sabato 31 agosto 2019
Il mistero di Orione
Il 22 marzo 1993, i media di tutto il mondo annunciarono con grande risalto che Rudolf Gantenbrink, uno sconosciuto ingegnere tedesco esperto di robotica, aveva compiuto la più significativa scoperta archeologica del secolo. Assunto dall’Istituto archeologico tedesco del Cairo per migliorare la ventilazione della Grande Piramide, Gantenbrink aveva inviato un minuscolo robot comandato a distanza, UPUAUT 2(in egiziano antico “colui che apre la via”) su per il condotto meridionale della Camera della Regina. Arrestatosi dopo circa 65 metri, il robot rimandò attraverso un video le immagini di quella che pareva una porticina con una fascinosa fessura al di sotto. Il condotto misura 20X20 centimetri circa.
Ma allora lo scopo dei condotti di aerazione non doveva essere quello di areare, ma qualcosa d’altro.
http://www.acam.it/il-mistero-di-orione/
mercoledì 28 agosto 2019
Il tarantismo
Il Tarantismo è un fenomeno legato alla figura del ragno; uomini o donne (in prevalenza), durante il lavoro nei campi o in altri momenti della giornata, se morsi dal ragno (lycosa o latrodectus), cadevano in uno stato di prostrazione fisica e psichica. Non esistevano cure mediche. L'unica cura erano i suoni e i canti (e altri rimedi, poi scomparsi nei secoli: acqua, drappi colorati, funi, ecc.). Dopo giorni di suoni e "balli", si riusciva a guarire, salvo essere "rimorsi" l'anno successivo. A volte il rimorso continuava per anni, a volte per tutta la vita.
Il tarantismo è caratterizzato da un elemento simbolico: il ragno. Secondo la mitologia e la credenza popolare, il ragno pizzicava le donne e gli uomini intenti a lavorare nei campi, ma anche in altri momenti della giornata, e, a causa del suo morso, l'uomo o la donna cadevano in uno stato di prostrazione, di annichilimento, di torpore, come in una sorta di vuoto interiore, di disinteresse verso il mondo esterno, insomma, di apatia e noia verso sé e le cose che gli stavano intorno, tanto da impedirgli qualsiasi attività umana, dal lavoro alla socializzazione. Altri tarantati, invece, si sentivano spezzati, schiantati, minuzzati, rotti, tramazzati, in altre parole fisicamente e mentalmente distrutti.
Attenzione, perché a mordere non è solo il ragno. Il morso può provenire da diverse fonti, in particolare da serpenti, scorpioni, lucertole, ma anche da un semplice ago. Il ragno allora può essere considerato una figura mitologica, che nell'immaginario collettivo diventa il solo animale responsabile della malattia del tarantismo. Da qui il concetto di autonomia simbolica del tarantismo, elaborato da Ernesto De Martino.
Gli scorpioni sono uno dei nove ordini degli Aracnidi, difatti in alcuni paesi del Salento il ragno viene chiamato, in dialetto, scarpione, mentre il geco, una sorta di lucertola che oggi popola massicciamente il territorio salentino (e che trova riscontro, non a caso, nell'arte di Gaudì, celebre architetto spagnolo), viene definito scientificamente come Tarentula mauritanica, dunque entrambi gli animali sono strettamente legati alla figura del ragno.
Infatti, per usare le parole di Ernesto De Martino, il tarantolismo è un fenomeno che ha a che fare con il morso del ragno, di cui la Lycosa tarentula è la specie più diffusa nelle campagne salentine, mentre il tarantismo richiama l'elemento simbolico del ragno.
Fenomeni simili al tarantismo si sono riscontrati, nella storia, in molti altri popoli e territori, a partire da tutto il Meridione, tant'è che la tarantella si chiama così perché è la musica del piccolo ragno, ed esistono tarantelle in Calabria, Sicilia, Lucania, Campania, a dimostrazione del fatto che il simbolo della taranta operava anche in quei territori; ma anche altri popoli hanno conosciuto il tarantismo, come quello spagnolo, sardo e toscano. Nella tradizione sarda l'argia è un animale, simile ad un ragno, che quando morde provoca alla persona uno stato di malessere curabile con le musiche e i canti. Analogamente, in Spagna esisteva un fenomeno simile al tarantismo, tanto che lo studioso Sebastian Covarrubias, nel 1611, scriveva in rifertimento alla tarantula: "se cura al son de instrumentas, porqué el paciente moviéndose al compàs del son, disimula su mal" ("si cura con il suono degli strumenti, perché il paziente muovendosi al ritmo dei suoni, nasconde il suo male", da qui le affinità con il morso e il rimorso).
Solo nella penisola Salentina il tarantismo è arrivato fino alla fine degli anni '60, con alcuni casi isolati giunti fino ai primi anni 2000 e si è caratterizzato come un fenomeno diffuso, contornato da miti e leggende, sviluppato intorno a figure pagane e religiose esimbolicamente autonomo.
PERCHÉ "TARANTA"? CHE SIGNIFICA QUESTO NOME?
La prima fonte che ci viene in soccorso è il De Tarantula di Giorgio Baglivi dove leggiamo che il termine fu preso probabilmente dalla città di Taranto, dove il fenomeno del tarantismo fu probabilmente già conosciuto da greci e romani, che avevano colonizzato la città.
Secondo la mitologia, Taranto fu fondata da Taras, figlio di Poseidone e della ninfa Satyria nonché genero del celebre Minosse. Taras, prima di allontanarsi da casa disse a suo padre: “aspetta 5 minuti che mo' arrivo” e si diresse a sulla costa jonica per fare un sacrificio in suo onore e fargli così una sorpresa, quando ad un certo punto gli apparve un delfino. Al ché disse “quest'apparizione è di buon auspicio, quasi quasi mi fondo una bella città” e fondò Saturo che poi fu chiamata Taranto dagli spartani, proprio in onore di Taras.
Ma a leggere il vocabolario greco-italiano, si vede che oi tarantinoi vuol dire lanciatori di giavellotti e i Messapi (cugini degli Iapigi), erano grandi lanciatori di giavellotti, quindi è probabile che il nome sia preso da loro, o meglio, dalla loro specialità.
Invece secondo la Historia Sicula di Goffredo Malaterra (1604), il termine taranta è omofono con Atalanta, mitica campionessa di corsa, tanto che, per quanto era veloce, riusciva pure a correre sull'acqua. Infatti la Lycosa tarentula è un ragno molto veloce, proprio come la mitica Atalanta.
ORIGINI DEL TARANTISMO
Ernesto De Martino |
tarantismo è un fenomeno dalle antichissime origini, secondo alcuni si può collocare nel mondo greco e magnogreco, ma anche in quello messapico autoctono.
Tuttavia il più importante studioso del fenomeno, Ernesto De Martino, nella sua celebre opera La terra del rimorso, sostiene che il tarantismo ha avuto origine tra i secoli IX e XIV, ossia tra il periodo di espansione mussulmana nel Mediterraneo e il ritorno della cultura occidentale.
De Martino, attraverso la ricerca sul campo e lo studio della letteratura legata al tema del tarantismo, ha collocato le origini del fenomeno in pieno medioevo, senza però trascurare i forti legami intercorrenti tra alcune pratiche sciamaniche dell'Africa settentrionale e altre pratiche molto simili al tarantismo, in Sardegna e Spagna, che avevano con il fenomeno salentino forti affinità, legate soprattutto al tema della musica e della danza come esorcismo del morso avvelenatore di una specie animale miticamente riplasmata.
In tema di collegamenti tra la pratiche sciamaniche dell'Africa settentrionale, altri riti di possessione e tarantismo, un altro studioso, Silvio Marconi, ipotizza un'origine ben più datata del tarantismo, attraverso l'analisi dei sincretismi afromediterranei, ritenendo che, seppur formalmente corretta l'ipotesi del De Martino, questa, all'epoca, non era sorretta da studi sincretici.
Sincretismo: analisi diretta a conciliare elementi culturali, filosofici o religiosi eterogenei appartenenti a due o più culture diverse.
LA STORIA DI ARAKNE
A proposito di sincretismi, per comprendere appieno il fenomeno del tarantismo bisogna parlare del mito di Arakne.
Figlia di Idmone, vissuta a Colofone, nella Lidia, era famosa per la sua estrema abilità di tessitrice e ricamatrice. La sua abilità nel tessere le tele era considerata da tutto il paese come una dote divina, tanto che Arakne, molto fiera della sua bravura, un giorno ebbe l'imprudenza di affermare che neanche la dea Atena (pure lei famosa per la sua abilità di tessitrice) avrebbe potuto superare la sua destrezza.
Ma la dea, che di certo non la mandava a dire, si presentò da Arakne, sotto le spoglie di una vecchia chiedendole di ritirare la sfida e di accontentarsi di essere la migliore tessitrice tra i mortali, ma Arakne le rispose di tutto punto che se Atena non voleva accettare la sfida era perché aveva paura di essere battuta. Atena, non vedendoci più dalla rabbia, si rivelò e dichiarò aperta la sfida.
Si posero una di fronte all'altra ed iniziarono a tessere le loro tele. Atena aveva deciso di rappresentare le grandi imprese compiute dalla dea ed i poteri divini che le erano propri, mentre Arakne raffigurava gli amori di alcuni dei, le loro colpe ed i loro inganni.
Alla fine della gara entrambe le donne mostrarono i loro lavori. Quello di Arakne era talmente bello da superare di gran lunga il lavoro di Atena, tanto che questa prese la tela di Arakne e la distrusse in mille pezzetti. Non contenta, prese la spola e iniziò a colpirla così ferocemente da farla sanguinare. Arakne, sconvolta dalla reazione della dea, scappò via e tentò di suicidarsi cercando di impiccarsi ad un albero. Ma Atena non la volle morta, anzi! Decise di condannarla a tessere la tela per il resto dei suoi giorni e a dondolare dallo stesso albero dal quale voleva uccidersi. E siccome Atena era ancora offesa, la condannò a filare non con le mani ma con la bocca, e fu così che la trasformò in un gigantesco ragno.
LE DUE VERSIONI DEL MITO DI ARAKNE
Arakne in un'incisione di Gustave Dorè |
Il mito di Arakne è stato in qualche modo riscritto nella lontana tradizione orale salentina, ponendo come elemento principale l'amore e l'odio. L'amore per un uomo che abbandona la giovane Arakne e l'odio per un amore perduto, un tradimento. Infatti si racconta che Arakne sia stata innamorata di un marinaio, che poi l'ha abbandonata, e fu trasformata in ragno per vendicarsi con gli uomini. Questa storiella è molto diversa da quella che ci racconta Ovidio nelle Metamorfosi.
Ovidio (Metamorfosi, IV, 23 e ss.) racconta che "(...) Accetta Minerva la sfida (...) la dea dai biondi capelli si corrucciò del felice successo e stracciò la trapunta tela che scopre le colpe dei numi e colpì con la spola di citoriaco bosso più volte la fronte di Aracne. Non lo patì l'infelice: furente si strinse la gola con un capestro e restò penzoloni. Atena, commossa, la liberò, ma le disse: - Pur vivi o malvagia, e pendendo com'ora pendi. E perchè ti tormenti nel tempo futuro, per la tua stirpe continui il castigo e pei tardi nepoti -. Poscia partendo la spruzza con sughi di magiche erbette: subito il crime toccato dal medicamento funesto cadde e col crine le caddero il naso e gli orecchi: divenne piccolo il capo e per tutte le membra si rimpicciolisce: l'esili dita s'attaccano, invece dei piedi, nei fianchi: ventre è quel tanto che resta, da cui vien traendo gli stami e, trasformata in un ragno, contesse la tela di un tempo".
I RIMEDI ALLA MALATTIA DEL TARANTISMO
La medicina era inerme nei confronti del morso del ragno, i medici scuotevano il capo desolati quando si presentava avanti a loro un tarantato, non sapendo che fare, come curarlo, anche perché si scoprì che il morso vero e proprio del ragno provocava solo infezioni a livello cutaneo, al massimo una sindrome da avvelenamento, ma mai uno stato di alterazione psico-fisica così evidente e profondo. Si scoprì, sin dall'antichità, che l'unica medicina efficace erano i suoni e i canti, quelli della tarantella (che prende il nome proprio dalla taranta) chiamata in Salento pizzica e poi successivamente a sua volta scissa in due tronchi: la pizzica-pizzica quale tipica musica di divertimento e la pizzica-tarantata quale musica di guarigione.
Tuttavia l'accostamento tarantismo/pizzica-tarantata non è così semplice.
Anzitutto perché di tarante (ragni) ce n'erano in abbondanza. Qualcuno sosteneva che ci fossero ben 40 tipi di tarante (che poi, si dice, scomparvero a causa dell'uso di diserbanti e sostanze chimiche in agricoltura e a causa della massiccia bonifica dei campi avvenuta durante le varie riforme agrarie). Poi va detto che non tutti i morsi erano uguali, si perché ogni morso (ossia, ogni taranta) aveva una sua caratteristica e ricercava un tipo ben determinato di suoni che a volte non coincidevano con quelli tipici della pizzica. Si dice che alcuni tarantati si sentissero scazzicati (questo è un termine molto frequente nel tarantismo, che sta ad indicare una sorta di risveglio/reazione alla medicina) da nenie funebri (parlando, in questo caso, di taranta muta), da ritmi più blandi o molto più sostenuti, da musiche leggere provenienti da fonti esterne (come, di recente, tv e radio) ma anche da suoni che provenivano dai mezzi più disparati ed inconsueti: una pentola, la spalliera di un letto, un pezzo di ferro, ecc.
Comunque, la maggior parte delle tarantate si scazzicava con la musica della pizzica-tarantata. Quando i suonatori trovavano il giusto ritmo e la giusta melodia, la tarantata (parleremo di tarantata, perché erano in maggior modo le donne ad essere colpite da tale fenomeno) usciva dal suo torpore e iniziava a muoversi, eseguendo quello che gli studiosi chiamano ciclo coreutico-musicale, cioè una serie di fasi standard:
1. Posizione del ragno: la donna partiva dalla posizione di riposo, stesa a terra, quasi a voler imitare la taranta che la possedeva;
2. Inizio del ballo da stesa: in questa fase iniziava a muoversi strisciando per terra (è in questa fase che la donna iniziava dei movimenti con la testa seguendo il ritmo del tamburello, movimenti che, secondo alcuni, provocavano uno stato di trance).
3. Ballo in piedi: La donna compiva dei giri intorno ad un lenzuolo, utilizzato per indicare il perimetro cerimoniale, spesso sbattendo i piedi per terra ed infine, dopo un volteggio, tornava nuovamente al suolo. Talvolta la tarantata poneva l'orecchio davanti agli strumenti, quasi per catturare i suoni da essi prodotti, in modo che la taranta potesse subirli maggiormente e, così, accelerare la cura. In questa fase, in cui la donna si alza in piedi, sbatte i piedi per terra, corre lungo il lenzuolo bianco, si dimena, si avvicina ai suonatori per catturare i suoni, è la fase in cui la donna combatte il ragno, cerca la guarigione.
Terminati i balli nell'arco della giornata, la tarantata, esausta, cercava il meritato riposo. Ma ballare per un giorno intero non significava guarire. Occorrevano, per alcune tarantate, anche due o tre, persino cinque giorni di cure. Ogni taranta aveva la sua resistenza e alcune erano alquanto forti! Dunque i balli potevano durare a lungo. Ciò comportava che i suonatori dovevano risiedere in casa della tarantata per tutto il tempo necessario. E considerando che i suonatori erano anche lavoratori (contadini, artigiani, commercianti, anche preti), puoi immaginare che questo loro lavoro dovesse essere retribuito. E, dunque, è altrettanto facile immaginare che la famiglia della tarantata subiva oltre alla beffa anche il danno dovuto alle enormi cifre che doveva sborsare per pagare i suonatori, per non parlare delle giornate di lavoro che la tarantata e la sua famiglia perdevano durante il tempo necessario per la guarigione. Dunque anche una sola giornata di lavoro persa significava non potersi permettere di comprare da mangiare, figurarsi di pagare i suonatori! Insomma, le famiglie dei tarantati vivevano un vero e proprio dramma esistenziale.
Il tarantismo era un male, una sofferenza sia per le tarantate che per i familiari, è per questo motivo che molte persone giudicano ancora oggi con disappunto quei gruppi musicali che mostrano il "ballo della tarantata" senza spiegare agli astanti cos'era il fenomeno nella realtà, quindi spettacolarizzandolo e rendendolo un momento di intrattenimento piuttosto che di informazione.
GLI STRUMENTI UTILIZZATI NELLA TERAPIA MUSICALE DEL TARANTISMO
Le musiche che scazzicavano i più dei tarantati erano quelle della pizzica-tarantata, la quale si eseguiva con lo strumento tipico della tradizione contadina: il tamburello, suonato – contrariamente a quanto si crede oggi – quasi sempre da una donna (e vedremo come la donna ha un ruolo fondamentale nel simbolismo del tarantismo...).
Ad accompagnare il tamburello vi erano altri strumenti provenienti dalla tradizione contadina o anche da quella nobiliare: rebecchina, zampogna, fistola, chitarra, lira, cetra, bombarda, clavicembalo, violino, arpa e liuto.
Dall'800 in poi venne introdotto anche l'organetto, entrato prepotentemente nella cultura musicale contadina di tutto il Meridione.
Tuttavia il De Martino, quando vide con i suoi occhi, nel 1959, un rito di guarigione di una tarantata, osservò che gli strumenti utilizzati si erano, per così dire, impoveriti, difatti nell'ultimo periodo di sopravvivenza del tarantismo si usavano: tamburello, chitarra, violino e organetto.
ALTRI OGGETTI USATI NEL RITUALE CURATIVO
Nel complesso del ciclo coreutico-musicale particolare importanza assumevano alcuni oggetti, tra cui spiccano i drappi colorati. Infatti i colori nel tarantismo assumono la stessa importanza della musica.
Alcune tarante erano suscettibili ai colori forti, come il rosso o il giallo. Per esempio, una tarantata studiata da De Martino, Rita di Alezio, durante la fase del ri-morso non poteva sopportare il colore giallo, tanto che non poteva mangiare né i tuorli d'uovo né le cozze tarantine, il cui colore richiamava quello della sua taranta, ma nel resto dell'anno non aveva problemi a mangiarne.
Altre tarante venivano scazzicate dai colori più tenui, come il celeste o il rosa. Il nero, invece, era il colore odiato da ogni tarantata. Ad ogni modo, se i familiari non riuscivano ad individuare i colori, la tarantata, a volte, non si muoveva nemmeno, e dunque si può immaginare quanto fosse difficile individuare il mix di musica e colori per riuscire a scazzicare la taranta.
Una volta individuato il colore associato alla particolare taranta, la tarantata, durante il ballo, giocava con la stoffa colorata, come poteva anche distruggerla violentemente. Tutto ciò fa intuire che il colore e la reazione della tarantata avevano a che fare con la storia di vita pregressa, con una particolare vicenda che ha suscitato un sentimento represso o, anche, con il simbolismo mitico della taranta, il cui veleno provoca così tanta sofferenza.
GLI ELEMENTI SIMBOLICI NEL TARANTISMO
IL RAGNO
Il simbolo del ragno ha sempre stimolato l'immaginario umano, tanto da entrare a pieno titolo in numerose religioni.
Pensa alla mitologia africana o anche a quella dei Cherokee Nordamericani, dove si racconta che un ragno, assunte le sembianze umane, porta il fuoco dal cielo agli uomini, creando, così, la prima civiltà, o pensa ad alcuni popoli indiani, dove il ragno rappresenta l'ordine cosmico, contrapposto al caos, perché tesse perfettamente la sua tela, creando figure geometriche lineari e armoniose.
Dunque il rapporto tra l'uomo e il simbolo del ragno può essere definito un rapporto primitivo e archetipico.
LA FUNE
Nel rituale del tarantismo era prevista una fune che i parenti della tarantata ponevano al centro della stanza. Su questa fune si compiva una parte del rituale, poi caduto in disuso nel corso del tempo, che prevedeva che la
tarantata si appendesse ad essa come per imitare il ragno. A volte, invece, veniva utilizzata un'altalena (in mancanza di fune, o comunque per evitare spiacevoli cadute...), ma sostanzialmente è la stessa cosa.
L'elemento simbolico della fune è molto importante nel rituale del tarantismo, tanto che oggi è rimasto ad Acaya, piccola cittadella fortificata a pochi passi da Lecce, un detto popolare: ci nu truei lu filu alla taranta nu ci balla (se non trovi il filo alla taranta, non balla), il che significa propriamente che occorre trovare la musica giusta per il tipo di taranta che ha pizzicato, insomma, il filo indica la giusta armonia che dà il via alla guarigione, e dunque che riporta tutto all'ordine, contrapposto al disordine che regna nella tarantata durante la malattia.
Del resto non è nel linguaggio comune l'espressione perdere il filo del discorso? l'espressione significa proprio perdere l'ordine delle idee, insomma, passare dall'armonia al caos.
IL LENZUOLO
Il lenzuolo, altro simbolo del rituale di guarigione, ha forma rettangolare e indica il perimetro cerimoniale. E non è un caso che si usi un lenzuolo. La tela realizzata da Atena aveva la medesima forma, una forma che racchiude uno spazio definito, i cui angoli sono "propizi a interpretazioni magiche, così nelle case come nei campi. Essi riassumono l'essenza del “confine”: mettere qualcosa ai quattro angoli è un surrogato altrettanto efficace del cerchio magico" (Aber II, in G. Devoto, Origini indoeuropee, Firenze, 1962). Difatti Atena pone quattro storie mitiche (Rodope di Tracia; la regina dei Pigmei; Antigone; Cinira) ai quattro angoli della tela, il che sta a significare la sacralità dello spazio, di uno spazio ben definito.
LA SPIRALE
Arakne tesse ben 21 storie che raccontano le violenze e gli stupri degli dei sulle donne e utilizza la forma a spirale, la quale ha la caratteristica di far apparire quasi tridimensionali le figure in essa contenute.
La spirale ha un simbolismo molto forte, anzitutto è comunemente considerata la forma della via lattea e di altre galassie, ma ha una sua valenza simbolica anche nella matematica. Difatti oggi si sa che la natura ha un suo ordine prestabilito, immutabile, fisso: fiori, semi, frutti, animali, nonché le ossa delle dita umane seguono una precisa ed immutabile sequenza che, rappresentata graficamente, assume la forma di una spirale.
Tale sequenza di numeri, chiamata con non poca fantasia sequenza di Fibonacci, in onore del matematico pisano che la scoprì, stabilisce che il rapporto tra due termini successivi si avvicina molto rapidamente al numero decimale, il numero Phi, i cui primi termini sono 1,618034.
Ma molto prima di Fibonacci i popoli che hanno vissuto in Grecia, in Egitto e anche in Salento usavano la cosiddetta Sezione Aurea, o proporzione aurea, che si basa proprio su quel numero. Tale rapporto è stato considerato, sin dalla sua scoperta, come rappresentazione della legge universale dell'armonia.
Infatti la proporzione aurea fu utilizzata per costruire i Dolmen, le Piramidi egizie, il Partenone di Atene, diverse sculture e, recentemente, il Palazzo dell'ONU e la Piramide del Louvre. Secondo i dettami della Geometria Sacra, l'utilizzo architettonico della spirale o della Sezione Aurea consentirebbe all'edificio o alla statua di essere in armonia con le leggi naturali e quindi di trarre energia cosmica a vantaggio degli abitanti.
realizzò una tela di forma a spirale, ossia una forma armoniosa, infinita e magica. Tanto magica e fatta bene che le costò una tremenda punizione, la punizione di tessere per tutta la vita una tela ove catturare le sue prede.
E qual è la forma tipica della ragnatela? La ragnatela più conosciuta, quella che vediamo spesso sugli alberi, nelle cantine, nelle case abbandonate, è quella costituita da una struttura aerea planare che presenta dei fili di sostegno radiali, connessi a fili di struttura perimetrali, sui quali si avvolge in forma di spirale il filo di seta appiccicosa usato per la cattura delle prede.
Difatti Arakne, divenuta ragno, popola la terra in tante sue specie (Alcuni contadini sostenevano che vi fossero almeno 40 tipi di tarante), tessendo la ragnatela per catturare le sue prede e mordendo l'uomo come una sorta di punizione della punizione.
IL TARANTISMO, TRA LETTERATURA E SUPPOSIZIONI
La letteratura studiata dal De Martino (Sertum Papale de venenis di Guglielmo De Marra del 1362, Historia Sicula di Goffredo Malaterra del 1604, ecc.) ci racconta che il morso di un ragno provoca nei malati uno stato di prostrazione curabile solo con i suoni, con melodie diverse a seconda del tipo di ragno e della personalità del soggetto curato. Dunque il fenomeno, raccontato sin dal XII secolo, ha già una sua struttura, un suo simbolismo ben radicato e una diffusione territoriale. Tutti elementi che ci fanno pensare che il tarantismo fosse pienamente operante già prima del medioevo.
Inoltre non si può trascurare che pochi decenni fa è stata scoperta, a Porto Badisco (Otranto), la Grotta dei Cervi, risalente al neolitico, sulle cui pareti vi sono circa 3000 segni lasciati dall'uomo, fatti con guano di pipistrello e ocra rossa.
questi segni uno in particolare assume una particolare importanza nell'immaginario collettivo per la rivalutazione del tarantismo quale fenomeno dalle antiche origini: la Divinità danzante (chiamata anche scimietta o sciamano), la quale è stata disegnata nell'atto del ballare, con due serpentelli tra le gambe. Torna il concetto del serpente (che morde) e dell'uomo (che balla).
Ovviamente questi disegni, ancora in fase di studio, non spiegano le origini del tarantismo, ma possono rappresentare uno spunto per una riflessione sul tarantismo da diversi punti di vista.
In aggiunta a ciò va detto che Padre Atanasio Kircher, un gesuita vissuto nel '600, raccontò di un esperimento singolare che coinvolgeva un ragno vero e proprio. Scrisse, difatti, che nel palazzo ducale di Andria, la duchessa volle che una taranta fosse catturata e posta in una vaschetta colma di acqua. All'incalzare dei suoni, la taranta iniziò a muoversi e ad eseguire un vero e proprio ballo, che interrompeva ogni qual volta ma musica si fermava.
Vera o no che sia questa storiella, si trovano molti legami tra la figura ragno, la donna, l'amore, la morte e il ballo come forma di guarigione-corteggiamento. Queste figure sono essenziali per la comprensione delle origini del fenomeno, perché trovano riscontro nell'atavico concetto di paura/amore del ragno, per cui l'uomo adotta dei comportamenti inconsci atti ad imitare/allontanare il ragno. Non è un caso che Arakne fosse donna, che la maggior parte dei tarantati fosse di sesso femminile e che la Dea che ha trasformato Arakne in ragno fosse, appunto, donna. L'elemento femminile è essenziale non solo per comprendere il fenomeno del tarantismo e la mitologia ad esso legato, ma anche per comprendere il simbolismo archetipico che sta dietro lafigura femminile. La donna come ragno che cattura le sue prede e, in alcuni casi, le uccide. La donna come essere divino, simbolo di bene e di male. Non a caso gli dei della saggezza e della discordia sono donne: Atena ed Eris. Per non parlare poi della madre-terra, chiamata nella mitologia greca Gea, una donna (mentre Demetra, sempre donna, era la dea della fecondità della terra).
Il tarantismo è stato spesso bollato come isterismo, possessione demoniaca o più semplicemente come malattia. Anche oggi giorno. Anche nonostante gli studi condotti dal De Martino e altri autori contemporanei. Se cerchi su internet troverai qualche descrizione del tarantismo come di un fenomeno di isteria. L'isteria, però, dovrebbe colpire quelli che parlano senza conoscere il fenomeno. Ridurre il tarantismo a malattia significa impoverire un istituto, una complessa trama fatta di miti e riti, credenze, leggende, assunti dalla collettività e assimilati nei millenni di storia, come una semplice forma di sfogo o, peggio, di sofferenza personale. Ma la sofferenza personale, qui, è la sofferenza di un popolo a contatto con tanti popoli. E' la sofferenza accumulata nella storia e che, con il tarantismo, trova l'esternazione di un male millenario, il perpetrarsi di un rito, una possibilità di redenzione, di purificazione, di equilibrio tra il ragno-negativo e il ragno-positivo.
I PERSONAGGI-CHIAVE DEL TARANTISMO
Uno dei personaggi più importanti del secolo passato è sicuramente il maestro Luigi Stifani di Nardò, considerato da tutti come il medico delle tarantate.
Nato a Gallipoli il 15 febbraio 1914, si trasferì ancora fanciullo a Nardò, ove iniziò a seguire il padre nel lavoro dei campi. Ma la vita da contadino non faceva per lui, tanto che all'età di 11 anni iniziò l'attività di barbiere, cominciando a tagliare i capelli ai contadini, casa per casa. Finalmente nel 1934 aprì un salone tutto suo.
Luigi Stifani |
In questo periodo Stifani sviluppò anche la passione per la musica. Nelle vicinanze del suo salone viveva il maestro Michele, suonatore di mandolino. Luigi iniziò ad imitarlo provando i movimenti sul proprio braccio, tanto che piano piano imparò gli accordi.
E fu così che iniziò a suonare per le tarantate del suo paese, e a sviluppare una sorta di pizzica-pizzica molto più veloce, che lui chiamava l'indiavolata, che pare funzionasse molto bene con alcune tarantate.
Nel 1937 ebbe a svolgere il servizio militare in grecia. Si trovava a Portolago, sul mar Egeo quando ad un certo punto sentì una musica. Vide che un uomo, apparentemente tarantolato, si arrampicava su una corda (anche qui, in Grecia, ritroviamo l'elemento simbolico della fune...), al suono di mandolini e tamburi, ma senza trovare alcun sollievo. Preso il mandolino, diede il via alla sua indiavolata e, dopo ore di ballo, finalmente l'uomo riprese conoscenza e lo ringraziò per averlo guarito. Fu in quell'occasione che Luigi comprese il potenziale della sua musica, tanto che al suo ritorno a Nardò acquistò un violino che imparò grazie alla tecnica appresa con il mandolino e iniziò a comporre le sue opere rimaste ormai nella storia della musica popolare salentina.
E fu così che iniziò la sua attività di guaritore delle tarantate, tanto che presto fu soprannominato il dottore delle tarantate. Tale appellativo fu più che azzeccato, visto che Stifani non solo operava sul campo con le sue melodie, ma aveva sviluppato una conoscenza tale da riconoscere subito una tarantata e da capire, più o meno, entro quanto tempo sarebbe guarita, tanto da far restare di stucco anche Ernesto De Martino, che comprese subito l'enorme conoscenza di quest'uomo del fenomeno del tarantismo. Ma a volte anche Stifani restava perplesso di fronte ad alcuni fenomeni, come quello del piccolo Franco, che a soli sei mesi subì un male in tutto e per tutto simile a quello del tarantismo.
E' grazie a Stifani che oggi possiamo conoscere molti aspetti del tarantismo, non solo dal punto di vista scientifico, ma anche dal punto di vista umano. Difatti nel corso della sua vita tenne un diario che lui stesso chiamò "Elenco del tarantolismo – Biografie delle tarantolate di Nardò e della provincia e fuori provincia". Nel suo diario, edito da Aramiré (lo trovi qui), sono contenuti moltissimi spunti che hanno permesso a ricercatori e studiosi di tarantismo di delineare i confini di questo fenomeno e di comprendere molti dei suoi aspetti. Il contributo di Stifani, dunque, è preziosissimo nella comprensione del tarantismo, anche perché Stifani ha vissuto in prima persona non solo le vicende connesse alla malattia (conoscendo buona parte dei malati), ma anche il rituale di guarigione e tutto ciò che ne consegue, come la devozione a San Paolo, la visita a Galatina (città molto vicina a Nardò), il rimorso.
Uno dei personaggi più importanti che hanno accompagnato Luigi Stifani nella sua opera curativa è certamente Tora Marzo, anch'essa di Nardò.
Tora Marzo |
Tora conosceva molti ritmi del tamburello e un numero impressionante di melodie e canti, da quelli più propriamente festivi a quelli di lavoro alle nenie funebri.
Di Tora Marzo si racconta che fosse una donna minuta, piccola di statura, ma energica, tanto che il suo tamburello risuonava per le vie della città così fortemente che ogni abitante di Nardò sapeva che in quel momento era lei a suonare.
Insieme ad altre suonatrici registrate dall'etnomusicologo Diego Carpitella alla fine degli anni ’50 (Addolorata Assalve, Grazia Zoccu, Laura e Leonide Pediò) testimonia di una lunga tradizione femminile nel suono del tamburello in Salento.
Infine pochi sanno che Giuseppe Mighali (in arte, Pino Zimba, per via della 'ngiuria della sua famiglia) apparteneva
Pino Zimba |
ad una famiglia di tarantati e di guaritori di tarantati. Il padre, per esempio, fu tarantato e lui stesso raccontò tempo fa che fu guarito dalla nonna, gli zii e un cugino, i quali improvvisarono un'orchestrina come metodo classico di guarigione.
Lo stesso Pino, da sempre cresciuto nel mito del tarantismo e nell'arte del suono del tamburello, guarì diverse tarantate, l'ultima delle quali nel recente anno 2000, ciò a riprova del fatto che in alcuni contesti il tarantismo è sopravvissuto, anche se ormai è del tutto scomparso.
Del resto proveniva da una famiglia di tarantati e guaritori di tarantati, così come ci racconta lo stesso Pino nel libro Zimba, voci, suoni ritmi di Aradeo, in cui è allegato un CD contenente 23 canti, registrati tra il 1976 e il 1978.
Pino Zimba ha rappresentato un ponte tra vecchio e nuovo, tra il tarantismo e il neo-tarantismo, tanto da essere uno dei personaggi chiave della riscoperta delle musiche del tarantismo, che spesso rappresentava sui palchi, con maestria e grande spirito di coinvolgimento.
IL MORSO E IL RIMORSO DEL RAGNO
"Né in qualunque paese, né in qualunque stagione dell'anno è velenosa la tarantella, ma nella Puglia soltanto, e nella estate principalmente sotto l'urente canicola. Nell'inverno se morde non offende; anzi è mirabile che quelle tarantelle che abitano i monti che conterminano colla Puglia se mordano non offendono, in qualunque stagione lo facciano. Sono nocive pertanto quelle che abitano i campi della Puglia e principalmente nella stagione della estate, poiché allora dagli urentissimi raggi del sole viene esaltato il loro veleno, e quindi messe in furore offendono qualunque loro si presenti. (...) Coloro che sono stati morsi dalla tarantella sentono una puntura non dissimile da quella che infligge l'ape o la formica. Dopo il morso la parte viene circoscritta da un circolo livido, o giallo o nero o di altro simile colore. Si presenta un dolore veementissimo, talora invece del dolore, stupore e questi sintomi sono varii, secondo il vario colore della tarantella, grandezza, esaltamento del veleno, temperamento del malato e simili (...)".
Così scriveva nel 1695 il medico Giorgio Baglivi, nella sua opera De tarantula, che potremmo definire una testimonianza, dalla prosa superba, del fenomeno del tarantismo in Puglia e nel Salento in particolare, avendo il Baglivi soggiornato lì per circa 2 anni allo scopo di studiare gli effetti del morso del ragno.
Ora, grazie all'antropologo Ernesto De Martino, sappiamo che il morso spesso è immaginario e che il ragno vero e proprio, trattasi di Lycosa o di Latrodectus, provoca solo effetti a livello cutaneo o, nel peggio, una sindrome da avvelenamento.
Ma dire che il morso è immaginario non deve indurvi a pensare che davvero le tarantate s'immaginassero il morso. Quando si parla di morso immaginario ci si riferisce ad un evento particolare che dà il via al fenomeno, che innesca la miccia, insomma, un fattore scatenante di quel complesso culturale-magico-mitico-religioso racchiuso nel termine tarantismo.
Il fattore poteva essere di qualsiasi natura e non si esclude che potesse trattarsi di un morso vero e proprio, proveniente anche da un altro animale o da altri oggetti.
IL BASILISCO
Per esempio molti tarantati dicevano di essere stati incantati o sfiatati da una serpe.
Un accenno merita il basilisco, una serpe che ha dato del filo da torcere a molte tarantate.
Insomma, il basilisco è un serpente mitologico alato e con le zampe di gallo che secondo alcuni storiografi sarebbe una serpe di circa 20 cm con uno straordinario potere di uccidere chiunque entrasse in contatto con il suo sguardo o con il suo fiato.
La leggenda vuole che il primo basilisco nasce quando un vecchio gallo nero depone un uovo che viene covato nel letame da un serpente o da un rospo.
La leggenda, però, non è originaria del Salento.
Il basilisco è conosciuto nel Nord Italia e in buona parte del Nord Europa e si dice che abbia origini orientali.
A complicare ulteriormente le cose ci si mette di mezzo anche la zoo(mito)logia.
Secondo alcuni zoologi, il basilisco ha una precisa corrispondenza con un animale a tutti noi noto: il camaleonte.
E' vero che il camaleonte è un animale esotico, che vive nelle regioni tropicali, tuttavia è innegabile che il clima del Salento abbia potuto favorirne la crescita, anche se ancora non è dato sapere con certezza quando e come sia potuto arrivare su questo territorio. Tuttavia alcuni elementi fanno associare il camaleonte alla figura mitologica del basilisco. Basta ricordarne solo 3: il soffio velenoso è paragonabile alla estrema rapidità con cui estrae la lingua per catturare gli insetti; come tutti gli animali a sangue freddo il camaleonte poteva essere paragonato ad un serpente; infine è un animale che cambia colore, e ora sappiamo che i colori assumono un particolare rilievo nel fenomeno del tarantismo.
Dunque il camaleonte era talmente strano e sconosciuto dai contadini da essere considerato in qualche modo magico o comunque portatore di sventure, al pari della taranta.
E dunque è possibile che il basilisco, con il suo fiato abbia scatenato le fantasie popolari e sia stato inserito in qualche modo nel simbolismo mitico-rituale del tarantismo.
Suggestiva è la testimonianza di una tarantata di Nardò, registrata da Ernesto De Martino, secondo la quale il basilisco la incantò e le apparve come in una visione, chiedendole di andare a Galatina, a chiedere la grazia a S. Paolo (tra poco vedremo la figura di S. Paolo neltarantismo), che, dalla fine del 1700 in poi, fu legato alla figura del basilisco, così come alla figura della taranta.
LA PUNTURA NEL TARANTISMO
Dunque ora sappiamo che il morso non proveniva solo dal ragno, ma da figure affini e sappiamo anche che a volte non si trattava di morso vero e proprio, ma di sfiato o di incantamento.
A complicare le cose ci si mette anche un altro simbolismo, quello della puntura. Eh già. Perché il morso poteva corrispondere alla puntura di uno scorpione (che abbiamo visto appartenere alla famiglia degli Aracnidi) o, persino, alla puntura di un ago o delle forbici di un arrotino.
Ciò però, come scriveva il De Martino "non deve far pensare alla taranta come ad una "nozione confusa", prodotto di cattive osservazioni e di scarso rispetto alle regole della coerenza: è vero invece che la tarantaubbidisce alla coerenza simbolica del mito e che la "nozione confusa" nasce soltanto nelle nostre menti di persone "istruite" quando ci ostiniamo a misurare la coerenza simbolica della taranta utilizzando la indebita unità di misura della coerenza naturalistica. Il principio unificatore del mito della taranta è l'orizzonte simbolico di un ragno che morde e insidia con il suo morso (...)" (E. De Martino, La terra del rimorso, pp. 60-61).
Dunque il morso può provenire da tante e diverse fonti, ma l'aspetto sintomatico appare essere lo stesso. Stesse sono le sensazioni di malessere come stesse sono le modalità di cura. Ecco perché secondo il De Martino si tratta di un inizio del male che trova ragione nel simbolismo della taranta, di quell'animale mitologico che appartiene ormai profondamente alla cultura delle genti salentine.
Il morso, dunque, è l'origine del male. Ma la cura non è la fine. No. La cura rappresenta solo un palliativo, un modo di esorcizzare il male, di far acquietare la taranta fino all'anno successivo, fino a quando, poi, tornerà a ri-mordere.
IL RIMORSO
La cura del tarantismo non è mai definitiva. Dopo essere stata morsa e dopo essere guarita grazie al ciclo coreutico-musicale-cromatico, la tarantata torna alla sua vita di tutti i giorni, fino all'anno successivo, fino al periodo in cui ha subito il primo morso. E in quel periodo subisce il ri-morso. Si, perché la taranta non morde solo una volta, ma continua a ri-mordere.
Il rimorso, nel nostro vocabolario, è l'origine del senso di colpa, è un'emozione con la quale sperimentiamo il ritorno di una colpa passata. Ecco, il rimorso, nel tarantismo, è la stessa cosa. E' il ritorno di una colpa, il perpetrarsi di un mito, un mito che torna sotto forma di rito. Così come il rito delle musiche e dei balli produce la guarigione dal morso della taranta, così il rito del morso produce un nuovo scuotimento, un nuovo stato di prostrazione.
Arakne torna a colpire, torna a far sentire con prepotenza la sua voce. Il simbolismo si rimette in moto, non a caso nella stagione estiva, quando la tela del ragno è secca e ne favorisce i movimenti, quando, per di più, la stagione dell'amore dei ragni è al suo culmine. Difatti tutti gli studiosi del tarantismo sono concordi nell'affermare che nella stagione estiva cade non solo il primo morso, ma anche il ri-morso.
Dunque una sorta di fattore emozionale, che agisce a livello inconscio e che coinvolge la collettività, porta a sviluppare la reintroduzione del male a cadenza ciclica, costante, coerente con il periodo in cui il simbolismo del ragno torna in azione.
Come dimenticare le parole di Salvatore Quasimodo che, commentando il video di Mingozzi, parlò con queste figure così evocative...
qui esce nella calura
il ragno della follia
e dell'assenza,
si insinua nel sangue
che conoscono
solo il lavoro arido
della terra, distruttore
della minima pace del giorno
Il rimorso, dunque, è un nuovo mordere ciclico e stagionale ma diverso per ogni tarantata. C'era, per esempio, chi guariva definitivamente in un paio d'anni e chi, invece, subiva il rimorso per tutta la vita.
Il ri-morso è un nuovo mordere, un mordere stagionale, ciclico, scandito dal tempo, immutabile e perenne.
IL RIMORSO NEL MITO DI ARAKNE
Il ri-morso va letto secondo due chiavi di lettura: il primo è quello della stagionalità, della memoria. Il secondo è quello del pentimento. Arakne si pente della sua tracotanza, del suo orgoglio e trasmette, in qualche modo, il suo pentimento all'uomo, in modo che anch'esso ricordi i suoi pentimenti. E lo fa in modo che ricordi come se si trattasse di un rito, di un rinnovamento della memoria, della rivitalizzazione del mito. Il rito è la riattualizzazione del mito. Ebbene il fatto che le tarantate subissero il rimorso (ossia il ripetersi della malattia del tarantismo) a distanza di un anno dal primo morso, spesso per molti anni, ci fa ricordare la nostra essenza di uomini, legati alla natura. Di uomini in quanto esseri che sbagliano, che si pentono, che si rinnovano, di uomini legati alla natura in quanto seguono il naturale scorrere del tempo, l'immutabile ciclo delle stagioni.
Il mito di Arakne non è solo un racconto tramandato oralmente per secoli, ma è anche un elemento archetipico dell'uomo, una paura inconscia, innata, che si sviluppa in millenni di storia e trova la sua valvola di sfogo in una cultura fatta di tante culture.
Pensa ad un evento della tua vita, un evento drammatico o anche solo triste. Ricordi come ti sentivi triste e vuoto? Il tuo cervello reagiva a questa situazione con il bagaglio culturale che aveva a disposizione, cercando un elemento simbolico per far fronte all'emergenza. E allora entrava in scena la cura. La cura poteva consistere in tante soluzioni: la consolazione da parte di una donna amata, la musica, gli amici, oggi la play station o la seduta da uno psicoterapeuta, o il cibo, l'alcool, la discoteca...insomma, una via di fuga da una situazione di conflitto interiore. Ebbene, in un periodo in cui non esisteva la play station e gli svaghi erano rari, in una società invasa dai miti, dalla simbologia, legata alla natura e al cosmo, in una società in cui ogni popolo aveva lasciato un pezzo di cultura, in cui il rapporto con il proprio inconscio era molto più forte, in cui il simbolismo religioso aveva lasciato il segno, ebbene...la taranta rappresentava il costrutto culturale cui fare riferimento, a livello conscio e inconscio, e il suo rituale era un rituale mutuato dalla mitologia (greca e di altre zone del Mediterraneo), dalla natura, dall'incastro tra gli archetipi umani e la cultura di riferimento.
In altre parole, il tarantismo è una specie di tetris. Il male personale s'incastra perfettamente con il mito, e ne discende una sorta di costruzione perfettamente allineata: il rito.
Dunque il mito di Arakne è la chiave di lettura del tarantismo. Ne rappresenta l'origine. I suoi elementi simbolici sono gli elementi tipici del tarantismo, i suoi racconti sono i racconti tramandati dagli antichi, interiorizzati e fatti propri dal popolo salentino. Come il cattolicesimo ha influenzato le nostre vite (il vincolo coniugale è l'esempio più lampante dell'influenza cattolica sulla società), così la mitologia ha influenzato le vite del popolo salentino. Ernesto De Martino, a tal proposito, racconta la vicenda di Carmela di San Pietro Vernotico. Una ragazzina morsa dalla taranta all'età di 13 anni. Secondo il padre della ragazza, Carmela ballava durante l'estate perché "(...) in questa stagione la tela del ragno era asciutta e tersa, e il ragno correva e danzava a suo agio sui fili, comunicando alla ragazza il suo moto: d'inverno, invece, la tela diveniva umida e molle e non sopportava la danza del ragno, che se ne stava immobile al centro della tela, lasciando in pace la ragazza. Per la stessa ragione, a parere della madre le tarantate non ballavano mai oltre l'una di notte, quando l'umidità notturna ammorbidisce la tela e spegne la mobilità del ragno" (E. De Martino, La terra del rimorso, 1961, p. 92).
Il simbolismo del ragno, in questo caso, è profondamente legato alla cultura della famiglia della giovane Carmela. Così è stato per tutto il Salento. E ciò è legato al mito di Arakne, all'archetipo del ragno
LA FIGURA DI SAN PAOLO NEL TARANTISMO
Paolo di Tarso (città della Turchia, anticamente chiamata Saulo) fu un santo controverso. Già, perché era un vero e proprio persecutore dei seguaci di Cristo, fino a quando, recandosi da Gerusalemme a Damasco, venne folgorato da una luce fortissima e udì una voce che gli diceva "Paolo, Paolo, perché mi perseguiti?", E lui: “Chi sei o signore?”; e la voce: “Io sono Gesù che tu perseguiti. Orsù alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare” (Atti 9, 3-7). Accecato, vagò per la città di Damasco e, dopo essere stato guarito da un cristiano, divenne un grande evengelizzatore.
All'apostolo delle genti è stata dedicata l'omonima basilica a Roma, fuori le mura aureliane, sulla via ostiense. La scelta di costruire la basilica fuori le mura e di allontanare San Paolo da San Pietro ha sempre destato numeroseperplessità, non fosse altro perché il caso romano non è isolato, difatti anche nella più piccola Galatina, città simbolo del tarantismo, votata ai Santi Pietro e Paolo, la statua di San Pietro si trovava dentro le mura della della Basilica, mentre la statua di S. Paolo era fuori "le mura", ossia nella piccola cappella a lui dedicata.
Oggi la statua di San Paolo è stata spostata nella Basilica, ma è tenuta ancoralontana da quella di San Pietro, tanto che la prima si trova all'ingresso della Chiesa, mentre la seconda è collocata in fondo, vicino all'altare maggiore. Inoltre la statua di S. Paolo è realizzata in cartapesta, mentre il busto di S. Pietro è realizzato in argento...
Ma c'è di più! Nel piccolo centro di Acaya, a Taranto nonché ad Atene e in diversi altri luoghi i due santi sono tenuti ben lontani.
Forse il motivo andrebbe ricercato nelle ragioni storiche e teologiche che hanno caratterizzato la vita del Santo. Anzitutto fu un terribile persecutore dei cristiani, solo successivamente convertito. Poi non fu un discepolo di Gesù Cristo e quindi non conobbe direttamente i suoi insegnamenti, ma nonostante ciò divenne apostolo. Ancora, non fu costante, difatti si racconta che dopo aver provato a convertire qualche pagano, non riuscendosi, tornò a Tarso e, dal 39 al 43 si occupò solo del suo ex lavoro di tessitore. Ma forse la vicenda che più di tutte può dare una vaga spiegazione al perché della lontananza tra Pietro e Paolo è quella relativa alla sua sepoltura.
Siamo nel 258 d.C. e i cristiani, per paura dei profanatori di tombe, portarono i corpi di Pietro e Paolo nelle Catacombe di San Sebastiano, ma lì il corpo di Paolo rimase per poco, perché intorno al 324 d.C. Papa Silvestro I lo fece spostare e seppellire in una chiesetta dove sarebbe sorta la Basilica di San Paolo fuori le mura. Non si conoscono le ragioni di questa scelta né il motivo per cui il corpo di San Pietro venne lasciato lì e quello di San Paolo spostato, però resta il fatto che i due Santi sono, anche oggi, lasciati separati, in molti luoghi di culto.
Si racconta un aneddoto curioso su S. Paolo. Mentre andava a Roma come prigioniero, fece tappa sull'Isola di Malta insieme all’equipaggio e alle guardie (Atti degli Apostoli XXVIII, 1-6), dove furono accolti da gente della costa che stava attorno a un fuoco. Mentre gettava legna sulle fiamme l’Apostolo venne assalito da una vipera che gli si attaccò al dito, ma lui, senza fare una piega, la gettò nel fuoco senza subire le conseguenze del morso di un serpente che, a quanto pare, era estremamente velenoso. La gente del posto rimase sconvolta e, nell'immaginario collettivo, la sua figura piano piano si sovrappose a quella di Ercole, altro protettore pagano contro i serpenti, poiché si dice che già nella culla fu in grado di ammazzarne due (bambino prodigio...).
Paolo è stato in qualche modo un ponte tra paganesimo e cristianesimo, tra leggende popolari e dottrina della chiesa. Non a caso oggi la maggior parte delle letture durante la messa riguardano le lettere di San Paolo e non è un caso che questi sia stato nominato Santo protettore dei tarantati, i quali eressero buona parte del rituale di guarigione intorno alla sua figura.
Difatti proprio a causa della vicenda del serpente la Chiesa lo elesse protettore dei morsicati dai serpenti, ma nel 1700 circa estese la protezione ai morsicati dai ragni. Questo perché? Perché la chiesa si stava rendendo conto di non riuscire a controllare il fenomeno del tarantismo, il quale era ancora radicato ai miti pagani. A niente era servita l'inquisizione che uccise molti tarantati. A niente era servito, altresì, il Concilio di Trento (1545-1563), che aveva bandito qualsiasi musica e rito di tipo pagano, costringendo prelati e forze dell'ordine a denunciare ogni tipo di ritrovo musicale. Fu così che nella prima metà del 1700 la Chiesa trovò la soluzione geniale: non più repressione, ma inculturazione: basta estendere la protezione di San Paolo anche a coloro che erano stati morsi dai ragni e il gioco è fatto!
E da allora iniziò un'altra pagina del tarantismo che, secondo De Martino, produsse la lenta e progressiva disgregazione del fenomeno. Difatti De Martino rilevava che la figura di San Paolo entrò prepotentemente nel rituale di guarigione del tarantismo, ma non trovò un ruolo chiaro e preciso, tanto che nella cultura popolare San Paolo era visto non solo come protettore dei tarantati, ma anche come punitore e addirittura come taranta stessa, ossia un San Paolo che diveniva esso stesso ragno. Questa si che è confusione!
Dunque non è facile inquadrare la figura di San Paolo nel fenomeno del tarantismo, anche perché pian piano si svilupparono veri e proprirituali intorno al suo culto. A iniziare dalla richiesta di grazia, che avveniva già durante il rito di guarigione, con invocazioni al Santo e promesse a volte mantenute a volte no.
Per esempio, nel video di Mingozzi la tarantata Maria risponde con un secco NO alla richiesta di San Paolo di celebrare una messa in suo onore.
Ma la stessa Maria, come tutte le altre tarantate, doveva recarsi alla cappella di San Paolo a Galatina per chiedere la grazia.
LA CAPPELLA DI S. PAOLO A GALATINA
A Galatina, popoloso centro del Salento, proprio nella piazza principale della città, inserita nel complesso monumentale del Palazzo Tondi, sorge la cappella di San Paolo (costruita nel 1791 e finita nel 1795), che nel corso del tempo diventò un punto di riferimento per le tarantate, soprattutto nel giorno della festa del Santo: il 29 giugno.
E' in questa data che le tarantate si trovavano tutte presso la cappella, a volte dopo un lungo viaggio, se pensate che alcune tarantate dovevano partire da lontano, dal capo di Leuca o dal brindisino, percorrendo parecchi chilometri a piedi o con il classico traino.
Entrate nel feudo di Galatina, le tarantate provavano un sussulto, come una specie di singhiozzo, e, non si sa bene per quale motivo, sentivano la necessità di orinare prima di proseguire il viaggio verso la città.
Il sussulto forse trova un'attinenza con una particolare coincidenza, ossia quella per cui nel feudo di Galatina mai nessuno è stato morso dalla taranta. Insomma, a Galatina non si sono mai registrati casi di tarantismo. Alcuni sostengono che ciò sia dovuto all'intercessione di San Paolo, che ha voluto premiare così i galatinesi per averlo eletto a protettore della città. Sta di fatto che a Galatina la taranta non mordeva, o, se mordeva, non provocava gli effetti tipici del tarantismo. Ad ogni modo il fatto che le donne sussultassero all'ingresso del feudo poteva significare che sentissero l'energia positiva della protezione del Santo o di chissà quale altro elemento simbolico.
E così, giunte nella piazza principale della città, si radunavano intorno alla cappella per chiedere la grazia al santo, ma il più delle volte tale intenzione si traduceva in un vero e proprio rituale di esorcismo dal male deltarantismo, e perciò il rito di guarigione si spostava dalla casa della tarantata alla cappella di Galatina. Letarantate si agitavano, riproponevano il ballo (nei limiti dell'angusto spazio della cappella), si arrampicavano sull'altare e sulla statua (tanto che venne inserita una gabbia a protezione della stessa), richiedevano i suoni, che spesso prontamente arrivavano, insomma, ricreavano le stesse scene che proponevano in casa, solo in un ambiente collettivo.
Per non indispettire il Santo e per favorire la guarigione, le famiglie delle tarantate portavano le loro offerte votive al parroco della Basilica di S. Pietro. Furono così tante e cospicue che furono effettuati diversi lavori all'interno della Basilica e financo venne cambiato l'intero pavimento.
Difatti a Galatina vige un proverbio popolare che recita: Paolo busca e Pietro mangia, in altre parole: le offerte sono dedicate a San Paolo, ma a goderne è San Pietro...
Alcuni sostengono che la chiesetta, a seguito di questi fenomeni, sia stata sconsacrata, tuttavia subito dopo il restauro, avvenuto nel 2010, è stata celebrata una messa proprio al suo interno.
IL POZZO DELLA CAPPELLA DI S. PAOLO
Affresco di San Paolo sopra al pozzo magico
I miti, cari lettori, non sono finiti. Siamo nel 1700, in periodo illuminista, in un epoca di grandi rivoluzioni, tra cui quella francese. Ma la Francia è lontana dal profondo Sud, un Sud legato ancora profondamente alla sua storia e tenuto incatenato dal feudalesimo.
Proprio dietro la cappella di San Paolo è collocato un pozzo la cui acqua era in grado di eliminare il veleno del ragno e, di conseguenza, di far guarire la tarantata.
Non sappiamo se la storia corrisponda al vero, tuttavia abbiamo a disposizione numerose testimonianze, anche recenti, di gente che dopo aver bevuto l'acqua dal pozzo e dopo averla vomitata, riusciva a stare bene, proprio perché l'acqua aiutava a far espellere il veleno. Alcunitarantati, dopo aver bevuto l'acqua, intravedevano nel pozzo dei serpenti e, se questi fuggivano, significava che l'acqua aveva sortito il suo effetto.
Due sono le storie più significative che circolano intorno al pozzo della cappella di S. Paolo.
La prima ci viene raccontata dal medico leccese Nicola Caputo, il quale scriveva che secondo la leggenda, San Paolo ebbe a trovarsi inGalatina, in uno dei suoi tanti viaggi, per far visita ai neo-convertiti. Fu così che per guarire i tarantati, gli fece bere l'acqua di un pozzo – quel pozzo – facendo il segno della croce sulla ferita provocata dal ragno o dal serpente. E da allora l'acqua del pozzo venne considerata miracolata.
Un'altra storia, diametralmente opposta, coinvolge le sorelle Farina, Francesca e Polisena, ricordate ancora da molti galatinesi.
Le sorelle Farina erano una sorta di maghe, di fattucchere che alleviavano le sofferenze dei malati e in particolare dai morsi degli insetti, con sputi e altri rituali. Si racconta che tanti tarantati, provenienti dai paesi limitrofi, si recavano dalle sorelle Farina per alleviare il male deltarantismo, e loro ne guarivano tanti. Quando però morirono, non lasciarono alcuna discendente in grado di portare avanti la loro professione, ma una delle due, prima di morire, fece appena in tempo a sputare nel pozzo della cappella e la sua acqua, per tale ragione, divenne miracolosa. I tarantati, bevendola, potevano espellere il veleno del ragno.
Quindi, accedendo a questa leggenda, i tarantati si recavano nella cappella di San Paolo non per chiedere la grazia al Santo, ma per bere l'acqua di un pozzo magico.
Insomma, leggenda o no, la storia dell'acqua divenne così popolare da richiamare moltitudini di tarantati, tanto che nel 1959 il Sindaco di Galatina ordinò al Parroco di chiudere immediatamente il pozzo, per presunti motivi igienico-sanitari. Certo, nessuno si era lamentato fino ad allora, e il motivo di questa scelta probabilmente si ritrova nel fatto che il tarantismo era osteggiato dall'ordine pubblico, da Stato e Chiesa ufficiale, tanto che De Martino, nel suo libro, racconta dell'avversione verso i rituali del tarantismo, che venivano interrotti dai carabinieri, di divieti di ballo e quant'altro potesse scoraggiare i tarantati dall'eseguire il rito di guarigione. In poche parole si cercò di bandire il tarantismo e i fenomeni ad esso collegati, a partire dalla chiusura del pozzo.
Tale scelta, attenzione, fa pensare che la storiella delle sorelle Farina non fosse poi così fasulla, visto che fu ordinata la chiusura del pozzo e non della cappella, quindi i pellegrinaggi avvenivano non tanto alla cappella, quanto al pozzo.
Pozzo o no, la cappella ha rappresentato uno dei simboli più forti del tarantismo salentino, tanto che oggi è usanza, nella notte tra il 28 e il 29 giugno, suonare la pizzica-pizzica proprio davanti la cappella, lasciata aperta fino a tarda notte, anche se negli ultimi anni anche quest'usanza sta regredendo.
Fonte: laputea.com Arte e Cultura del Salento
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