sabato 9 maggio 2020

La Funzione del Mito, del Culto e della Meditazione

Nella sua attuale professione o forma, l’individuo è soltanto una frazione ed una deformazione dell’immagine completa dell’uomo.

Egli è limitato sia come maschio che come femmina. Nei diversi periodi della sua esistenza è limitato sia come bambino che come giovane, adulto o vecchio, mentre nella sua attività è necessariamente specializzato come artigiano, commerciante, servitore, ladro, prete, capo, moglie, suora, o prostituta, egli non può essere tutto.
Di conseguenza, la totalità – la pienezza dell’uomo – non è nel singolo membro, ma nel corpo della società. L’individuo può soltanto essere un organo che svolge una funzione nel suo gruppo, dal quale egli ha attinto le sue tecniche di vita: la lingua nella quale pensa, le idee per le quali prospera, le finalità che egli si prefigge, tutte acquisizioni che gli giungono attraverso il passato.
Dalla sua società di appartenenza o di formazione discendono i geni che formarono il suo corpo. Se egli tentasse di isolarsi nella sua azione come nel suo pensiero o nel suo sentimento, spezzerebbe soltanto il collegamento con le fonti della sua propria esistenza.
I riti delle tribù per la nascita, l’iniziazione, il matrimonio, l’insediamento, servono a tradurre in forme impersonali, classiche, riconosciute e condivise anche dal suo gruppo, le crisi e le azioni della vita dell’individuo.
Esse lo svelano a se stesso, non come questa o quella persona, ma come la persona o l’idea che egli si è formato e che attraverso il rito viene riconosciuta e accettata, se il rituale viene compiuto nei modi e nei termini omologati dalla società stessa. Ecco che allora egli, grazie alla sua conoscenza e interpretazione del ruolo che egli si è dato, può divenire il guerriero, la sposa, la vedova, il prete, il condottiero, e nel contempo egli ripete anche per il resto della comunità l’antica lezione degli stadi archetipi.
Tutti partecipano al rito secondo il loro rango e le loro funzioni.
Tutta la società diventa visibile a se stessa come un’unità vivente e imperitura. Generazioni di individui passano come cellule anonime di un corpo vivente, ma la forma eterna che le sostiene rimane.
Con l’estendersi della sua visione tesa ad abbracciare la società, questo membro tende a divenire il super-individuo e ciascuno scopre se stesso ingrandito, arricchito, sostenuto ed esaltato. Il suo ruolo, per quanto poco importante possa essere, gli appare intrinseco e omologo alla bella immagine gloriosa dell’uomo nello splendore del suo adempimento o riuscita, dimenticando o superando quella sua immagine potenziale, eppur necessariamente inibita, che coltivava dentro se stesso.

I riti dell’iniziazione e dell’insediamento, quindi, insegnano e imprimono la lezione dell’essenziale identità dell’individuo e del gruppo. Le feste stagionali aprono un orizzonte ancora più vasto. Come l’individuo è un organo della società, così la tribù o la città – e l’umanità intera, sono solo una fase del potente organismo del cosmo.

In genere, le feste stagionali dei cosiddetti indigeni sono state descritte come sforzi per controllare la natura. È una interpretazione errata. V’è una grande volontà di controllo in ogni atto dell’uomo, e specialmente in quelle cerimonie magiche che si crede portino la pioggia, curino le malattie, o tengano lontane le inondazioni. Malgrado ciò, il motivo dominante di tutte le cerimonie veramente religiose (opposte alla magia nera) è quello della sottomissione all’inevitabilità del destino – e nelle feste stagionali questo motivo è particolarmente evidente.
Non si conosce finora alcun rito tribale che miri ad impedire la venuta dell’inverno; al contrario, tutti i riti preparano la comunità a sopportare, con il resto della natura, la stagione del freddo intenso. E in primavera, i riti non cercano di costringere la natura a far spuntare immediatamente il grano, i fagioli e le zucche per la misera comunità; al contrario, i riti consacrano tutti i suoi membri al lavoro stagionale. Il meraviglioso ciclo dell’anno con le sue difficoltà e i suoi periodi di gioia, viene celebrato, delineato e rappresentato come continuativo nel ciclo vitale del gruppo umano.

Il mondo della comunità mitologicamente istruita è pieno di molte altre figurazioni simboliche di questa continuità. Per esempio, i clan delle tribù di cacciatori americane, si consideravano in genere come discendenti da antenati metà-animale e metà-uomo. Questi antenati diedero origine non solo agli uomini del clan, ma anche agli animali dai quali il clan prende il nome; così i membri del clan “castoro”, erano cugini di sangue dei castori, protettori della specie e a loro volta protetti dalla saggezza animale degli abitanti del bosco.
Un altro esempio: l’abitazione, o la capanna di fango, dei Navaho del Nuovo Messico e dell’Arizona.
È costruita sullo schema dell’immagine navahica del cosmo, dove l’ingresso è rivolto a oriente. Gli otto lati rappresentano le quattro direzioni e i suoi punti intermedi indicano la sua mente e i suoi sentimenti, presi dalle circostanze esterne e dalle emozioni.
Ogni trave e ogni puntello corrispondono a un elemento del grande edificio che tutto abbraccia: terra e cielo.
E poiché l’anima stessa dell’uomo è considerata identica nella forma all’universo, la capanna di fango è una rappresentazione dell’armonia fondamentale dell’uomo e del mondo, e una evocazione del misterioso cammino sulla via della perfezione.
Ma vi è un altra via, diametralmente opposta a quella del dovere sociale e del culto popolare, la via di colui che vive per scelta o per emarginazione, in esilio al fuori dalla sua comunità e dalla quale egli è visto come ’un nulla’.
Dall’altro punto di vista, quello dell’esiliato o emarginato o escluso, tuttavia, questo esilio è il primo passo della sua nuova ricerca.
Ciascuno reca in se stesso il tutto che può essere ricercato e trovato dentro di sé.
Le differenze di sesso, età e occupazione non sono essenziali al nostro carattere, ma semplici costumi che indossiamo per un certo tempo sulla scena del mondo.
L’immagine intima dell’uomo non deve essere confusa con i vestiti. Noi ci consideriamo europei o americani o africani o figli del ventesimo o ventunesimo secolo, occidentali, civili e cristiani. Siamo virtuosi o peccatori.
Queste definizioni, però, non dicono cos’è essere un uomo, esse indicano solo i dati accidentali della nascita della provenienza e del ceto.

Cos’è la parte più intima di noi?
Cos’è la caratteristica fondamentale del nostro essere?
L’ascetismo dei santi del Medioevo e degli yoghi dell India, i misteri ellenistici le antiche filosofie orientali e occidentali, sono tecniche per spostare l’attenzione della coscienza dell’individuo dalla sua veste esterna a una visione intima personale e rispondente alle innate caratteristiche dell’individuo.
Le meditazioni iniziali dell’aspirante a questo solitario percorso staccano la sua mente e i suoi sentimenti dalle circostanze esterne della vita e lo guidano verso la sua parte più intima.
Egli medita: “Io non sono questo: né questo, né mia madre, né il figlio appena morto; il mio corpo, che è malato o vecchio; il mio braccio, l’occhio, la testa; né tutte queste cose messe insieme. Io non sono i miei sentimenti, né la mia mente, né il mio potere di intuizione.”
Da queste meditazioni egli è portato verso la propria profondità, raggiunge, alla fine, realizzazioni impenetrabili.
Nessuno può tornare da simili esercizi e considerare seriamente se stesso come il signor Tal dei Tali, della tale città in Europa o in qualunque altro circoscritto luogo del mondo.
La società e i doveri spariscono.
Il signor Tal dei Tali, che ha scoperto in se stesso la piena umanità, diventa chiuso e indifferente..

Questo è lo stadio di Narciso che si specchia nello stagno, del Buddha che siede in contemplazione sotto l’albero, ma non è lo scopo finale; è un passo necessario, ma non la meta.
Lo scopo non è di vedere, ma di capire ciò che effettivamente è questa essenza.
Solo allora si è liberi di vagare nel mondo proprio come l’essenza che abbiamo immaginato, cercato, voluto, realizzato e compreso. Qui si scopre che anche il mondo è permeato da questa essenza.
Quando si comprende che essenza propria ed essenza del mondo sono una cosa sola, la separazione, il ritiro, non sono più necessari.

Dovunque l’uomo, il viaggiatore, lo sciamano, il ricercatore o l’eroe si rechi, qualunque cosa faccia, è sempre in presenza della propria essenza, o meglio, intima consapevolezza fra sé e il mondo, poiché i suoi occhi adesso sono in grado di vedere. Non vi è più separazione.
E come la via della partecipazione sociale può condurre, alla fine, a una realizzazione del tutto nell’individuo, così la via dell’esilio porta l’eroe all’Io in tutto.
Inquadrata in tal modo, le questioni dell’egoismo o dell’altruismo scompaiono. L’individuo si è perso nella legge, ed è rinato nell’identità con la sua personale comprensione del significato totale dell’universo.
Per Lui, e solo per mezzo suo, il mondo è stato fatto, o meglio realizzato da lui stesso.
“O Maometto,” disse Iddio, “se tu non fossi esistito, non avrei creato il cielo”.

Ma qual è il compito e il fine del viaggio dell’eroe?
Oggi l’uomo non si riconosce più nel gruppo di appartenenza. Il proprio ego infantile viene trasposto in idea nazionale e imposto come bandiera che divide e non unisce, non si riflette e non si trova dentro le grandi religioni o mitologie del passato, che per mantenere il loro controllo su di lui si sono basate su imposizioni o congetture superate oggi dalla scienza e dalla storia.

L’impresa che l’eroe oggi deve compiere non è più quella del secolo di Galileo, dove allora v’era tenebra oggi vi è luce, dove era luce oggi vi è tenebra.
L’eroe moderno deve cercare di riportare alla luce La sua Atlantide, o sogno perduto, che è sepolto nei miti del genere umano.
Ma oggi anche questi miti e questi misteri; i loro simboli non interessano più la nostra psiche.
La conoscenza di una legge cosmica, che serve tutta l’esistenza e alla quale l’uomo stesso deve sottomettersi ha oramai da tempo superato gli stadi mistici iniziali rappresentati dall’antica astrologia, ed e’ ora semplicemente accettata in termini meccanici come cosa naturale….
Non il mondo animale, né quello vegetale e neppure il miracolo delle armonie delle sfere, bensì l’uomo stesso è ora il mistero cruciale!
L’uomo è quella presenza estranea con la quale le forze dell’egoismo devono venire a patti e per mezzo della quale l’io deve essere crocifisso e resuscitato, per fare di lui un immagine che società stessa possa utilizzare come simbolo di proprio rinnovamento.
L’uomo , inteso tuttavia, non come “Io”, ma come “Tu”: perché gli ideali e le istituzioni temporali di nessuna tribù, razza, continente, classe sociale o secolo, possono costituire la misura di quella meravigliosa esistenza inesauribile, che e’ la vita in tutti noi.
Non e’ la società che deve guidare e salvare l’Eroe, ma precisamente il contrario.
E cosi’ ognuno di noi partecipa alla prova suprema -porta la croce del redentore- non nei momenti gloriosi delle grandi vittorie della sua tribù, ma nei silenzi della sua disperazione.

Stefano Paoletti
Per Mythos & Logos
www.mythoselogos.it

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