoi nipoti. E questa catena procede quasi all’infinito facendo perdere le tracce della loro età e facendoli sentire, rispetto a te, immortali. Un albero che può vivere duemila anni è, rispetto agli altri esseri, letteralmente immortale. Tutto ciò al Grande Parassita non piace e non piaceva, in tutto il suo percorso il bosco è stato sempre temuto e respinto.
Temuto e respinto, fino a un giorno nel quale decise di dichiarargli apertamente guerra con un atto ignobile che va considerato a tutti gli effetti uno dei gesti più squallidi, vili e dannosi compiuti a discapito della vita stessa. Nell’anno 890 d.C., attraverso il concilio Namnetense, la Chiesa cattolica prende una posizione ufficiale e condanna a morte tutti gli alberi secolari presenti sul suo territorio, nonché tutti i boschi ritenuti sacri dalle popolazioni che ancora non si erano genuflesse alla croce. Le piante andavano eradicate, arse e al loro posto in molti casi veniva eretta una chiesa. Quest’ultimo passaggio denota benissimo l’identità del Parassita: “Non ‘spegniamo’ un luogo reso energeticamente forte da millenni di pratiche psichiche e di atti biologici, ma ne diventiamo noi i proprietari”.
“Arbores daemonibus consecratae”, alberi consacrati ai demoni. Riporto un passaggio del testo prodotto:
«Summo decertare debent studio Episcopi, et eorum ministri, ut arbores daemonibus consecratae, qua vulnus colit, et in tanta venerazione habet ut nec ramum nec surculum inde audeat amputare, radicitus excidantur, atque comburantur. Lapides quoque in ruinosis locis et silvestribus, daemonum ludificationibus decepti venerantur, ubi et vota vovent et deferunt, funditus effodiantur, atque in tali loci proiciantur, ubi numquam a cultoribus suis inveniri possint».
Ovvero:
«I vescovi e i loro ministri devono con estrema dedizione combattere perché siano estirpati dalle radici e bruciati gli alberi consacrati ai demoni che il popolo venera e considera talmente degni di venerazione e di rispetto da non osare amputarne né un ramo né un germoglio. Tratti in inganno dalle falsità dei demoni, venerano anche pietre in luoghi scoscesi e boscosi, dove promettono e concedono voti. Che siano distrutte dalle fondamenta e che siano gettate in luoghi dove non potranno mai più essere ritrovate!».
In pochi decenni gli effetti furono devastanti e l’azione si protrasse nei secoli successivi. Ancora oggi non mi risulta esserci stata una presa di posizione ufficiale e contraria della stessa portata e con la stessa forza. Non vedo Vescovi impegnati all’altare nel profondere positive considerazioni sugli alberi e sulla loro importanza nel percorso evolutivo delle persone. Non ne vedo nemmeno a prendere posizioni in merito a questioni relative al degrado ambientale, all’inquinamento o alle politiche per le economie ecosostenibili, se non con atti decisamente ipocriti. Li vedo impegnati su altro, ben altro! Per dirla tutta, non mi risulta nemmeno ci sia stato un mea culpa ufficiale per tutti i danni che questa azione ha causato e causa. Evidentemente per loro va ancora bene così.
Da educatore ambientale che sono stato e da Alchimista che sono, reputo gli effetti degli atti del concilio Namnetense la più grande catastrofe naturale causata dall’uomo ai danni della Natura selvatica. Niente può essere paragonato a essa, né in termini ecologici, culturale o economici, né soprattutto evolutivi.
Abbattere un albero secolare significa togliere a tutta la comunità biologica del bosco un punto di riferimento che negli anni ha orchestrato gli atteggiamenti volti alla riproduzione, alla protezione e alla predazione. Un albero secolare è l’unico che può ospitare la nidificazione di alcune specie di grandi uccelli e offrire il rifugio a quei mammiferi predatori che occupano posizioni alte della catena alimentare. La sua assenza stronca di netto tutta una serie di relazioni dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto.
Un albero secolare intreccia le sue radici con una quantità inimmaginabile di alberi ed essendo “vecchio” conserva un’esperienza ampia, ha una memoria ampia! È una sorta di grande saggio per tutte le forme vegetali del bosco, ma anche per quelle animali. Ogni volta che ha la possibilità di codificare uno stimolo ricevuto, lo elabora facendovi fronte con la sua antica conoscenza ed emette dei segnali destinati a tutti gli esemplari che sono in contatto con le sue radici per adottare atteggiamenti ottimali e condivisi. I segnali di carattere elettromagnetico vengono fatti passare da albero ad albero e coprono velocemente l’intero bosco. Un vero e proprio Wi-Fi vivente.
Un albero secolare è quindi un guardiano ecologico preziosissimo che mette a disposizione la sapienza conservata per il mantenimento della vita dell’intero bosco. Un albero di mille anni ha mille inverni nel legno e mille estati. Ha conosciuto la siccità e la tempesta, ha appreso la danza morbida del cosmo e spontaneamente la condivide.
Tagliare un albero secolare significa togliere la possibilità all’uomo di confrontarsi con se stesso, di conoscersi e di comprendere meglio la propria portata. Fermarsi di fronte a un essere immensamente più grande di te, più resistente e più longevo ti dona il premio dell’umiltà. Sprofondare nel reticolo armonico dei suoi rami, nel suo propagare e nelle curve dense del suo tronco, ti nutre di una sostanza sottile che attiva delle memorie lontanissime dandoti consapevolezza. I suoi codici esistenziali sono gli stessi dell’osservatore, ma molto più antichi e questa azione vivifica e spinge oltre. Un uomo cresciuto a ridosso di un albero secolare sa qualcosa di più di chi non ne ha mai visto uno. È innegabile, il primo contatto visivo con un patriarca verde è sempre un impatto violento, qualcosa che segna un termine e un inizio. Averli eradicati tutti, aver rimosso per intero aree che per millenni sono state il luogo di contatto con la Natura selvatica ha letteralmente ucciso una componente intima dell’umanità intera, ci ha reso tutti più poveri e limitati, ci ha segnati tutti irrevocabilmente. Un albero secolare o lo erediti o non lo conoscerai mai. E puoi solo, nel secondo caso, assistere e accompagnare con rispetto l’evoluzione di un bosco per consegnare a generazioni future e inconcepibili qualcosa che tu ora puoi solo immaginare.
Senza alberi adulti siamo tutti più deboli. Era questo l’obiettivo ed è stato raggiunto!
In parallelo alla distruzione dei boschi antichi, venne portata avanti già dal 1184, con il Concilio di Verona, la spietata caccia a tutte quelle persone che conservavano e vivevano la Conoscenza ricevuta attraverso l’interazione con le energie selvatiche. Migliaia di roghi e torture, rivolte soprattutto al popolo femminile, allontanarono quasi definitivamente l’uomo dal suo intimo alleato, nonché genitore superiore. Solo poche anime, nel segreto più assoluto e nell’obbligo di vivere una vita disumana e lontana dalle più comuni forme sociali, ha continuato a parlare con le foglie, con il buio, con il silenzio dei tronchi e a raccogliere nei propri geni gli insegnamenti provenienti dalle antichità del mondo. Solo poche anime hanno mantenuto accesa la fiamma e se la sono passata. A loro dobbiamo la grande pulsione umanistica del Rinascimento, pochi secoli più tardi. A loro dobbiamo la conservazione dell’Arte alchemica, a loro l’impulso che mi fa scrivere queste pagine oggi. Tutto attorno, in quella che viene descritta con il termine “normalità”, il vuoto.
Se provate a digitare sul più potente motore di ricerca il nome del vostro vicino di casa vi usciranno migliaia di risultati. Se digitate “Concilio Namnetense Arbores daemonibus consecratae”, ovvero l’atto che ha segnato l’umanità in maniera indelebile, ne riceverete soltanto otto (anno 2017).
Al Grande Parassita la Natura selvatica non è mai piaciuta tanto e, se ha arruolato nelle proprie fila un mistico amante del bosco attorno al XIII secolo come Francesco d’Assisi, lo ha fatto soltanto per infiltrarsi fra quelle popolazioni più resistenti al verbo cattolico e indebolirle da dentro. L’arte di infiltrarsi è anch’essa specifica del Parassita. Chi s’infiltra non è notato e una volta raggiunta la preda la “gestisce” di nascosto da dentro. Il Parassita non combatte l’avversario per distruggerlo, ma per impadronirsi della sua volontà. Non estingue il bisogno di dialogare con l’albero, che è aperto a tutti, ma lo sostituisce con qualcosa che è di sua proprietà. Partendo dal punto più alto possibile, s’inventa un Dio privato e sostituisce l’albero con qualcosa di molto simile, casualmente fatta dello stesso materiale: la croce.
La croce è l’albero cattolico. È di fronte a Lei che ti devi fermare, a Lei devi chiedere e da Lei farti ispirare. È Lei che si ergerà sulla cima di ogni montagna. È Lei che verrà frapposta fra l’uomo e il suo nuovo Dio. Diabolico!
Gran parte degli esemplari secolari che hanno raggiunto i nostri tempi sono sopravvissuti e sono stati “graziati” solo perché strumentalizzati dal clero: il grande cipresso secolare di San Francesco a Villa Verucchio, il bagolaro di San Francesco a San Leo, il leccio di San Francesco sul Monte Amiata in Toscana, il faggio di San Francesco a Rieti, il castagno di San Francesco a Narni in Umbria. Qui la strategia è ancora più sottile: il potere dell’albero secolare è assorbito dal nome di un uomo e la parola “Santo” lo riversa nello stomaco della Chiesa cattolica. L’essenza selvatica viene così vestita forzatamente con la casacca del suo carnefice!
Concludiamo.
L’errore più grave che si possa commettere è ritenere l’avversione del clero ai danni degli alberi come storicamente superata.
Nulla di più sbagliato! Il contatto empatico con una creatura vegetale e la sua contemplazione possono procurare nell’essere umano una conoscenza incommensurabile.
Lo è sempre stato e lo sarà per sempre. Nulla di più pericoloso per chi possiede un impero fondato sull’ignoranza dei propri servi! Ciò che è in atto è una gestione abilissima e impercettibile. Non più editti e aperte dichiarazioni di guerra, ma velatissime ingerenze con strumenti subliminali. Il Parassita si fa sempre più invisibile, sempre più spesso veste gli abiti del protettore dell’esistenza, mentre ne profana l’intimo richiamando a una condotta contro natura. L’ovvietà dei messaggi papali è un suolo di gomma morbida che rende impossibile ogni scatto dell’Eros creativo. Come cresce la possibilità di informarsi, così aumenta la scaltrezza di intorbidire le acque. E tutto volge ancora ad accreditare santi e misteri della fede, per non ammettere che senza alberi non si respira, senza Donne non c’è vita, e senza Sole tutto si spegne.
Mi prendo infine il piacere di ricordare come il dominio sulla creatura vegetale venga celebrato in occasione di ogni Santo Natale. Tenete sempre ferma nella vostra mente questa premessa: la Chiesa cattolica non fa mai nulla a caso. Nulla! Nella piazza più potente a disposizione, piazza San Pietro, viene immolato alle alte volontà un esemplare di sempreverde dall’immane statura, proveniente dalle zone alpine. Tutto simbolico: un’autentica messa in scena con alta facoltà di condizionamento inconscio.
Le Alpi: un luogo lontano e fortemente selvatico, il simbolo del regno autoctono e originale, pilastro della Natura insuperabile e ingestibile. Con un’azione altamente spettacolare, l’albero viene scelto tra i più belli, tagliato, legato e trasportato da un elicottero come un prigioniero fino al centro della piazza dove viene infine ancorato al suolo. L’albero è morto ma deve apparire vivo, anzi viene addobbato quasi a dare l’idea che sia felice di strare lì, che abbia accettato di farlo e si sia arreso serenamente. È solo, accerchiato, impotente. E lentamente si asciuga e si spegne.
Mi ricordano tanto, questi alberi, gli eretici arsi nelle piazze, strappati al loro vivere, privati della facoltà di esprimere se stessi, legati e messi in mostra alle masse, affinché la loro drammatica posizione apparisse come esclusiva debolezza di fronte alla potenza del dominatore. Abbassare l’avversario per figurare più alti. I corpi arsi cadevano a pezzi e si facevano cenere. Terminata la festa, all’albero spetta lo stesso destino.
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