«L'uomo uccide con la forza
e la lama è la sua arma,
la donna uccide con astuzia
e il veleno è il suo espediente»
e la lama è la sua arma,
la donna uccide con astuzia
e il veleno è il suo espediente»
Il veleno è da sempre l'arma di difesa e offesa di moltissimi animali e piante, ma l'uomo ha saputo estrarlo ed usarlo per uccidere i propri simili per poter affermare e continuare il proprio albero genealogico.
In passato si usava dire che il veleno era l'arma preferita dalla donne perché procura una morte invisibile, atroce e molte volte senza lasciare tracce. In realtà il veleno è ed è stato largamente usato anche dagli uomini, che ne hanno fatto il mezzo più adatto per sviare i sospetti e simulare una morte naturale.
Anche in Italia abbiamo avuto alchimisti e erboristi che hanno estratto e sperimentato veleni mortali, ma uno dei più letali è sicuramente "l'acqua tofana", conosciuta anche come acqua perugina, acqua di Napoli o Manna di San Nicola.
Tra il XVII e il XIX secolo l'acqua tofana venne ampiamente utilizzata da Roma in giù, specialmente dalle donne che, insoddisfatte dei propri mariti (o smaniose di denaro), volevano diventare vedove il prima possibile.
La scoperta (o meglio la prima fabbricazione) viene attribuita a Giulia Tofana, una cortigiana originaria di Palermo che nel 1640 elaborò la ricetta della pozione mortale. Incolore, insapore e inodore, era un'arma micidiale con cui eliminare una persona senza destare alcun sospetto, anche perché l'effetto era ritardato di giorni e nessuno riusciva a ricondurre la morte ad altro che un attacco di cuore.
Giulia Tofana con la sua acqua divenne ricchissima e le richieste erano talmente numerose che dovette comprare una distilleria per poter far fronte a tutti. La donna assunse la nomea di "fattucchiera", ma nonostante questo ogni giorno alla sua porta si presentavano persone di ogni età e casta a comprare il suo veleno. Eri insoddisfatto del coniuge? Il tuo vicino ti rubava il raccolto? Un giovanotto faceva smanceria a tua figlia? Il tuo rivale politico ti metteva in ridicolo? Nessun problema: gli si offriva da bere e tutto finiva nel migliore dei modi, ovviamente non per chi beveva…
L’acqua tofana aveva la stessa consistenza dell'acqua e poteva essere tranquillamente diluita in ogni bevanda senza creare reazioni sospette. Secondo gli scritti del tempo per crearla bisognava seguire alla lettere la ricetta originale stilata da Giulia Tofana, che era più o meno questa:
Si metteva dell'acqua in una pentola e si aggiungeva arsenico macinato e limatura di piombo o di antimonio e si metteva il tutto a bollire premurandosi di coprire la pentola in modo che l'acqua non evaporasse. Quando l'acqua tornava limpida e incolore la pozione era pronta e poteva essere imbottigliata. E' probabile che la mistura contenesse anche belladonna, ma non venne mai dimostrato. In ogni caso ne risultava una soluzione di sali di arsenico e piombo ad altissimo tasso di tossicità che bastava versare nel vino o in una minestra.
In genere provocava vomito e dopo qualche giorno sopraggiungeva la febbre; la morte per avvelenamento avveniva qualche giorno dopo, a seconda della dose ingerita dalla vittima.
Per celare il reale scopo della sua acqua Giulia Tofana la vendeva come cosmetico o come acqua benedetta di san Nicola (più tardi addirittura la si imbottigliò in fialette recanti l'immagine del santo) e in pochi anni, solo a Roma, le morti sospette legate a quell'intruglio furono centinaia.
A svelare il veleno mortale fu una donna pentita di aver ucciso il suo consorte che si andò a confessare e fece anche i nomi dei fornitori e delle comari che lo avevano utilizzato.
Lo scandalo culminò nel famoso “processo dei veleni” del 1659 in cui vennero imputate 46 donne. Nessuna di loro ricevette la grazia e, per monito alla gente, alcune furono impiccate nel Campo de’ Fiori, altre furono murate vive nelle carceri dell’Inquisizione.
Una variante dell'acqua tofana era già in voga nel 1630 e veniva chiamato "liquore mortifero". Lo scopo era lo stesso (eliminare una persona scomoda), ma in realtà era acqua in cui venivano messi a mollo topi morti di peste o presi dalle fogne. Si diceva che poche gocce bastassero per essere contagiati dal terribile morbo.
La paura del contagio portò ad una vera e propria isteria di massa, e a Roma si diffuse l'idea che alcuni uomini scellerati usassero il liquore mortifero per versarlo in fontane, pozzi e in ogni luogo dove vi fosse dell'acqua. perfino le acquasantiere delle chiese. Quella credenza scatenò il sospetto in chiunque si immettesse in luoghi comuni come taverne o il mercato e a volte nascevano risse o discussioni per le cose più frivole. La leggenda vuole che nessuno entrando in chiesa osasse più bagnarsi la mano con l’acqua benedetta e un giorno, quando il sacrestano della chiesa di S. Lorenzo Damaso vide un poveretto intingere le dita per farsi il segno della croce, cominciò a gridare all'untore provocando nella basilica un fuggi fuggi generale
In passato si usava dire che il veleno era l'arma preferita dalla donne perché procura una morte invisibile, atroce e molte volte senza lasciare tracce. In realtà il veleno è ed è stato largamente usato anche dagli uomini, che ne hanno fatto il mezzo più adatto per sviare i sospetti e simulare una morte naturale.
Anche in Italia abbiamo avuto alchimisti e erboristi che hanno estratto e sperimentato veleni mortali, ma uno dei più letali è sicuramente "l'acqua tofana", conosciuta anche come acqua perugina, acqua di Napoli o Manna di San Nicola.
Tra il XVII e il XIX secolo l'acqua tofana venne ampiamente utilizzata da Roma in giù, specialmente dalle donne che, insoddisfatte dei propri mariti (o smaniose di denaro), volevano diventare vedove il prima possibile.
La scoperta (o meglio la prima fabbricazione) viene attribuita a Giulia Tofana, una cortigiana originaria di Palermo che nel 1640 elaborò la ricetta della pozione mortale. Incolore, insapore e inodore, era un'arma micidiale con cui eliminare una persona senza destare alcun sospetto, anche perché l'effetto era ritardato di giorni e nessuno riusciva a ricondurre la morte ad altro che un attacco di cuore.
Giulia Tofana con la sua acqua divenne ricchissima e le richieste erano talmente numerose che dovette comprare una distilleria per poter far fronte a tutti. La donna assunse la nomea di "fattucchiera", ma nonostante questo ogni giorno alla sua porta si presentavano persone di ogni età e casta a comprare il suo veleno. Eri insoddisfatto del coniuge? Il tuo vicino ti rubava il raccolto? Un giovanotto faceva smanceria a tua figlia? Il tuo rivale politico ti metteva in ridicolo? Nessun problema: gli si offriva da bere e tutto finiva nel migliore dei modi, ovviamente non per chi beveva…
L’acqua tofana aveva la stessa consistenza dell'acqua e poteva essere tranquillamente diluita in ogni bevanda senza creare reazioni sospette. Secondo gli scritti del tempo per crearla bisognava seguire alla lettere la ricetta originale stilata da Giulia Tofana, che era più o meno questa:
Si metteva dell'acqua in una pentola e si aggiungeva arsenico macinato e limatura di piombo o di antimonio e si metteva il tutto a bollire premurandosi di coprire la pentola in modo che l'acqua non evaporasse. Quando l'acqua tornava limpida e incolore la pozione era pronta e poteva essere imbottigliata. E' probabile che la mistura contenesse anche belladonna, ma non venne mai dimostrato. In ogni caso ne risultava una soluzione di sali di arsenico e piombo ad altissimo tasso di tossicità che bastava versare nel vino o in una minestra.
In genere provocava vomito e dopo qualche giorno sopraggiungeva la febbre; la morte per avvelenamento avveniva qualche giorno dopo, a seconda della dose ingerita dalla vittima.
Per celare il reale scopo della sua acqua Giulia Tofana la vendeva come cosmetico o come acqua benedetta di san Nicola (più tardi addirittura la si imbottigliò in fialette recanti l'immagine del santo) e in pochi anni, solo a Roma, le morti sospette legate a quell'intruglio furono centinaia.
A svelare il veleno mortale fu una donna pentita di aver ucciso il suo consorte che si andò a confessare e fece anche i nomi dei fornitori e delle comari che lo avevano utilizzato.
Lo scandalo culminò nel famoso “processo dei veleni” del 1659 in cui vennero imputate 46 donne. Nessuna di loro ricevette la grazia e, per monito alla gente, alcune furono impiccate nel Campo de’ Fiori, altre furono murate vive nelle carceri dell’Inquisizione.
Una variante dell'acqua tofana era già in voga nel 1630 e veniva chiamato "liquore mortifero". Lo scopo era lo stesso (eliminare una persona scomoda), ma in realtà era acqua in cui venivano messi a mollo topi morti di peste o presi dalle fogne. Si diceva che poche gocce bastassero per essere contagiati dal terribile morbo.
La paura del contagio portò ad una vera e propria isteria di massa, e a Roma si diffuse l'idea che alcuni uomini scellerati usassero il liquore mortifero per versarlo in fontane, pozzi e in ogni luogo dove vi fosse dell'acqua. perfino le acquasantiere delle chiese. Quella credenza scatenò il sospetto in chiunque si immettesse in luoghi comuni come taverne o il mercato e a volte nascevano risse o discussioni per le cose più frivole. La leggenda vuole che nessuno entrando in chiesa osasse più bagnarsi la mano con l’acqua benedetta e un giorno, quando il sacrestano della chiesa di S. Lorenzo Damaso vide un poveretto intingere le dita per farsi il segno della croce, cominciò a gridare all'untore provocando nella basilica un fuggi fuggi generale
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