Mirella Santamato - Le Donne-Medicina
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giovedì 28 febbraio 2019
martedì 26 febbraio 2019
Il primo a parlare di Atlantide fu Platone 429-347 a. C.
• Il primo a parlare di Atlantide fu Platone (429-347 a.C.). Un giorno – racconta in uno dei suoi Dialoghi, il Timeo – Solone aveva espresso un desiderio: voleva che i sacerdoti egiziani raccontassero le leggende più antiche della terra. Uno di loro, Sais, accogliendo la richiesta, aveva raccontato una storia legata al passato della città di Atene, di cui nessuno si ricordava più: Atene era stata, novemila anni prima, una città forte, fiera e giusta, governata da ottime leggi. Una città dalle istituzioni perfette, le migliori che si potessero immaginare. Tenendo conto che Solone visse a cavallo tra il VII e il VI secolo a.C., la città ideale sarebbe sorta, dunque, circa undicimilaseicento anni or sono. E secondo il racconto del sacerdote egizio si sarebbe resa benemerita di fronte all’umanità di un’impresa gloriosa. Verso occidente, al di là dellecolonne d’Ercole (il nome che gli antichi davano allo stretto di Gibilterra), esisteva un’isola su cui dominava un potere forte e violento, che minacciava di sottomettere tutto il mondo conosciuto.
• Questa potenza nemica era Atlantide, che aveva conquistato parte del continente africano, dalla Libia all’Egitto, nonché il territorio europeo sino alla Tirrenia (le coste del Tirreno, non identificabili con certezza). Ma ai despoti che regnavano sull’isola questo non bastava; volevano il totale dominio delle terre, compreso l’Oriente: dunque, anche il territorio greco. La minaccia era enorme, ma Atene si era opposta e da sola aveva sconfitto il nemico apparentemente invincibile. I Greci, che mai erano stati schiavi, avevano mantenuto la loro libertà, e grazie a loro aveva evitato le catene l’intero continente europeo. Ma la grandezza di Atlantide non era destinata a sopravvivere. Dopo alcuni secoli, nel breve corso di un giorno e una notte, un cataclisma di indicibili proporzioni aveva inghiottito la terra e gli abitanti della città. Sommersa dalle acque, Atlantide era scomparsa per sempre. Questo il racconto di Platone.
• Ma cosa sappiamo delle caratteristiche fisiche del continente, della vita che vi si conduceva, dei suoi abitanti? A queste domande risponde un altro dialogo platonico, il Crizia, in cui Platone descrive Atlantide minutamente, quasi a volerle dare concretezza, illustrando le sue caratteristiche geografiche, urbanistiche, politiche e sociali. Atlantide, dice Crizia, era la terra di Poseidone. Gli dèi infatti si erano divisi il mondo, tirando a sorte, e al dio del mare era toccata l’isola oltre le colonne d’Ercole. Questa era costituita, nella parte centrale, da una pianura, la più amena e ricca di prodotti che si potesse immaginare. Lontano dalla pianura, a circa cinquanta stadi dal centro dell’isola, c’era una montagna, sulla quale viveva un uomo di nome Euenore, con la sua sposa Leucippe e con una figlia, Cleitò, di cui Poseidone si era innamorato.
• Divenuta sposa e madre dei figli del dio, Cleitò abitava una casa attorno alla quale il dio aveva costruito una fortificazione, scavando la terra e creando una serie di ostacoli. Alternandoli l’uno all’altro, egli aveva creato fossati ora grandi ora piccoli, ora concentrici in forma di ruote, dal cerchio così perfetto che pareva fatto da un tornio che avesse avuto come centro quello dell’isola. Due di queste ruote erano di terra, tre erano riempite dal mare, e gli intervalli che separavano uno spazio dall’altro, tutti di ugual misura, erano assolutamente insuperabili. Nel centro dell’isola, nella cittadella-capitale, vennero costruiti i palazzi reali, dove vivevano i sovrani, discendenti dei figli di Poseidone e Cleitò. E ciascuno di loro trasmetteva il potere al suo primogenito. Ma i sovrani non erano tutti dello stesso grado: Poseidone aveva nominato il suo primogenito re degli altri re, e questa gerarchia si era protratta nel tempo.
• Nella cittadella sorgeva inoltre un tempio nel quale era collocata una statua del dio, attorniato da cento nereidi su delfini e raffigurato in atto di domare sei cavalli alati. Nel tempio, su un pilastro di bronzo, era inciso un codice di leggi e in questo tempio i re si riunivano allo scadere di periodi di tre o quattro anni, per compiervi gli atti fondamentali di governo, a partire dalla promulgazione delle leggi: cui provvedevano, peraltro, solo dopo aver cacciato i tori che vagavano liberi nel recinto del tempio e aver sacrificato uno di essi in modo che il suo sangue scorresse sul pilastro su cui erano scritte le leggi. Al termine della cerimonia, dopo aver promulgato le leggi, i re libavano agli dèi, banchettavano e, vestiti di abiti azzurri, tenevano il tribunale durante la notte, e all’alba scrivevano le sentenze su una tavola d’oro.
• Ma torniamo all’aspetto fisico e urbanistico dell’isola: per abbellire il proprio palazzo, ciascuno dei sovrani aveva costruito opere bellissime. Un canale largo tre pletri (88 metri), profondo cento piedi (29 metri) e lungo cinquanta stadi (nove chilometri) partiva dal mare e giungeva fino alla zona circolare più esterna, a forma di ruota, consentendo l’accesso alle navi come un porto. Strade e ponti collegavano la cittadella con i cerchi di terra circostanti e con il resto dell’isola. L’intera metropoli era circondata da mura. Quanto alle risorse di cui l’isola era ricca, alla flora e alla fauna, basterà citare le molte miniere di metalli preziosi, le foreste da cui veniva ricavato il legname, la terra che produceva tutti i prodotti necessari a nutrire gli animali, sia addomesticati sia selvaggi. Tra cui -’ specifica Platone – un grande numero di elefanti, enormi e voracissimi: ma neppure a questi mancava mai il cibo, tanta era la ricchezza della natura dell’isola felice (Crizia, 113b-116c).
• Sin qui la descrizione platonica. Che, come è intuibile, pone un problema che continua a essere dibattuto dopo quasi duemilacinquecento anni. Atlantide è un mito o riflette una realtà storica? Sin dall’antichità, le risposte furono diverse. Nel IV secolo a.C. Crantore, il primo editore del Timeo, giurava sull’autenticità del racconto ma, come risulta da Strabone, il suo contemporaneo Aristotele era di parere opposto: secondo il filosofo non era un caso se Platone aveva fatto inabissare Atlantide nelle profondità del mare. Così facendo aveva voluto evitare che qualcuno gli chiedesse dove si trovava. Come dicevamo, il dibattito non si è ancora sopito. E ha fatto versare fiumi di inchiostro. Già mezzo secolo fa si calcolava che al continente perduto fossero stati dedicati più di duemila libri. Alcuni dei quali, peraltro, si limitavano a usare Atlantide come scenario di una situazione immaginaria: valga, per tutti, un esempio celebre, quello di Francis Bacon (Bacone) che, nel 1627 fantasticava di un’Atlantide in Brasile.
• La varietà e spesso la fantasiosità delle ipotesi è sconcertante. A darne un’idea basteranno alcuni esempi. Se nel I secolo d.C. Plinio il Vecchio collocava Atlantide in Spagna (più precisamente a Gades, oggi Cadice), attorno al 1700 Olof Rudbeck, di Uppsala, sosteneva che i Goti discendeva dagli abitanti di Atlantide. Nel 1779 il francese Jean Sylvain Bailly collocava il continente perduto in Siberia. Nel 1803 un ufficiale napoleonico, Bory de St. Vincent, lo identificava con le Canarie; attorno al 1870 Augustus Le Plongeon, una singolare e interessante figura di avventuriero, sosteneva che i Maya di Chichen Itza erano i discendenti degli Atlantidi. Nel 1882 un deputato del Congresso americano, Ignatius Donnelly, affermava che si trattava delle Azzorre.
• Nel 1922 un archeologo tedesco recuperava l’ipotesi spagnola, giungendo a intraprendere degli scavi alla foce del Guadalquivir. Nel 1930 lo storiografo Robert Graves asseriva che Atlantide si trovava nel lago Triton, una laguna salina essiccata da millenni in Liberia. Persino i nazisti si interessarono al continente perduto e nel 1931 Heinrich Himmler, convinto di trovarne le tracce, fece eseguire degli scavi nei pressi dell’isola Helgoland, nel Mar Baltico. Negli anni Settanta diventarono di moda i Caraibi: c’era chi cercava alle Bermuda, chi alle Bahamas, ma c’era anche chi conduceva i suoi studi su un atollo delle isole Bikini.
• Molte di queste ipotesi sono pura fantasia. Ma non tutte. Alcune hanno un fondamento scientifico e tra queste una che sembra meritare maggior attenzione di altre: l’ipotesi minoica. Atlantide, secondo questa ipotesi, sarebbe l’isola di Creta o, secondo alcuni, la vicina Thera (oggi Santorini); sono le isole nelle quali fiorì la civiltà minoica. Una splendida civiltà che i greci antichi avevano dimenticato e che fu riscoperta nel secolo scorso, grazie agli scavi condotti a Cnosso da Arthur Evans a partire dal 1900. Evans aveva avuto modo di vedere ad Atene la famosa maschera funeraria in oro, attualmente conservata al Museo Nazionale di Atene, trovata nel 1876 da Heinrich Schliemann durante gli scavi a Micene, «la ricca d’oro» come la chiamava Omero. Qui Schliemann, archeologo dilettante, aveva portato alla luce i resti di un palazzo magnifico e di tombe ricchissime. Entusiasmato da queste scoperta, Arthur Evans si era convinto che gioielli raffinati come la maschera funeraria (che Schliemann aveva identificato senza esitazioni con quella di Agamennone) potevano essere solo il prodotto di una società che conosceva la scrittura e che aveva una buona divisione del lavoro. E poiché aveva notato alcune incisioni su delle gemme trovate nelle botteghe di un antiquario di Atene e aveva stabilito che queste gemme provenivano da Creta, era andato immediatamente sull’isola dove, nel 1900, iniziò le ricerche, a Cnosso. Dopo una settimana aveva già rinvenuto le tracce di una scrittura sconosciuta, da lui chiamata «lineare A»: la scrittura usata dai sovrani minoici a fini amministrativi e contabili, introdotta probabilmente attorno al 1750 a.C.
• A Creta – e, come si scoprì successivamente, anche sulla vicina Thera – era dunque fiorita una civiltà insulare, ricca, raffinata e che conosceva la scrittura. Quasi inevitabile che qualcuno pensasse ad Atlantide. E così fu: sul Times del 1909 apparve un articolo in questo senso, a firma di K.T. Frost. Ma a diffondere e accreditare l’ipotesi furono le ricerche, a partire dal 1939, dell’archeologo greco Spiridion Marinatos. Nel 1950 Marinatos, al quale si devono gli scavi che hanno portato alla luce imponenti resti minoici anche a Thera, pubblicò un articolo destinato a diventare famoso: «Some Words about Atlantis» (Qualche parola su Atlantide). Il racconto di Platone, diceva Marinatos, era una sintesi di tradizioni storiche diverse, tra le quali il racconto sumerico del diluvio e una storia egizia del periodo del Medio Regno, che raccontava il naufragio di una nave su un’isola scomparsa. Atlantide, dunque, era realmente esistita: anche se – diceva Marinatos – la data fornita da Platone era sbagliata. Novemila anni prima di Solone in Grecia non esistevano popoli capaci di compiere le imprese descritte da Platone, né egiziani in grado di scriverle. L’epoca doveva essere la più recente età del Bronzo. Ma perché questa data? Perché in quell’epoca un cataclisma aveva sconvolto il Mediterraneo: l’eruzione del vulcano sull’isola di Thera.
• Le proporzioni del maremoto provocato da questa eruzione era stata di tale intensità da poter essere paragonata a un’esplosione nucleare. Tra i maremoti sarebbe paragonabile solo a quello legato all’eruzione del vulcano Krakatoa, a est di Java, il 27 agosto del 1883. Sulla base di queste considerazioni, Marinatos giunse a una conclusione: l’esplosione del vulcano di Santorini aveva determinato la scomparsa non solo dell’isola, ma dell’intera civiltà minoica, in una data collocabile attorno al 1400 a.C. Come fu accolta questa ipotesi? Spesso con scetticismo, ma anche con molto interesse. Ma negli ultimi anni all’ipotesi minoica se ne è affiancata un’altra. Nel 1999 cinque esperti dell’Istituto di scienze geologiche di Hannover, guidati dal direttore del dipartimento di geofisica aerea, cominciarono a lavorare a un progetto definito dal loro portavoce simile a un’avventura di Indiana Jones: cercare Atlantide nei pressi delle rovine di Troia. Di nuovo, all’origine dell’ipotesi stanno gli scavi di Schliemann. Prima delle ricerche a Micene, Schliemann aveva condotto degli scavi nel posto dove, sulla base della lettura di Omero, egli riteneva dovesse essere la città di Troia (nella cui storicità, allora, nessuno credeva).
• Nel 1870 – fra la più o meno benevola condiscendenza del mondo accademico – Schliemann si mise alla ricerca della città di Priamo nella località di Hissarlik, nel Nord dell’Anatolia. E tra lo stupore generale la trovò. O meglio trovò le rovine di una città, ma più antica di quella omerica: le successive ricerche, infatti, portarono alla luce ben nove insediamenti, rivelando che, in effetti, nei luoghi individuati da Schliemann era esistita, era stata distrutta e ricostruita più volte una grande città. Sostanzialmente Schliemann aveva avuto ragione: la città di Troia era esistita. Questo il punto di partenza, il presupposto che nel 1992 consentì a un geo-archeologo svizzero, Eberhard Zanggert, di avanzare l’ipotesi che Troia fosse Atlantide. Ma sulla base di quali ragionamenti? Fondamentalmente della considerazione che Atlantide era ricca di acque e di canali e nella zona su cui l’Istituto di Hannover decise di concentrare le ricerche il popolo degli Urartei, che allora abitava la regione, aveva compiuto opere di alta ingegneria, simili a quelle degli Egizi. Analogie, dunque: tra le quali il fatto che, come racconta Omero, Troia possedeva una ricchissima flotta, di ben millecentottantasei navi. E Atlantide, secondo Platone, ne possedeva milleduecento. E ancora: sia nell’area dove sorgeva Troia sia ad Atlantide soffiava un forte vento da nord. Infine: come ad Atlantide, a Troia c’erano due sorgenti, la cui acqua era raccolta da due pozzi, «uno ardente come fuoco», dice Omero, «l’altro freddo come grandine». Fermiamoci qui. Quanto sia ampio lo spettro delle ipotesi è stato mostrato. Quale di esse appare più credibile? Per chi credesse che il continente perduto non è un semplice mito, l’ipotesi minoica sembra vantare maggiori elementi di concretezza. Quantomeno sino a oggi. Perché una sola cosa è certa, in tutto questo: su Atlantide verranno fatte altre ipotesi. Accettare che un bel sogno sia solo tale è sempre molto difficile.
• Volete passare una notte nel fantastico mondo di Atlantide? Oggi è possibile. Naturalmente il paradiso perduto di Atlantide è stato ricostruito in uno dei nuovi paradisi della Terra, Paradise Island alle Bahamas. Come la nuova Venezia di Las Vegas, dove è possibile giocare alla roulette e mangiare in lussuosi ristoranti tra ponti pittoreschi e romantici canali che riproducono l’antica città italiana, così a Paradise Island si può dormire nella mitica città di Platone. In questo caso non esiste un vero e proprio modello e gli ideatori quindi si sono potuti sbizzarrire, ispirandosi a tutte le fonti dell’immaginario e del mito moderno, prima fra tutte il cinema. Ma come il cinema crea storie più vere del vero, che molti finiscono per considerare realtà, così molti turisti dell’Atlantis Hotel pensano di ritrovarsi in un vero sito archeologico adattato ad albergo dove, invece del ristorantino tipico, si possono conoscere le meraviglie del mondo perduto. Mito, magia e pubblicità si intrecciano in un cocktail vincente: «Incontrerete creature antropofaghe, antiche rovine e il popolo che venera il sole». Le quasi 2500 camere si estendono in un fantastico parco acquatico, con stanze subacquee e 50.000 pesci di ogni specie, tra colonnati, fontane e conchiglie di marmo. I turisti possono entrare nello studio del mitico scopritore della città e vedere le sue mappe. Pezzi di scafandri ed enigmatiche bombole convincono gli ospiti che, come a Pompei, la fuga prima della distruzione deve essere stata improvvisa e drammatica. La localizzazione di Atlantide alle Bahamas ha una tradizione, che nasce con i veggenti statunitensi d’inizio Novecento. Ma forse neanche il veggente Cayce aveva previsto l’Atlantis Hotel.
• Che cosa ci può essere di meglio per un romanziere che ricreare con la fantasia un mondo perduto e per giunta gareggiare con uno scrittore immaginifico come il grande Platone? Certo Jules Verne, creatore, come il filosofo greco, di miti e mondi irraggiungibili, a metà strada tra scienza e fantasia, non poteva rifiutare una sfida simile: nel 1870 pubblica Ventimila leghe sotto i mari, la storia di un viaggio alla scoperta dei segreti degli abissi dell’oceano. Verne, seguendo Platone, pone Atlantide oltre lo stretto di Gibilterra. Affascinato dalla geologia, immaginò le isole Canarie, le Azzorre e Capo Verde come le cime affioranti del continente scomparso. Per Verne Atlantide è una città perduta per sempre: le sue vestigia giacciono sul fondo del mare. Templi abbattuti, colonne spezzate e i resti di un grande acquedotto rivelano il gusto decadente dell’epoca e del grand tour, il classico viaggio di formazione in Grecia e in Italia, tra le rovine della civiltà greca e latina. I personaggi di Verne visitano Atlantide come i turisti di oggi visitano Atene o Pompei. Nel romanzo la città è illuminata dai lapilli incandescenti di un grande vulcano. Il riferimento è a Pompei, inghiottita dalla lava del Vesuvio, ma è anche un monito che ci invita a riflettere sulla difficile coesistenza nel nostro mondo tra civiltà e natura. Iperscientifica è invece la ricostruzione di un altro insospettabile che si à lasciato tentare da Atlantide. Sir Arthur Conan Doyle, l’autore di Sherlock Holmes, pubblica nel 1929 L’abisso di Maracot, storia di una spedizione oceanografica al largo delle Canarie con una sorta di batiscafo. Come nel film Sfera, gli esploratori, imprigionati sul fondale, vengono salvati dai sopravvissuti alla distruzione di Atlantide. Costoro sono in grado di modificare le molecole di tutti gli elementi, hanno sviluppato capacità telepatiche e comunicano con gli umani proiettando il loro pensiero su schermi. I personaggi del romanzo vedono la fine di Atlantide su uno schermo come in un film. Cinema e letteratura intrecciano i loro linguaggi: il primo film ispirato ad Atlantide era uscito otto anni prima.
• In uno dei suoi dialoghi, il Crizia, Platone ha descritto in modo accurato Atlantide. Secondo lui, il continente era posto al di là delle colonne d’Ercole (cioè dopo lo stretto di Gibilterra), nell’Oceano Atlantico, come si vede nel disegno qui in alto che ricalca una mappa cinquecentesca (Atlantide ha sempre istigato i cartografi). Era grande come Libia e Asia messe insieme e affondò per un’eruzione vulcanica circa 11000 anni fa. Gli abitanti erano molto ricchi. Al centro dell’isola Poseidone, il dio del mare, aveva fondato la città. Era bellissima e inespugnabile: per arrivare al centro bisognava attraversare tre larghi canali d’acqua, perfettamente concentrici (vedi il disegno in alto nell’altra pagina e la piantina qui a fianco). Un canale partiva dal mare e giungeva fino alla zona circolare più esterna: consentiva così l’accesso alle navi, trasformando Atlantide in una città-porto. Strade e ponti ne collegavano il nucleo centrale con i cerchi di terra circostanti e con il resto dell’isola. Nella città erano stati costruiti i palazzi reali e un tempio: al suo interno c’era la statua del dio e un pilastro di bronzo su cui erano incise le leggi.
• A parte il film di Disney in uscita, il successo cinematografico di Atlantide è immenso: mare, cataclismi e civiltà perdute sono elementi perfetti per il grande schermo. Elementi presenti anche in questo disneyano Atlantis, l’impero perduto. Il cartone animato della Walt Disney racconta la storia del giovane Milo Thatch che, novello Indiana Jones, si batterà eroicamente contro un’aragosta e salverà la bella principessa Kida da un orrendo destino. Ancora una storia d’amore in Atlantide, il continente perduto di George Pal (Usa, 1961). La tormentata storia d’amore tra un pescatore dell’antica Grecia e la principessa d’Atlantide si muove in uno scenario di guerra e complotti, all’ombra di un minaccioso vulcano. Atlantide in questa versione è un mondo ambiguo, dove si intrecciano pericolosamente modernità e arcaismo in un’enigmatica metafora dello scontro tra civiltà. La diffidenza verso quest’antico mondo perduto è ancora più esplicita in I signori della guerra di Atlantide di Kevin Connor (Usa, 1978). Gli atlantidi incarnano il peggio dell’immaginario del diverso: non solo sono di origine aliena, ma addirittura vorrebbero dominare il mondo con un’organizzazione di stampo nazista. Tutt’altro scenario in L’Atlantide di Bob Swaim (Fr/It, 1992), ultima versione cinematografica (la prima è un film muto del 1921) dell’affascinante romanzo di Pierre Benoît. Il deserto si sostituisce all’oceano: è un altrove magico che garantisce però lo stesso straniante isolamento. Benoît segue la teoria dell’archeologo francese Félix Berlioux e immagina un regno nascosto tra i monti africani dell’Atlante. Affascinato dall’antropologia e da leggende berbere di antiche civiltà matriarcali, crea un mondo alla rovescia in cui gli uomini portano il velo e obbediscono a una vorace regina, Antinea, che, come Circe, ammalia le belve e soggioga i suoi amanti, pronti al suicidio se abbandonati. la storia di due legionari francesi che, sperduti nel deserto, trovano questa città leggendaria e si contendono l’amore letale della crudele sovrana.
• Questa potenza nemica era Atlantide, che aveva conquistato parte del continente africano, dalla Libia all’Egitto, nonché il territorio europeo sino alla Tirrenia (le coste del Tirreno, non identificabili con certezza). Ma ai despoti che regnavano sull’isola questo non bastava; volevano il totale dominio delle terre, compreso l’Oriente: dunque, anche il territorio greco. La minaccia era enorme, ma Atene si era opposta e da sola aveva sconfitto il nemico apparentemente invincibile. I Greci, che mai erano stati schiavi, avevano mantenuto la loro libertà, e grazie a loro aveva evitato le catene l’intero continente europeo. Ma la grandezza di Atlantide non era destinata a sopravvivere. Dopo alcuni secoli, nel breve corso di un giorno e una notte, un cataclisma di indicibili proporzioni aveva inghiottito la terra e gli abitanti della città. Sommersa dalle acque, Atlantide era scomparsa per sempre. Questo il racconto di Platone.
• Ma cosa sappiamo delle caratteristiche fisiche del continente, della vita che vi si conduceva, dei suoi abitanti? A queste domande risponde un altro dialogo platonico, il Crizia, in cui Platone descrive Atlantide minutamente, quasi a volerle dare concretezza, illustrando le sue caratteristiche geografiche, urbanistiche, politiche e sociali. Atlantide, dice Crizia, era la terra di Poseidone. Gli dèi infatti si erano divisi il mondo, tirando a sorte, e al dio del mare era toccata l’isola oltre le colonne d’Ercole. Questa era costituita, nella parte centrale, da una pianura, la più amena e ricca di prodotti che si potesse immaginare. Lontano dalla pianura, a circa cinquanta stadi dal centro dell’isola, c’era una montagna, sulla quale viveva un uomo di nome Euenore, con la sua sposa Leucippe e con una figlia, Cleitò, di cui Poseidone si era innamorato.
• Divenuta sposa e madre dei figli del dio, Cleitò abitava una casa attorno alla quale il dio aveva costruito una fortificazione, scavando la terra e creando una serie di ostacoli. Alternandoli l’uno all’altro, egli aveva creato fossati ora grandi ora piccoli, ora concentrici in forma di ruote, dal cerchio così perfetto che pareva fatto da un tornio che avesse avuto come centro quello dell’isola. Due di queste ruote erano di terra, tre erano riempite dal mare, e gli intervalli che separavano uno spazio dall’altro, tutti di ugual misura, erano assolutamente insuperabili. Nel centro dell’isola, nella cittadella-capitale, vennero costruiti i palazzi reali, dove vivevano i sovrani, discendenti dei figli di Poseidone e Cleitò. E ciascuno di loro trasmetteva il potere al suo primogenito. Ma i sovrani non erano tutti dello stesso grado: Poseidone aveva nominato il suo primogenito re degli altri re, e questa gerarchia si era protratta nel tempo.
• Nella cittadella sorgeva inoltre un tempio nel quale era collocata una statua del dio, attorniato da cento nereidi su delfini e raffigurato in atto di domare sei cavalli alati. Nel tempio, su un pilastro di bronzo, era inciso un codice di leggi e in questo tempio i re si riunivano allo scadere di periodi di tre o quattro anni, per compiervi gli atti fondamentali di governo, a partire dalla promulgazione delle leggi: cui provvedevano, peraltro, solo dopo aver cacciato i tori che vagavano liberi nel recinto del tempio e aver sacrificato uno di essi in modo che il suo sangue scorresse sul pilastro su cui erano scritte le leggi. Al termine della cerimonia, dopo aver promulgato le leggi, i re libavano agli dèi, banchettavano e, vestiti di abiti azzurri, tenevano il tribunale durante la notte, e all’alba scrivevano le sentenze su una tavola d’oro.
• Ma torniamo all’aspetto fisico e urbanistico dell’isola: per abbellire il proprio palazzo, ciascuno dei sovrani aveva costruito opere bellissime. Un canale largo tre pletri (88 metri), profondo cento piedi (29 metri) e lungo cinquanta stadi (nove chilometri) partiva dal mare e giungeva fino alla zona circolare più esterna, a forma di ruota, consentendo l’accesso alle navi come un porto. Strade e ponti collegavano la cittadella con i cerchi di terra circostanti e con il resto dell’isola. L’intera metropoli era circondata da mura. Quanto alle risorse di cui l’isola era ricca, alla flora e alla fauna, basterà citare le molte miniere di metalli preziosi, le foreste da cui veniva ricavato il legname, la terra che produceva tutti i prodotti necessari a nutrire gli animali, sia addomesticati sia selvaggi. Tra cui -’ specifica Platone – un grande numero di elefanti, enormi e voracissimi: ma neppure a questi mancava mai il cibo, tanta era la ricchezza della natura dell’isola felice (Crizia, 113b-116c).
• Sin qui la descrizione platonica. Che, come è intuibile, pone un problema che continua a essere dibattuto dopo quasi duemilacinquecento anni. Atlantide è un mito o riflette una realtà storica? Sin dall’antichità, le risposte furono diverse. Nel IV secolo a.C. Crantore, il primo editore del Timeo, giurava sull’autenticità del racconto ma, come risulta da Strabone, il suo contemporaneo Aristotele era di parere opposto: secondo il filosofo non era un caso se Platone aveva fatto inabissare Atlantide nelle profondità del mare. Così facendo aveva voluto evitare che qualcuno gli chiedesse dove si trovava. Come dicevamo, il dibattito non si è ancora sopito. E ha fatto versare fiumi di inchiostro. Già mezzo secolo fa si calcolava che al continente perduto fossero stati dedicati più di duemila libri. Alcuni dei quali, peraltro, si limitavano a usare Atlantide come scenario di una situazione immaginaria: valga, per tutti, un esempio celebre, quello di Francis Bacon (Bacone) che, nel 1627 fantasticava di un’Atlantide in Brasile.
• La varietà e spesso la fantasiosità delle ipotesi è sconcertante. A darne un’idea basteranno alcuni esempi. Se nel I secolo d.C. Plinio il Vecchio collocava Atlantide in Spagna (più precisamente a Gades, oggi Cadice), attorno al 1700 Olof Rudbeck, di Uppsala, sosteneva che i Goti discendeva dagli abitanti di Atlantide. Nel 1779 il francese Jean Sylvain Bailly collocava il continente perduto in Siberia. Nel 1803 un ufficiale napoleonico, Bory de St. Vincent, lo identificava con le Canarie; attorno al 1870 Augustus Le Plongeon, una singolare e interessante figura di avventuriero, sosteneva che i Maya di Chichen Itza erano i discendenti degli Atlantidi. Nel 1882 un deputato del Congresso americano, Ignatius Donnelly, affermava che si trattava delle Azzorre.
• Nel 1922 un archeologo tedesco recuperava l’ipotesi spagnola, giungendo a intraprendere degli scavi alla foce del Guadalquivir. Nel 1930 lo storiografo Robert Graves asseriva che Atlantide si trovava nel lago Triton, una laguna salina essiccata da millenni in Liberia. Persino i nazisti si interessarono al continente perduto e nel 1931 Heinrich Himmler, convinto di trovarne le tracce, fece eseguire degli scavi nei pressi dell’isola Helgoland, nel Mar Baltico. Negli anni Settanta diventarono di moda i Caraibi: c’era chi cercava alle Bermuda, chi alle Bahamas, ma c’era anche chi conduceva i suoi studi su un atollo delle isole Bikini.
• Molte di queste ipotesi sono pura fantasia. Ma non tutte. Alcune hanno un fondamento scientifico e tra queste una che sembra meritare maggior attenzione di altre: l’ipotesi minoica. Atlantide, secondo questa ipotesi, sarebbe l’isola di Creta o, secondo alcuni, la vicina Thera (oggi Santorini); sono le isole nelle quali fiorì la civiltà minoica. Una splendida civiltà che i greci antichi avevano dimenticato e che fu riscoperta nel secolo scorso, grazie agli scavi condotti a Cnosso da Arthur Evans a partire dal 1900. Evans aveva avuto modo di vedere ad Atene la famosa maschera funeraria in oro, attualmente conservata al Museo Nazionale di Atene, trovata nel 1876 da Heinrich Schliemann durante gli scavi a Micene, «la ricca d’oro» come la chiamava Omero. Qui Schliemann, archeologo dilettante, aveva portato alla luce i resti di un palazzo magnifico e di tombe ricchissime. Entusiasmato da queste scoperta, Arthur Evans si era convinto che gioielli raffinati come la maschera funeraria (che Schliemann aveva identificato senza esitazioni con quella di Agamennone) potevano essere solo il prodotto di una società che conosceva la scrittura e che aveva una buona divisione del lavoro. E poiché aveva notato alcune incisioni su delle gemme trovate nelle botteghe di un antiquario di Atene e aveva stabilito che queste gemme provenivano da Creta, era andato immediatamente sull’isola dove, nel 1900, iniziò le ricerche, a Cnosso. Dopo una settimana aveva già rinvenuto le tracce di una scrittura sconosciuta, da lui chiamata «lineare A»: la scrittura usata dai sovrani minoici a fini amministrativi e contabili, introdotta probabilmente attorno al 1750 a.C.
• A Creta – e, come si scoprì successivamente, anche sulla vicina Thera – era dunque fiorita una civiltà insulare, ricca, raffinata e che conosceva la scrittura. Quasi inevitabile che qualcuno pensasse ad Atlantide. E così fu: sul Times del 1909 apparve un articolo in questo senso, a firma di K.T. Frost. Ma a diffondere e accreditare l’ipotesi furono le ricerche, a partire dal 1939, dell’archeologo greco Spiridion Marinatos. Nel 1950 Marinatos, al quale si devono gli scavi che hanno portato alla luce imponenti resti minoici anche a Thera, pubblicò un articolo destinato a diventare famoso: «Some Words about Atlantis» (Qualche parola su Atlantide). Il racconto di Platone, diceva Marinatos, era una sintesi di tradizioni storiche diverse, tra le quali il racconto sumerico del diluvio e una storia egizia del periodo del Medio Regno, che raccontava il naufragio di una nave su un’isola scomparsa. Atlantide, dunque, era realmente esistita: anche se – diceva Marinatos – la data fornita da Platone era sbagliata. Novemila anni prima di Solone in Grecia non esistevano popoli capaci di compiere le imprese descritte da Platone, né egiziani in grado di scriverle. L’epoca doveva essere la più recente età del Bronzo. Ma perché questa data? Perché in quell’epoca un cataclisma aveva sconvolto il Mediterraneo: l’eruzione del vulcano sull’isola di Thera.
• Le proporzioni del maremoto provocato da questa eruzione era stata di tale intensità da poter essere paragonata a un’esplosione nucleare. Tra i maremoti sarebbe paragonabile solo a quello legato all’eruzione del vulcano Krakatoa, a est di Java, il 27 agosto del 1883. Sulla base di queste considerazioni, Marinatos giunse a una conclusione: l’esplosione del vulcano di Santorini aveva determinato la scomparsa non solo dell’isola, ma dell’intera civiltà minoica, in una data collocabile attorno al 1400 a.C. Come fu accolta questa ipotesi? Spesso con scetticismo, ma anche con molto interesse. Ma negli ultimi anni all’ipotesi minoica se ne è affiancata un’altra. Nel 1999 cinque esperti dell’Istituto di scienze geologiche di Hannover, guidati dal direttore del dipartimento di geofisica aerea, cominciarono a lavorare a un progetto definito dal loro portavoce simile a un’avventura di Indiana Jones: cercare Atlantide nei pressi delle rovine di Troia. Di nuovo, all’origine dell’ipotesi stanno gli scavi di Schliemann. Prima delle ricerche a Micene, Schliemann aveva condotto degli scavi nel posto dove, sulla base della lettura di Omero, egli riteneva dovesse essere la città di Troia (nella cui storicità, allora, nessuno credeva).
• Nel 1870 – fra la più o meno benevola condiscendenza del mondo accademico – Schliemann si mise alla ricerca della città di Priamo nella località di Hissarlik, nel Nord dell’Anatolia. E tra lo stupore generale la trovò. O meglio trovò le rovine di una città, ma più antica di quella omerica: le successive ricerche, infatti, portarono alla luce ben nove insediamenti, rivelando che, in effetti, nei luoghi individuati da Schliemann era esistita, era stata distrutta e ricostruita più volte una grande città. Sostanzialmente Schliemann aveva avuto ragione: la città di Troia era esistita. Questo il punto di partenza, il presupposto che nel 1992 consentì a un geo-archeologo svizzero, Eberhard Zanggert, di avanzare l’ipotesi che Troia fosse Atlantide. Ma sulla base di quali ragionamenti? Fondamentalmente della considerazione che Atlantide era ricca di acque e di canali e nella zona su cui l’Istituto di Hannover decise di concentrare le ricerche il popolo degli Urartei, che allora abitava la regione, aveva compiuto opere di alta ingegneria, simili a quelle degli Egizi. Analogie, dunque: tra le quali il fatto che, come racconta Omero, Troia possedeva una ricchissima flotta, di ben millecentottantasei navi. E Atlantide, secondo Platone, ne possedeva milleduecento. E ancora: sia nell’area dove sorgeva Troia sia ad Atlantide soffiava un forte vento da nord. Infine: come ad Atlantide, a Troia c’erano due sorgenti, la cui acqua era raccolta da due pozzi, «uno ardente come fuoco», dice Omero, «l’altro freddo come grandine». Fermiamoci qui. Quanto sia ampio lo spettro delle ipotesi è stato mostrato. Quale di esse appare più credibile? Per chi credesse che il continente perduto non è un semplice mito, l’ipotesi minoica sembra vantare maggiori elementi di concretezza. Quantomeno sino a oggi. Perché una sola cosa è certa, in tutto questo: su Atlantide verranno fatte altre ipotesi. Accettare che un bel sogno sia solo tale è sempre molto difficile.
• Volete passare una notte nel fantastico mondo di Atlantide? Oggi è possibile. Naturalmente il paradiso perduto di Atlantide è stato ricostruito in uno dei nuovi paradisi della Terra, Paradise Island alle Bahamas. Come la nuova Venezia di Las Vegas, dove è possibile giocare alla roulette e mangiare in lussuosi ristoranti tra ponti pittoreschi e romantici canali che riproducono l’antica città italiana, così a Paradise Island si può dormire nella mitica città di Platone. In questo caso non esiste un vero e proprio modello e gli ideatori quindi si sono potuti sbizzarrire, ispirandosi a tutte le fonti dell’immaginario e del mito moderno, prima fra tutte il cinema. Ma come il cinema crea storie più vere del vero, che molti finiscono per considerare realtà, così molti turisti dell’Atlantis Hotel pensano di ritrovarsi in un vero sito archeologico adattato ad albergo dove, invece del ristorantino tipico, si possono conoscere le meraviglie del mondo perduto. Mito, magia e pubblicità si intrecciano in un cocktail vincente: «Incontrerete creature antropofaghe, antiche rovine e il popolo che venera il sole». Le quasi 2500 camere si estendono in un fantastico parco acquatico, con stanze subacquee e 50.000 pesci di ogni specie, tra colonnati, fontane e conchiglie di marmo. I turisti possono entrare nello studio del mitico scopritore della città e vedere le sue mappe. Pezzi di scafandri ed enigmatiche bombole convincono gli ospiti che, come a Pompei, la fuga prima della distruzione deve essere stata improvvisa e drammatica. La localizzazione di Atlantide alle Bahamas ha una tradizione, che nasce con i veggenti statunitensi d’inizio Novecento. Ma forse neanche il veggente Cayce aveva previsto l’Atlantis Hotel.
• Che cosa ci può essere di meglio per un romanziere che ricreare con la fantasia un mondo perduto e per giunta gareggiare con uno scrittore immaginifico come il grande Platone? Certo Jules Verne, creatore, come il filosofo greco, di miti e mondi irraggiungibili, a metà strada tra scienza e fantasia, non poteva rifiutare una sfida simile: nel 1870 pubblica Ventimila leghe sotto i mari, la storia di un viaggio alla scoperta dei segreti degli abissi dell’oceano. Verne, seguendo Platone, pone Atlantide oltre lo stretto di Gibilterra. Affascinato dalla geologia, immaginò le isole Canarie, le Azzorre e Capo Verde come le cime affioranti del continente scomparso. Per Verne Atlantide è una città perduta per sempre: le sue vestigia giacciono sul fondo del mare. Templi abbattuti, colonne spezzate e i resti di un grande acquedotto rivelano il gusto decadente dell’epoca e del grand tour, il classico viaggio di formazione in Grecia e in Italia, tra le rovine della civiltà greca e latina. I personaggi di Verne visitano Atlantide come i turisti di oggi visitano Atene o Pompei. Nel romanzo la città è illuminata dai lapilli incandescenti di un grande vulcano. Il riferimento è a Pompei, inghiottita dalla lava del Vesuvio, ma è anche un monito che ci invita a riflettere sulla difficile coesistenza nel nostro mondo tra civiltà e natura. Iperscientifica è invece la ricostruzione di un altro insospettabile che si à lasciato tentare da Atlantide. Sir Arthur Conan Doyle, l’autore di Sherlock Holmes, pubblica nel 1929 L’abisso di Maracot, storia di una spedizione oceanografica al largo delle Canarie con una sorta di batiscafo. Come nel film Sfera, gli esploratori, imprigionati sul fondale, vengono salvati dai sopravvissuti alla distruzione di Atlantide. Costoro sono in grado di modificare le molecole di tutti gli elementi, hanno sviluppato capacità telepatiche e comunicano con gli umani proiettando il loro pensiero su schermi. I personaggi del romanzo vedono la fine di Atlantide su uno schermo come in un film. Cinema e letteratura intrecciano i loro linguaggi: il primo film ispirato ad Atlantide era uscito otto anni prima.
• In uno dei suoi dialoghi, il Crizia, Platone ha descritto in modo accurato Atlantide. Secondo lui, il continente era posto al di là delle colonne d’Ercole (cioè dopo lo stretto di Gibilterra), nell’Oceano Atlantico, come si vede nel disegno qui in alto che ricalca una mappa cinquecentesca (Atlantide ha sempre istigato i cartografi). Era grande come Libia e Asia messe insieme e affondò per un’eruzione vulcanica circa 11000 anni fa. Gli abitanti erano molto ricchi. Al centro dell’isola Poseidone, il dio del mare, aveva fondato la città. Era bellissima e inespugnabile: per arrivare al centro bisognava attraversare tre larghi canali d’acqua, perfettamente concentrici (vedi il disegno in alto nell’altra pagina e la piantina qui a fianco). Un canale partiva dal mare e giungeva fino alla zona circolare più esterna: consentiva così l’accesso alle navi, trasformando Atlantide in una città-porto. Strade e ponti ne collegavano il nucleo centrale con i cerchi di terra circostanti e con il resto dell’isola. Nella città erano stati costruiti i palazzi reali e un tempio: al suo interno c’era la statua del dio e un pilastro di bronzo su cui erano incise le leggi.
• A parte il film di Disney in uscita, il successo cinematografico di Atlantide è immenso: mare, cataclismi e civiltà perdute sono elementi perfetti per il grande schermo. Elementi presenti anche in questo disneyano Atlantis, l’impero perduto. Il cartone animato della Walt Disney racconta la storia del giovane Milo Thatch che, novello Indiana Jones, si batterà eroicamente contro un’aragosta e salverà la bella principessa Kida da un orrendo destino. Ancora una storia d’amore in Atlantide, il continente perduto di George Pal (Usa, 1961). La tormentata storia d’amore tra un pescatore dell’antica Grecia e la principessa d’Atlantide si muove in uno scenario di guerra e complotti, all’ombra di un minaccioso vulcano. Atlantide in questa versione è un mondo ambiguo, dove si intrecciano pericolosamente modernità e arcaismo in un’enigmatica metafora dello scontro tra civiltà. La diffidenza verso quest’antico mondo perduto è ancora più esplicita in I signori della guerra di Atlantide di Kevin Connor (Usa, 1978). Gli atlantidi incarnano il peggio dell’immaginario del diverso: non solo sono di origine aliena, ma addirittura vorrebbero dominare il mondo con un’organizzazione di stampo nazista. Tutt’altro scenario in L’Atlantide di Bob Swaim (Fr/It, 1992), ultima versione cinematografica (la prima è un film muto del 1921) dell’affascinante romanzo di Pierre Benoît. Il deserto si sostituisce all’oceano: è un altrove magico che garantisce però lo stesso straniante isolamento. Benoît segue la teoria dell’archeologo francese Félix Berlioux e immagina un regno nascosto tra i monti africani dell’Atlante. Affascinato dall’antropologia e da leggende berbere di antiche civiltà matriarcali, crea un mondo alla rovescia in cui gli uomini portano il velo e obbediscono a una vorace regina, Antinea, che, come Circe, ammalia le belve e soggioga i suoi amanti, pronti al suicidio se abbandonati. la storia di due legionari francesi che, sperduti nel deserto, trovano questa città leggendaria e si contendono l’amore letale della crudele sovrana.
Eva Cantarella
Il Piccolo Popolo
Nel folklore degli indiani Seminóle si parla spesso di una razza “di persone minute”; invisibili per la maggior parte del tempo, occasionalmente si lasciano vedere dai bambini o dai medicine men. Secondo i Seminóle “sono di aspetto simile agli indiani” e parlano la lingua Muskogee. Sovente si dice che indossino “antichi abiti indiani”, confezionati con pelle di daino. Anche secondo i Seminóle, essi si mostrano ai bambini che vagano in solitudine per i boschi, si prendono cura di loro e gli insegnano come usare le erbe curative. Per questo motivo, gli adulti della comunità non si preoccupano se ogni tanto un bambino scompare, poiché si ritiene sia in compagnia del Piccolo Popolo, e certamente ricomparirà sano e salvo nel giro di due o tre giorni (Howard 1984). L’autrice Chickasaw Dorothy Milligan aggiunge che i racconti dei nativi non sono il semplice frutto di un’immaginazione sfrenata e riferisce, a supporto della sua tesi, di aver ascoltato testimonianze di prima mano riguardo ai rapimenti dei bambini da parte dei membri del Piccolo Popolo (Milligan 1980)
sabato 23 febbraio 2019
Chicomecouatl, dea madre nella civiltà tolteca
La civiltà tolteca, originariamente matriarcale, viene sostituita da una patriarcale, quella dei popoli Nahua, Chicomecouatl sembra essere stata una tipica rappresentazione della Dea antica madre terra: Ella poi viene tirata giù dal cielo primordiale e lacerata in modo analogo alla Tiamat babilonese. Smembrata, diviene l’origine di ogni cibo e mezzo di alimentazione, ma il suo dare nutrimento è legato alla sua fame terribile di cuori umani, che chiede continuamente in sacrifici per essere placata.
La Dea luna Coyolxauhqui degli Atzechi viene brutalmente decapitata dal fratello, il dio del sole, perché aveva osato ostacolare la cospirazione dei fratelli per uccidere la madre, la Dea della terra Coatlique
mercoledì 20 febbraio 2019
Le Mavare siciliane
In Sicilia la strega prende il nome di Mavara, termine spesso interpretato come “ammaliatrice” oppure può essere definita “A Signura”.
In un’epoca in cui i medici sono troppo rari o costosi per il popolino, alcune donne si rivelano “guaritrici” in grado di alleviare o guarire da alcune malattie, che oggi non rappresentano quasi mai un pericolo ma che in quel periodo erano un problema o un rischio reale.
Le streghe o Mavare svolgevano così la loro opera di curatrici, utilizzando nelle loro misteriose pratiche, i segni e le “preghiere”, nonchè le proprietà di determinate piante dei luoghi circostanti.
Le loro pratiche mettevano al sicuro da opere di malocchio e i loro riti aiutavano le donne quando rimanevano sole a casa perchè gli uomini erano in alto mare per la pesca… un ritardo metteva in allarme le compagne dei marinai e le Mavare dopo opportune preghiere interpretavano dei segni che indicavano se il pericolo era reale o se l’ uomo sarebbe tornato a casa sano e salvo così come mi è stato narrato da alcune donne del luogo .
Anche i questo caso gli elementi sono i più semplici e il profano si mescolava con il sacro,
Il pricantozzo o ‘rrazione era composto da una invocazione,dalla descrizione della malattia da guarire o della situazione oppure della descrizione di un episodio della vita di Gesù o dei Santi, e infine l’esortazione al male ad abbandonare la vittima. All’orazione seguiva un rituale da svolgere.Spesso lo scopo dello scongiuro era quello di “liberare” gli individui colpiti da malefici vari, spesso, o quasi sempre, il malocchio o “occhiu rassu” (occhio grasso)fatto anche in maniera inconsapevole dagli stessi familiari della vittima magari nel corso di una discussione familiare. Quando gli amuleti e le pratiche superstiziose non bastavano a contrastare il malocchio si ricorreva alla Mavara che veniva ricompensava con la “truscia” che in pratica era un pagamento coi prodotti della natura.Era diffuso anche l’ uso di una sorta di amuleto consistente in un santino contenuto in un sacchetto e legato con un filo rosso al bulbo di una pianta
Uno dei rituali più diffusi prevedeva l’ uso di sale,olio e acqua.Dopo aver recitato la formula, in un piatto contenente dell’acqua si versano cinque gocce d’olio: se l’olio scompare esiste il malocchio, nel caso contrario non c’è.
Il rituale va ripetuto 3 volte e concluso con 4 segni della croce. Si getta il tutto in un luogo appartato e non frequentato da nessuno .
Naturalmente c’ erano anche rituali atti a danneggiare e anche qui ci si avvaleva dell’ uso di prodotti naturali quali ad esempio il limone…
“A Ruminica a missa porta nù limuni e ammucciuni vattiulu e pizzicuniulu. Quannu torni a casa incilu ri spinguli ecc….”
“La Domenica a messa porta un limone e di nascosto battezzalo e prendilo a pizzicotti. Quando torni a casa riempilo di spilli ecc.”
oppure del sangue mestruale per i legamenti…sangue che poi va aggiunto ad altri ingredienti e caricato con opportune formule e gesti.
Inoltre dalle mie conoscenze le mavare erano capaci di togliere Il fuoco di Sant'Antonio, i "Vermi" o "Spaventi" , ustioni e molto altro...
In questi riti si usavano "le segnature" cioè dei segni a forma di croce che si facevano sul corpo "questa pratica delle segnature era molto usata nella magia contadina".
Le persone capaci di guarire con queste segnature o nascevano con questo dono o una mavara prima della sua morte trasmetteva i suoi insegnamenti a colui che volesse apprendere. Ma "l'allievo" doveva tenere segreto quell' appreso, e anche lui prima della sua morte doveva trasmettere i suoi insegnamenti, cosicchè si creasse una reazione a catena.
Le streghe spesso erano associate a figure di donne che per qualche motivo non si erano sposate e che si vendicavano sui bambini i quali,se al mattino avessero riscontrato delle treccioline annodate sul lato sinistro della testa significava che durante la notte avevano ricevuto la visita di una strega che aveva praticato una fattura ( se era una donna a svegliarsi con i capelli intrecciati poteva essere che era uscita con le Donne di fuora, era cioè anch’essa una strega).
Ma per i bambini poteva essere anche una benedizione e quindi non andavano sciolte perchè questo avrebbe fatto arrabbiare le donne di fuora (le streghe) che avevano impartito la benedizione stessa.
Origini delle Narrazioni del Mondo - Dai miti greci alle storie recenti: il lungo percorso, mai indagato prima, sulle antiche conoscenze dell'umanità - Mirella Santamato - Le storie più belle raccontate dall’umanità si dipanano dalle figure mistiche che gli antichi popoli vedevano guardando le stelle e ponendosi, allora come ora, i quesiti più profondi riguardanti il perché della nostra esistenza. Per questo motivo furono create le scuole iniziatiche, che andavano ad indagare sui misteri più arcani della vita e della morte. Con l’avvento delle crudeli religioni monoteiste, queste antiche scuole di sapere furono chiuse per sempre, con violenza e disprezzo. Tutta quella conoscenza è andata davvero perduta o qualcosa si è salvato, nascondendosi in posti inusitati? E’ quello che andremo a scoprire in questa indagine sul mistero delle origini della nostra cultura. In questo libro scoprirai: Chi ha occultato il sapere antico e riscritto la storia La trama sottile del mondo Un’indagine approfondita sulla genealogia delle antiche storie
lunedì 18 febbraio 2019
Paese che vai, Strega che trovi.
La Dea Circe
La figura di Circe appare per la prima volta nell'Odissea dove viene chiaramente e ripetutamente indicata come dea. Questa dea, figlia di Helios, il dio Sole e di un'altra dea, Perse, ha il potere di preparare dei potenti "pharmakon" con i quali trasforma a sua volontà gli uomini in animali. Tale trasformazione non fa perdere agli sventurati il proprio noos (consapevolezza).
Il termine e la nozione greca di mágos era del tutto sconosciuto all'autore dell'Odissea in quanto introdotto secoli dopo da Erodoto per indicare i sacerdoti persiani.
Con il termine moderno di "mago" si indica comunemente un personaggio che esercita la magia, gli incantesimi, un essere dotato di poteri soprannaturali. Tale termine entra in lingua italiana già prima del XIV secolo proveniente dal latino magus, a sua volta dal greco antico mágos, a sua volta dall'alto persiano maguš. Se l'etimologia è chiara e diretta, i significati nell'antichità erano molto diversi da quelli moderni.
« Nel caso della cultura greca e di quella romana, tuttavia, è proprio sul piano linguistico che si annida il rischio maggiore: data l'origine greco-romana del termine "magia" (mageia in greco, magia in latino), si potrebbe infatti essere portati ad attribuire, fosse anche inconsapevolmente, alle parole antiche un significato moderno, estraneo al loro orizzonte culturale. »
(Marcello Carastro)
« Il termine mágos, e i suoi derivati magheía, maghikós, magheúein, sono attestati in greco fin dall'epoca classica, e forse anche un poco prima. La loro origine è chiarissima: la parola proviene dall'universo religioso dei Persiani, in cui il mágos è un prete, o in ogni caso uno specialista della religione. È Erodoto a parlarcene per primo: i mágoi che formano una tribù o società segreta persiana, hanno la responsabilità dei sacrifici reali, dei riti funebri, della divinazione, e dell'interpretazione dei sogni. Senofonte li qualifica come "esperti" in "tutto ciò che concerne gli dèi". »
(Fritz Graf, La magia nel mondo antico. Bari, Laterza, 2009, p. 21)
È quindi Erodoto che introduce il termine nella lingua greca adattandolo dall'alto persiano e lo fa per descrivere il sacrificio dei Persiani atto a rendere favorevole l'attraversamento dell'esercito di Serse del fiume Strimone. I magoi immolano dei cavalli bianchi, ma Erodoto, descrivendo la bellezza, quindi l'esito positivo del sacrificio da parte dei sacerdoti persiani, utilizza un verbo che non appartiene alla tradizione cultuale greca, pharmakeuein (cfr. VII, 113). Tale termine nella lingua greca indica piuttosto delle preparazioni rituali che possono avere, come nel caso di medicinali o di veleni, degli effetti opposti. Erodoto ritiene che il rito persiano sia piuttosto una sorta di preparazione "potente", certamente con delle connotazioni negative, come parte della loro cultura religiosa è agli occhi del greco Erodoto. Allo stesso modo lo storico greco indica le intonazioni sacrificali dei Persiani che richiamando la propria teogonia suonano all'orecchio di Erodoto non come una preghiera rituale quale si riscontra nella pratica cultuale del greco, ma come una "epode", un incantesimo.
Saranno proprio questi termini, pharmaka ed epodai collegati da Erodoto ai magoi a generare nella cultura greca quel malinteso che inventa la nozione di "magia" in Grecia.
Per questa ragione «nell'Odissea Circe non è una maga (e in termini greci, non potrà esserlo prima del V secolo a.C.)» ma solo «una dea terribile, che trasforma arbitrariamente gli uomini in animali»
Il petroglifo di Lussac les Chateaux
Nel 1937, in una grotta vicino a Lussac (Francia), due archeologi scavando in uno strato di terra vecchio più di 15-20.000 anni, trovarono frammenti di selce (forse attrezzi preistorici). Continuando gli scavi vennero alla luce anche altre pietre sulle quali vi erano incisioni di gente con tratti somatici "moderni" e che indossava abiti "moderni". Queste pietre si trovano nel Museo dell'Uomo a Parigi e non sono visibili al pubblico. L'importanza dell'arte preistorica di Lussac è confermata dalla presenza di numerosi altri reperti archeologici originali trovati in altri siti archeologici e depositati al Museo delle Antichità Nazionali di Saint-Germain en Laye
giovedì 14 febbraio 2019
Sophia
Nella Grecia antica Sophìa è la personificazione della sapienza; acquistò particolare significato teologico-mistico nel giudaismo ellenizzante.
Nei libri sapienziali del tardo ebraismo si configura, a volte con caratteri personali, il concetto di Sophìa come un essere generato da Dio e insieme come principio informante la sua attività (cfr. Siracide 24; Sapienza 7, 22-8,1; Prov. 8, 22-36).
Nel giudaismo alessandrino, Sophìa si fonde con il logos platonico-stoico, quale essere intermedio tra Dio e mondo; nello gnosticismo di Valentino Sophìa è l’ultimo dei 12 eoni che, per desiderio di imitare il Padre, finisce per lacerare l’unità del pleroma, il regno celeste, e dare inizio a un processo di ‘caduta’.
Nel cristianesimo orientale resta vivo il concetto di Sophia come sapienza di Dio, oggetto di particolare culto; mentre in correnti mistico-teosofiche del mondo moderno sembra rivivere un concetto gnostico di Sophìa, vista sempre come intermediario tra uno e molteplice.
Il termine Philosophia (Filosofia) significa "Amore per la Sapienza".
Fonte Enciclopedia Treccani
mercoledì 13 febbraio 2019
Piramo e Tisbe
Secondo la leggenda nella versione ovidiana, l'amore dei due giovani era contrastato dai parenti, e i due, che erano vicini di casa, erano costretti a parlarsi attraverso una crepa nel muro che separava le loro abitazioni. Questa difficile situazione li indusse a programmare la loro fuga d'amore. Nel luogo dell'appuntamento, che era vicino ad un gelso, Tisbe, arrivata per prima, incontra una leonessa dalla quale si mette in salvo perdendo un velo che viene stracciato e macchiato di sangue dalla belva stessa. Piramo trova il velo macchiato dell'amata e, credendola morta, si suicida lanciandosi su una spada. Sopraggiunge Tisbe che lo trova in fin di vita e, mentre tenta di rianimarlo, gli sussurra il proprio nome. Piramo riapre gli occhi e riesce a guardarla prima di morire. Per il grande dolore, anche Tisbe si lancia sulla spada dell'amato sotto il gelso. Tanta è la pietà degli Dei nell'ascoltare le preghiere di Tisbe che trasformano i frutti del gelso, intriso del sangue dei due amanti, in color vermiglio.
martedì 12 febbraio 2019
La terra non è piatta
No, la Terra non è piatta, e lo sapevano, da sempre, anche gli antichi. Tutto questo "movimento" attorno ad una assurdità simile, è a mio parere, solo un test. Test con il quale il "Potere" saggia fino a che punto si potrà spingere nel propinarci le sue menzogne. E pare che questo punto sia ormai ben oltre l'immaginabile.
sabato 9 febbraio 2019
Evoluzione non Autorizzata - Marco Pizzuti - Solo pochi scienziati osano parlare delle conseguenze della più grande rivoluzione tecnologica, culturale e spirituale in atto: l’uomo che conosciamo oggi è destinato a estinguersi! Il progresso tecnologico dei sistemi informatici e le più recenti scoperte della biologia ci stanno trascinando in una nuova epoca in cui l’umanità passerà inevitabilmente dalla stretta interazione con le macchine alla completa fusione con esse, e presto assisteremo all’avvento delle prime generazioni di uomini cyborg. Gli scienziati stanno già lavorando alla creazione di interfacce neurali auto-assemblanti formate da nano-robot intelligenti, capaci di introdursi nel cervello umano senza intervento chirurgico per connetterlo a dispositivi elettronici. Sono in arrivo anche le prime espansioni di memoria per esseri umani e nuove tecniche di caricamento dati per via neurale. Si tratta di veri e propri potenziamenti che, oltre a consentire un upgrade del cervello, consentiranno di immagazzinare qualsiasi informazione disponibile in tempo reale. La biologia nel frattempo ha oltrepassato il confine che la separava dal mondo informatico e i computer del prossimo futuro saranno dei biochip viventi formati da DNA modificato o interamente di sintesi. Marco Pizzuti ci offre un’indagine attenta e documentata sulla prossima evoluzione delle tecnologie attualmente in uso. Sta per nascere una nuova razza ibrida di uomini “semi-dei” mentre le macchine si vanno umanizzando, acquisendo un’intelligenza e una coscienza artificiale del tutto analoghe a quelle dell'uomo. Androidi, robot indossabili, Intelligenza Artificiale, tecnocrazia, sorveglianza 24/7, droni, nano-robot, immortalità cibernetica, avatar, potenziamenti psicofisici, cyborg, meta-materiali e mezzi di trasporto auto guidati sono solo alcune delle novità con cui dovremo abituarci a convivere nei prossimi anni.
Scoperte Scientifiche non Autorizzate - Marco Pizzuti - "La scienza non è nient'altro che una perversione se non ha come suo fine ultimo il miglioramento delle condizioni dell'umanità". La fusione fredda è veramente un traguardo irraggiungibile? Le ricerche del prof. Sergio Focardi e dell'Ing. Andrea Rossi sembrano dimostrarne la fattibilità. Cosa è successo realmente a Tunguska? E se vi dicessero che l'automobile a zero emissioni è già una realtà da anni? Chi erano Viktor Schauberger, Marco Todeschini, John Hutchison, Edward Leedskalnin? Chi ha inventato veramente la trasmissione di energia senza fili (witricity) brevettata nel 2007 dal Massachusets Institute of Technology, che sta per rivoluzionare la distribuzione dell'energia elettrica nella rete domestica? Le salite-discese: solo illusioni ottiche o anomalie del campo gravitazionale? Qual è la stretta connessione tra la ricerca tecnologica e le lobby del petrolio? Perché tutte le conoscenze sulle energie alternative vengono continuamente nascoste e insabbiate attraverso il loro sistematico discredito a livello mass-mediatico e istituzionale? Scoperte scientifiche non autorizzate risponde a queste e a molte altre inquietanti questioni ripercorrendo la storia di Nikola Tesla, uno straordinario e al contempo misconosciuto scienziato che ha gettato le fondamenta tecnologiche della società moderna, e di molti altri "scienziati ribelli" condannati all'oblio dall'establishment scientifico. Finalmente sta per essere sfatato uno dei più diffusi miti della nostra epoca: la libera scienza al servizio di tutti. Perché è l'élite finanziaria globale che da anni manipola consapevolmente il progresso... Un saggio fondato su fatti e storie vere che non hanno nulla da invidiare al più sconvolgente dei romanzi, che ci lascia intravedere quanto avrebbe potuto essere migliore il mondo se solo fosse stato realmente libero. "La scienza non è nient'altro che una perversione se non ha come suo fine ultimo il miglioramento delle condizioni dell'umanità". Nikola Tesla
giovedì 7 febbraio 2019
Micilina la Masca
La leggenda infatti vuole che Micilina nascesse a Barolo e convolasse a nozze proprio a Pocapaglia. Subito dopo il discusso matrimonio cominciarono a serpeggiare le maldicenze, inasprite dal racconto di un incontro nel bosco con un cavaliere vestito di nero che fece aumentare i particolari poteri della donna. Il povero e incolpevole marito della strega morì quasi subito. La donna, sentendosi così libera, cominciò a compiere numerosi sortilegi, i classici delle Masche: da quelli semplicemente dispettosi come il far crescere la barba alle bambine, fino a quelli più completamente malvagi come il gettare le fatture e il malocchio sulle persone.
La disperazione e l’ira dei contadini portarono a delle denunce sia nei confronti dell’autorità civile che di quella religiosa. Una volta incarcerata la donna confessò abiurando il suo passato. Il luogo dove Micaela Angiolina Damasius venne prima impiccata e poi bruciata è Il Bric d’la Masca Micilina (Pocapaglia, provincia di Cuneo). Il luogo possiede ancora oggi una fama sinistra. Secondo la tradizione le chiazze di terreno più scuro sarebbero la testimonianza del sangue versato della strega.
Quando infatti venne condotta al supplizio, nell’aria volarono strane urla e miagolii indispettiti, diavoli e streghe tentarono fino all’ultimo di gettare gomitoli e bandoli per salvarle la vita ma senza alcun successo. Al termine dell’esecuzione le ceneri della strega vennero sparse nel vento. La vicenda ebbe comunque un finale tragico; nel corso degli anni successivi, tutta la zona di Pocapaglia subì la vendetta delle compagne di Micilina: numerosi animali deformi nacquero nel paese, nuove tragedie avvennero tra le famiglie ed ancora oggi si vocifera che il Libro del Comando della maga sia nascosto da qualche parte in attesa della mano che sia degna di impossessarsene.
La cosa strana è che una donna di nome Micaela Angiolina Damasius detta la Micilina fu effettivamente bruciata dopo un processo per stregoneria nel 1544. La donna aveva ammesso le colpe imputatele, ma solo dopo un interrogatorio lungo e carico di numerose sevizie.
TRIORA - La Capitale delle Streghe
Triora, uno dei borghi più belli della Liguria, è diventata da alcuni anni la capitale delle streghe con manifestazioni dedicate, gadget, tour guidati e un museo.
Un ruolo importante lo gioca il fascino misterioso e noir del paese, con i vicoli anneriti, i passaggi oscuri, le montagne intorno.
A quasi 800 metri d’altitudine, il paese di Triora appare protetto dai monti, forte di un passato prestigioso e tenacemente legato alle proprie tradizioni. La visita comincia dal Museo Etnografico e della Stregoneria, che s’incontra subito: un allestimento molto curato e suggestivo racconta la vita e la storia del territorio. Suddiviso in sei sale,
il museo rappresenta le diverse attività della vita contadina: ci sono gli attrezzi da lavoro di contadini, mulattieri, falegnami, una sala per il castagno e una per il vino, la cucina.
Nei sotterranei, antica sede delle carceri, è invece allestito il museo della stregoneria: qui si possono vedere ricostruite scene di interrogatori, streghe intente nelle loro attività, oggetti e documenti del tragico periodo dei processi cinquecenteschi.
Uno dei punti più curiosi e suggestivi di Triora è il rudere della Cabotina, dove, secondo la tradizione, si davano appuntamento le streghe per i loro sabba e i loro intrugli, che si trova poco fuori dalla porta soprana. Saliti a dare un’occhiata ai resti del castello, piuttosto esigui ma sufficienti a rendere l’idea della maestosità dell’edificio, si può entrare nella parte più suggestiva del centro storico di Triora, ricca di opere e palazzi importanti. Il cuore del paese è la piazza Tommaso Reggio, dove si trovano il palazzo Stella, centro del potere triorese per secoli, in cui soggiornò l’inquisitore Giulio Scribani, e l’antichissima Collegiata.
Della primitiva chiesa a tre navate restano pochi segni, come il portale con blocchi di pietra nera e marmo bianco; l’aspetto attuale risale al profondo intervento di ristrutturazione della seconda metà del Settecento. La chiesa custodisce molte opere di grande pregio. Ricca anche la collezione dell’oratorio di San Giovanni Battista, dove aveva sede l’omonima confraternita. Nei pressi della piazza si trovano infine due vie dal nome (e dalla storia) curiosa: Camurata, oscura e fumosa, deve il proprio nome al fatto che per una terribile pestilenza vennero murate porte e finestre; Sambughea fu così chiamata dopo che ,sempre per la micidiale pestilenza , intere famiglie furono sterminate e sulle case abbandonate nacquero i sambuchi.
A quasi 800 metri d’altitudine, il paese di Triora appare protetto dai monti, forte di un passato prestigioso e tenacemente legato alle proprie tradizioni. La visita comincia dal Museo Etnografico e della Stregoneria, che s’incontra subito: un allestimento molto curato e suggestivo racconta la vita e la storia del territorio. Suddiviso in sei sale,
il museo rappresenta le diverse attività della vita contadina: ci sono gli attrezzi da lavoro di contadini, mulattieri, falegnami, una sala per il castagno e una per il vino, la cucina.
Nei sotterranei, antica sede delle carceri, è invece allestito il museo della stregoneria: qui si possono vedere ricostruite scene di interrogatori, streghe intente nelle loro attività, oggetti e documenti del tragico periodo dei processi cinquecenteschi.
Uno dei punti più curiosi e suggestivi di Triora è il rudere della Cabotina, dove, secondo la tradizione, si davano appuntamento le streghe per i loro sabba e i loro intrugli, che si trova poco fuori dalla porta soprana. Saliti a dare un’occhiata ai resti del castello, piuttosto esigui ma sufficienti a rendere l’idea della maestosità dell’edificio, si può entrare nella parte più suggestiva del centro storico di Triora, ricca di opere e palazzi importanti. Il cuore del paese è la piazza Tommaso Reggio, dove si trovano il palazzo Stella, centro del potere triorese per secoli, in cui soggiornò l’inquisitore Giulio Scribani, e l’antichissima Collegiata.
Della primitiva chiesa a tre navate restano pochi segni, come il portale con blocchi di pietra nera e marmo bianco; l’aspetto attuale risale al profondo intervento di ristrutturazione della seconda metà del Settecento. La chiesa custodisce molte opere di grande pregio. Ricca anche la collezione dell’oratorio di San Giovanni Battista, dove aveva sede l’omonima confraternita. Nei pressi della piazza si trovano infine due vie dal nome (e dalla storia) curiosa: Camurata, oscura e fumosa, deve il proprio nome al fatto che per una terribile pestilenza vennero murate porte e finestre; Sambughea fu così chiamata dopo che ,sempre per la micidiale pestilenza , intere famiglie furono sterminate e sulle case abbandonate nacquero i sambuchi.
I Nativi Americani - Un grande classico di Lewis Spence, arricchito dai contributi di Jon E. Lewis, che apre le porte del mondo dei nativi americani: dalla loro religione allo stile di vita, dagli usi e costumi alle tradizioni e leggende. Il racconto entra nei dettagli della vita degli indiani d'America, fornendo anche una mappa dell'insediamento delle diverse tribù con le loro specifiche credenze. Il mondo dei nativi americani è reso attraverso la narrazione del mito delle tribù dell'intero Nord America e illustrato in tutto il suo fascino grazie a contributi eccezionali come un glossario degli dèi, degli spiriti e degli esseri mitici della Nazione. Quali sono le divinità alle quali gli Indiani intonano canti propiziatori? Qual è l'origine dei totem? Quali sono le leggende in cui credono? A queste e a tante altre domande Spence risponde con uno stile vivace che, unito all'esattezza delle ricerche storiche, ne fa un volume di riferimento imperdibile sia per gli appassionati del genere che per i neofiti. La storia degli indiani d'America non comincia nel 1492 con l'arrivo di Cristoforo Colombo, né nel 1620 con lo sbarco del Mayflower: I nativi americani traccia infatti un percorso ideale nel tempo e nello spazio per farci conoscere un mondo antico fatto di tradizioni, costumi e usanze sociali che si sono sviluppate in relazione al territorio e al rapporto con la natura. Un percorso e una riflessione che si rivelano illuminanti per l'uomo contemporaneo. Lewis ci accompagna con passione e maestria alla scoperta di questo universo magico e meraviglioso.
sabato 2 febbraio 2019
Il mito di Lilith
Secondo le varie mitologie, tutte risalenti a poche migliaia di anni fa (cioè in epoca già patriarcale), Lilith è un demone, moglie di demoni e madre di demoni (i Lilim). Perciò è stata spesso associata alle streghe, in senso negativo. Ma è la mitologia ebraica che ci consente di far luce sulla visione che abbiamo di lei. Per gli antichi ebrei Lilith era la prima moglie di Adamo (quindi precedente ad Eva), che fu ripudiata e cacciata via perché si rifiutò di obbedire al marito. Sta qui la chiave del mistero: Lilith è l’archetipo della donna libera, non sottomessa all’uomo e al suo egoismo, non condizionata dalle sue imposizioni e dai suoi ricatti. Naturalmente l'uomo - nelle cui mani stava allora e sta tuttora il potere - di fronte a tale ribellione non poteva fare altro che screditarla e, appunto, demonizzarla. D'altronde anche oggi le donne di questo tipo vengono demonizzate, almeno in senso metaforico. Le donne libere di tutti i tempi, da un certo punto in poi, subirono questa stessa sorte e vennero trasformate in megere vecchie e brutte, in Meduse, Ecati e in temibili "Lune Nere".Il mito di Lilith risale ai tempi in cui la Terra vide il passaggio, avvenuto circa 6000-8000 anni fa, da una società di tipo matrifocale (cioè incentrata sul focus della madre) ad una società patriarcale (cioè basata sul dominio maschile); ossia quando la donna perse il suo ruolo e il suo valore. In questo nuovo ordinamento non c'era più posto neanche per le divinità femminili, e tanto meno per la Dea vera e propria, che venne rinnegata, demonizzata e infine dimenticata. Tant'è vero che il cristianesimo ha un Padre e un Figlio generato - ai primordi - senza alcuna Madre! Anche Lilith è associata alla Luna Nera. Questo perché prima di tutto rappresenta la parte rimossa (e quindi buia e nascosta) di ogni donna: quella parte intuitiva, istintiva e selvaggia, seducente e colma di energia, imprevedibile e ingovernabile dall'uomo, ma non per questo cattiva, tutt’altro. Ma all'uomo una simile creatura fa paura e, invece di integrarla in sé e nella propria cultura, stupidamente la combatte e la respinge nell'«inferno». I risultati sono sotto i nostri occhi. La Luna Nera simboleggia anche la parte in ombra dell'essere umano in generale, ciò che si è necessariamente insinuato in lui quando è venuto a contatto con la materia. Necessariamente perché, senza questa zona oscura, non ci sarebbe essere umano! Esisterebbero solo puri spiriti senza possibilità di esperienza.La Luna Nera è dunque ciò che rende possibile l'esperienza e la crescita, rappresentate a volte come una “discesa agli Inferi”. È ciò che va riconosciuto, accettato, ascoltato, integrato e quindi redento. Possiamo in parte paragonarla alla pietra grezza degli alchimisti, quella strana materia che va trasformata in oro puro: la pietra in sé vale ben poco, ma senza di essa l'oro non potrebbe essere ottenuto. Nella sua concezione originaria, dunque, Lilith era un aspetto della Dea. In quanto protettrice delle partorienti e dei neonati, rappresentava l’essenza divina della maternità, e perciò della vita e dell’inizio di ogni vita. In questo senso tutte le donne sono Lilith: perché la donna è vita, è fertilità, è passione, è trasgressione, è la bellezza di ciò che è stato creato.Alcune moderne correnti di stregoneria, come la Wicca, conoscono tutto ciò e si rifanno per questo al nome di Lilith. Si tratta di cerchie in cui si ricerca il contatto con le energie terrestri e cosmiche, e nelle quali vige la cosiddetta Legge del Tre: tutto ciò che fai - di bene o di male - ti ritornerà indietro moltiplicato per tre. Coloro che abbracciano la Wicca cercano di vivere in un sentimento di unità e armonia con la Terra e con ogni essere vivente (altro che sacrifici di animali!...) e, soprattutto, di non ledere mai la libertà altrui. Stregoneria, in questo senso, è soprattutto il lavoro per trasformare se stessi. I benpensanti, però - Chiese in testa - mettono in guardia la gente da un simile paganesimo, riesumando e insinuando sospetti di ogni genere e terribili paure. Ma vi sono congreghe che si fermano all'aspetto demoniaco di Lilith, per cui l'uso che fanno del suo nome, così come le motivazioni alla base del loro agire, sono davvero indegne e oscure, nel senso peggiore del termine. Oggi, faticosamente, si procede alla riscoperta del volto femminile di Dio. Da una parte se ne occupa il cosiddetto "nuovo paganesimo"; dall'altra è l'antroposofia a muoversi in questa direzione. Ma nonostante i cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni, tuttora viviamo in una società assolutamente maschile, dominata da tre grandi religioni patriarcali, dalle quali i miti antichi sono stati filtrati e trasformati.Così i capelli di Medusa ora suscitano orrore, mentre un tempo simboleggiavano semplicemente la saggezza femminile. Il serpente, infatti, rappresenta quasi sempre la saggezza e la conoscenza. Non è un caso che fosse uno degli emblemi di Atlantide.Per poter interpretare correttamente un mito, perciò, è necessario liberarlo da tutti gli strati sovrapposti dalle culture e religioni successive.Permane qualche ricordo ormai incomprensibile di ciò che veramente è Lilith: ad esempio nella radice del nome del giglio, che in latino è lilium. Le assonanze e le radici sono fondamentali nella cosiddetta "Lingua Verde". Non è strano che proprio il lilium simboleggi la purezza e che sia spesso associato alla Madonna, insieme alla rosa?Il lilium è collegato sia a Lilith che alla Madonna perché entrambe rappresentano, seppur in modo diverso, la donna innocente. Il vero significato del lilium, e in particolare del giglio bianco, è infatti innocenza (oltre che regalità). Ma l'innocenza non ha niente a che vedere col fatto che nel terzo secolo san Girolamo, con calcolo, decise che Gesù era stato l'unico figlio di Maria.
Può sembrare strano, ma c’è un legame tra Lilith e la famigerata Lady MacBeth di Shakespeare. Nonostante l'enorme differenza d'età, esse sono sorelle: perché abitano entrambe in quasi tutte le donne, di solito nelle profondità del loro inconscio, a volte più in superficie. Lady MacBeth è ciò che si può diventare a seguito dell'omicidio della propria Lilith. Perché l'ambizione sfrenata è solo il frutto della più grande insoddisfazione, e non ha altra radice. D'altronde l'omicidio è invenzione di Caino, e la prevaricazione è invenzione di Adamo. Eva offriva solo le mele: dall'albero della conoscenza.
Maria Antonietta Pirrigheddu
La Biblioteca di Alessandria
I primi ad incendiare la Biblioteca di Alessandria sono stati i cristiani al soldo di Cirillo che per questo infame disastro e per l'uccisione della filosofa e astrologa Ipazia Di Alessandria è stato dichiarato "dottore della Chiesa"
Creata nel 331 a.C., pochi anni dopo la fondazione della città da parte di Alessandro Magno, la biblioteca di Alessandria era destinata ad accogliere tutte le opere del sapere umano, di ogni epoca e di ogni Paese.
A metà del III secolo a.C., sotto la direzione del poeta Callimaco di Cirene, si pensa che la biblioteca ospitasse circa 490.000 volumi, e che fossero molti di più due secoli più tardi. Si tratta di cifre discusse, alle quali calcoli più prudenti tolgono uno zero.
Tuttavia, ci rendono l'idea della portata del disastro culturale rappresentato dalla completa distruzione di questi volumi, la cui causa è ancora oggetto di dibattito fra gli storici.
(Incisione raffigurante l'incendio che distrusse probabilmente parte della biblioteca nel 47 a.C., durante la guerra fra Cleopatra e suo fratello, 1876)
venerdì 1 febbraio 2019
Imbolc
La luce che è nata al Solstizio di Inverno comincia a manifestarsi all’inizio del mese di febbraio: le giornate si allungano poco alla volta e anche se la stagione invernale continua a mantenere la sua gelida morsa, ci accorgiamo che qualcosa sta cambiando. Le genti antiche erano molto più attente di noi ai mutamenti stagionali, anche per motivi di sopravvivenza. Questo era il più difficile periodo dell’anno poiché le riserve alimentari accumulate per l’inverno cominciavano a scarseggiare. Pertanto, i segni che annunciavano il ritorno della primavera erano accolti con uno stato d’animo che oggi, al riparo delle nostre case riscaldate e ben fornite, facciamo fatica ad immaginare.
Se sovrapponiamo la Ruota dell’Anno al nostro moderno calendario, la prima festa che incontriamo cade l’1 febbraio.
Presso i Celti l’1 febbraio era Imbolc (pronuncia Immol’c) detta anche Oimelc o Imbolg. L’etimologia della parola è controversa ma i significati rinviano tutti al senso profondo di questa festa. Infatti Imbolc pare derivare da Imb-folc, cioè “grande pioggia’ e in molte località dei paesi celtici questa data è chiamata anche “Festa della Pioggia”: ciò può riferirsi ai mutamenti climatici della stagione ma anche all’idea di una lustrazione che purifica dalle impurità invernali.
Invece Oimelc significa “lattazione delle pecore” mentre Imbolg vorrebbe dire ‘nel sacco” inteso nel senso di “nel grembo” con riferimento simbolico al risveglio della Natura nel grembo della Madre Terra e con un riferimento più materiale agli agnelli, nuova fonte di cibo e di ricchezza, che la previdenza della Natura e degli allevatori avrebbe fatto nascere all’inizio della buona stagione.
L’allattamento degli agnelli garantiva un rifornimento provvidenziale di proteine. Il nuovo latte, il burro, il formaggio costituivano spesso la differenza tra la vita e la morte per bambini e anziani nei freddi giorni di febbraio.
Imbolc è una delle quattro feste celtiche, dette “feste del fuoco” perché l’accensione rituale di fuochi e falò ne costituiscono una caratteristica essenziale. In questa ricorrenza il fuoco è però considerato sotto il suo aspetto di luce, questo è infatti il periodo della luce crescente. Gli antichi Celti, consapevoli dei sottili mutamenti di stagione come tutte le genti del passato, celebravano in maniera adeguata questo tempo di risveglio della Natura. Non vi erano grandi celebrazioni tribali in questo buio e freddo periodo dell’anno, tuttavia le donne dei villaggi si radunavano per celebrare insieme la Dea della Luce (le celebrazioni iniziavano la vigilia, perché per i Celti ogni giorno iniziava all’imbrunire del giorno precedente).
Brigid
Nell’Europa celtica era infatti onorata Brigit (conosciuta anche come Brighid o Brigantia), dea del triplice fuoco; infatti era la patrona dei fabbri, dei poeti e dei guaritori. Il suo nome deriva dalla radice “breo” (fuoco): il fuoco della fucina si univa a quello dell’ispirazione artistica e dell’energia guaritrice.
Brigit, figlia del Grande Dio Dagda e controparte celtica di Athena-Minerva, è la conservatrice della tradizione, perché per gli antichi Celti la poesia era un’arte sacra che trascendeva la semplice composizione di versi e diventava magia, rito, personificazione della memoria ancestrale delle popolazioni.
La capacità di lavorare i metalli era ritenuta anche essa una professione magica e le figure di fabbri semi-divini si stagliano nelle mitologie non solo europee ma anche extra-europee; l’alchimia medievale fu l’ultima espressione tradizionale di questa concezione sacra della metallurgia.
Sotto l’egida di Brigit erano anche i misteri druidici della guarigione, e di questo sono testimonianza le numerose “sorgenti di Brigit”. Diffuse un po’ ovunque nelle Isole Britanniche, alcune di esse hanno preservato fino ad oggi numerose tradizioni circa le loro qualità guaritrici. Ancora oggi, ai rami degli alberi che sorgono nelle loro vicinanze, i contadini appendono strisce di stoffa o nastri a indicare le malattie da cui vogliono essere guariti.
Sacri a Brigit erano la ruota del filatoio, la coppa e lo specchio.
Lo specchio è strumento di divinazione e simboleggia l’immagine dell’Altro Mondo cui hanno accesso eroi e iniziati.
La ruota del filatoio è il centro ruotante del cosmo, il volgere della Ruota dell’Anno e anche la ruota che fila i fili delle nostre vite.
La coppa è il grembo della Dea da cui tutte le cose nascono.
Cristianizzata come Santa Bridget o Bride, come viene chiamata familiarmente in gaelico, essa venne ritenuta la miracolosa levatrice o madre adottiva di Gesù Cristo e la sua festa si celebra appunto l’1 febbraio, giorno di Santa Bridget o Là Fhéile Brfd.
Riguardo questa santa, di cui è tanto dubbia l’esistenza storica quanto certa la sua derivazione pagana, si diceva che avesse il potere di moltiplicare cibi e bevande per nutrire i poveri, potendo trasformare in birra perfino l’acqua in cui si lavava!
A Santa Bridget fu consacrato il monastero irlandese di Kildare, dove un fuoco in suo onore era mantenuto perpetuamente acceso da diciannove monache. Ogni suora a turno vegliava sul fuoco per un’intera giornata di un ciclo di venti giorni; quando giungeva il turno della diciannovesima suora ella doveva pronunciare la formula rituale “Bridget proteggi il tuo fuoco. Questa è la tua notte”. Il ventesimo giorno si diceva fosse la stessa Bridget a tenere miracolosamente acceso il fuoco. Il numero diciannove richiama il ciclo lunare metonico che si ripete identico ogni diciannove anni solari.
Inutile ricordare come questa usanza ricordasse il collegio delle Vestali che tenevano sempre acceso il sacro fuoco di vesta nell’antica Roma, ma più probabilmente la devozione delle suore di Kildare si ricollega alle Galliceniae, una leggendaria sorellanza di druidesse che sorvegliavano gelosamente il loro recinto sacro dall’intrusione degli uomini e i cui riti furono mantenuti attraverso molte generazioni.
Allo stesso modo, nel monastero di Kildare solo alle donne era concesso di entrare nel recinto dove bruciava il fuoco, che veniva tenuto acceso con mantici, come ricorda Geraldo di Cambria nel 120 secolo. Il fuoco bruciò ininterrottamente dal tempo della leggendaria fondazione del santuario, nel 60 secolo, fino al regno di Enrico VIII, quando la Riforma protestante pose fine a questa devozione più pagana che cattolica.
Riti tradizionali di Imbolc
I riti di Brigit celebrati a Imbolc ci sono stati tramandati dal folklore scozzese e irlandese.
Il letto di Bride
Nelle Isole Ebridi (che forse devono il loro nome proprio a Brigit o Bride) le donne dei villaggi si radunano insieme in qualche casa e fabbricano un’ immagine dell’antica Dea, la vestono di bianco e pongono un cristallo sulla posizione del cuore. In Scozia, la vigilia di Santa Bridget le donne vestono un fascio di spighe di avena con abiti femminili e lo depongono in una cesta, il “letto di Brid”, con a fianco un bastone di forma fallica. Poi esse gridano tre volte “Brid è venuta, Brid è benvenuta!”, indi lasciano bruciare torce e candele vicino al “letto” tutta la notte.
Se la mattina dopo trovano l’impronta del bastone nelle ceneri del focolare, ne traggono un presagio di prosperità per l’anno a venire. Il significato di questa usanza è chiaro: le donne preparano un luogo per accogliere la Dea e invitano allo stesso tempo il potere fecondante maschile a unirsi a lei. Anche nell’isola di Man veniva compiuta una cerimonia simile, chiamata Laa’l Breesley. Nell’Inghilterra del Nord, terra dell’antica Brigantia, la ricorrenza veniva denominata “Giorno delle Levatrici”.
La croce di Brigid
In Irlanda, si preparano con giunchi e rametti le cosiddette croci di Brigit, a quattro bracci uguali racchiusi in un cerchio, cioè la figura della ruota solare (che è simbolo appropriato per una divinità del fuoco e della luce); lo stesso giorno vengono bruciate le croci preparate l’anno prima e conservate fino ad allora.La fabbricazione delle croci di Brigit deriva forse da un’antica usanza precristiana collegata alla preparazione dei semi di grano per la semina.
Questi oggetti simbolici, confezionati con materiale vegetale, ci ricordano tra l’altro che la luce ed il calore sono indispensabili alla vegetazione che si rinnova in continuazione, anno dopo anno. Le spighe di avena (o grano, orzo, ecc.) usate per fabbricare le bambole di Brigit, provengono dall’ultimo covone del raccolto dell’anno precedente. Questo ultimo covone, in molte tradizioni europee è chiamato la Madre del Grano (o dell’Orzo, dell’Avena, ecc.) e la bambola propiziatoria confezionata con le sue spighe è la Fanciulla del Grano (o dell’Orzo, dell’Avena, ecc.).Si credeva cioè che lo spirito del cereale o la stessa Dea del Grano risiedesse nell’ultimo covone mietuto: come le spighe del vecchio raccolto sono il seme di quello successivo, così la vecchia divinità dell’autunno e dell’inverno si trasformava nella giovane Dea della primavera, in quella infinita catena di immortalità che è il ciclo di nascita, morte e rinascita. E Brigit rappresenta appunto la giovane Dea della primavera.
Una leggenda
Un antico codice irlandese, il Libro di Lisrnore, riporta una curiosa leggenda. Si narra che a Roma i ragazzi usavano giocare ad un gioco da tavolo in cui una vecchia megera liberava un drago mentre dall’altra parte una giovane fanciulla lasciava libero un agnello che sconfiggeva il drago. La megera allora scagliava un leone contro la fanciulla, la quale però provocava a sua volta una grandine che abbatteva il leone. Papa Bonifacio, dopo aver interrogato i ragazzi e aver saputo che il gioco era stato insegnato loro dalla Sibilla, lo proibì.
La megera non è altro che la Vecchia Dea dell’Inverno sconfitta dalla Giovane Dea della Primavera. Essendo questa leggenda stata raccolta in un ambito culturale celtico, si può supporre che la Vecchia altri non era che la Cailleach a cui si contrappone Brigit. Il riferimento all’agnello è un altro simbolo del periodo di Imbolc, anche se i commentatori medievali lo considerarono l’emblema di Gesù Cristo.
In realtà è la Vecchia Dea che si rinnova trasformandosi in Giovane Dea, così come il Vecchio Grano diviene il nuovo raccolto. I Carmina Gadelica, una raccolta di miti, proverbi e poemi gaelici di Scozia, raccolti e trascritti alla fine dell’800 dal folklorista scozzese Alexander Carmichael, riportano la seguente filastrocca:
“La mattina del Giorno di Bride
Il serpente uscirà fuori dalla tana
Non molesterò il serpente
Né il serpente molesterà me”
Il serpente appare come uno degli animali-totem di Brigit. In molte culture il serpente o drago è simbolo dello spirito della terra e delle forze naturali di crescita, decadimento e rinnovamento. Nel giorno di Bride il serpente si risveglia dal suo sonno invernale e i contadini ne traevano il presagio della fine imminente della cattiva stagione. Il serpente è uno dei molti aspetti dell’antica Dea della terra: la muta della sua pelle simboleggia il rinnovamento della Natura e anche la sua dualità Infatti in gaelico “neamh” (cielo) è simile a “naimh” (veleno), provenendo entrambi dalla radice “nem”. La Vecchia Dea e la Giovane Dea sono la stessa persona! (nelle fiabe l’eroe che coraggiosamente bacia una vecchia megera si ritrova di fronte una bellissima fanciulla...)
La Dea Februa
In un’altra area culturale europea, nell’antica Roma, i primi giorni di febbraio erano sacri alla dea Februa o a Giunone Februata. “Februare” in latino significa purificare, quindi febbraio è il mese delle purificazioni (anche la febbre è un modo di purificarsi usato dal nostro corpo!).
Processioni in onore di Februa percorrevano la città con fiaccole accese, simbolo di luce e allo stesso tempo, di purificazione.
La Candelora
Un’altra usanza, legata anche a rituali di fertilità erano i Lupercali: i Luperci, sacerdoti di Fauno, correvano per le strade vestiti solo con una pelle di capra e con una frusta (anche essa fabbricata con strisce di pelle di capra) con la quale battevano le giovani spose per propiziarne la fertilità (e quindi la capacità di partorire).
La Chiesa, per combattere queste usanze, istituì processioni con candele, alle quali a partire dall’11° secolo aggiunse la benedizione delle candele per gli altari. Col nome di Candelora o Candlemas (nei paesi anglosassoni) è nota la festa cristiana del 2 febbraio, denominata “Presentazione del Signore al Tempio”. Ma è evidente che la nuova religione non ha potuto modificare il significato autentico della festa, un significato che è profondamente incarnato nella Natura e nello spirito umano.
Il legame della festa con le candele, la purificazione e l’infanzia, sopravvisse nell’usanza medievale di condurre le donne in chiesa dopo il parto a portare candele accese.
L’idea di una purificazione rituale in questo periodo è rimasta forte nel folklore europeo. Ad esempio le decorazioni vegetali natalizie vengono messe da parte e bruciate alla Candelora per evitare che i folletti che in esse si sono nascosti infestino le case.
Il concetto di purificazione è presupposto di una nuova vita: si eliminano le impurità del passato per far posto alle cose nuove. Alcuni gruppi neopagani europei festeggiano Imbolc accendendo candele che sporgono da una bacinella di acqua. Il significato è quello della luce della nuova vita che emerge dalle acque del grembo materno, le acque lustrali di Imbolc che lavano via le scorie invernali. Un antico detto celtico ricordava come fosse una buona cosa lavarsi mani e viso a Imbolc!
La pianta sacra di Imbolc è il bucaneve. E’ il primo fiore dell’anno a sbocciare e il suo colore bianco ricorda allo stesso tempo la purezza della Giovane Dea e il latte che nutre gli agnelli.
Un’altra usanza, legata anche a rituali di fertilità erano i Lupercali: i Luperci, sacerdoti di Fauno, correvano per le strade vestiti solo con una pelle di capra e con una frusta (anche essa fabbricata con strisce di pelle di capra) con la quale battevano le giovani spose per propiziarne la fertilità (e quindi la capacità di partorire).
La Chiesa, per combattere queste usanze, istituì processioni con candele, alle quali a partire dall’11° secolo aggiunse la benedizione delle candele per gli altari. Col nome di Candelora o Candlemas (nei paesi anglosassoni) è nota la festa cristiana del 2 febbraio, denominata “Presentazione del Signore al Tempio”. Ma è evidente che la nuova religione non ha potuto modificare il significato autentico della festa, un significato che è profondamente incarnato nella Natura e nello spirito umano.
Il legame della festa con le candele, la purificazione e l’infanzia, sopravvisse nell’usanza medievale di condurre le donne in chiesa dopo il parto a portare candele accese.
L’idea di una purificazione rituale in questo periodo è rimasta forte nel folklore europeo. Ad esempio le decorazioni vegetali natalizie vengono messe da parte e bruciate alla Candelora per evitare che i folletti che in esse si sono nascosti infestino le case.
Il concetto di purificazione è presupposto di una nuova vita: si eliminano le impurità del passato per far posto alle cose nuove. Alcuni gruppi neopagani europei festeggiano Imbolc accendendo candele che sporgono da una bacinella di acqua. Il significato è quello della luce della nuova vita che emerge dalle acque del grembo materno, le acque lustrali di Imbolc che lavano via le scorie invernali. Un antico detto celtico ricordava come fosse una buona cosa lavarsi mani e viso a Imbolc!
La pianta sacra di Imbolc è il bucaneve. E’ il primo fiore dell’anno a sbocciare e il suo colore bianco ricorda allo stesso tempo la purezza della Giovane Dea e il latte che nutre gli agnelli.
Celebrare Imbolc
Fisicamente è opportuno praticare una dieta più leggera, dopo che i banchetti delle feste invernali e la forzata sedentarietà trascorsa al chiuso delle nostre case, hanno appesantito il nostro fisico. Possiamo anche decidere di fare una bella pulizia in casa! E’ utile purificare la nostra casa e il nostro corpo con il fumo dell’incenso: vanno benissimo anche i bastoncini di incenso profumati che si trovano ovunque in commercio. Scegliamo pure l’aroma che ci piace di più e lasciamo che il fumo sottile pulisca i nostri corpi energetici.
Psicologicamente è il momento di purificare la nostra mente dai cattivi pensieri e dai sentimenti inadeguati. Una bella pulizia mentale, che ci consenta di fare entrare in noi la luce della Natura rinnovata e di partecipare al risveglio del cosmo dalla lunga notte invernale.
Spiritualmente può essere utile la celebrazione di piccoli rituali legati ai simboli della festa.
Qui di seguito vengono proposti tre riti che possono essere eseguiti per celebrare Imbolc.
Accendere una candela
Un rituale molto semplice può essere quello di accendere una candela bianca (colore di purificazione) dicendo “Accendo la fiamma di Brigit per illuminare il cammino della mia vita”.
Si mediti per un po’ di tempo sui significati della festa: sul nostro bisogno di purificazione, sulla necessità di abbandonare cose e aspetti della nostra vita che non ci piacciono più, sulle nuove cose che vogliamo portare nelle nostre esistenze.
Poi si porti la candela accesa nelle varie stanze della nostra abitazione, facendo il giro degli ambienti in senso orario (magicamente è la direzione propizia, che porta energia). Alla fine si spenga la candela dicendo “Spengo la fiamma di Brigit per farla vivere in me” e si visualizzi la luce della candela che entra in noi.
Festeggiare Brigid in una famiglia
Se si vuole compiere qualcosa di più tradizionale, gli uomini possono uscire dopo l’imbrunire della vigilia di Imbolc, per andare a raccogliere un dono per Brigit (pietra, conchiglia, penna di uccello) da riportare in casa. Le donne invece possono trascorrere la vigilia di Imbolc pulendo la casa e immaginando di ramazzare via le energie morte dell’inverno: la Vecchia dell’Inverno è cacciata fuori dall’uscio di casa con la scopa.
Poi, sempre le donne, con rametti raccolti in precedenza preparano un letto per Brigit dove depongono una bambola fabbricata con spighe tenute da parte per l’occasione, e danno il benvenuto alla Dea accendendo una candela bianca e meditando sulla nuova vita che sta tornando.
Anche gli uomini, ritornati in casa con il dono per Brigit possono accendere una candela bianca e meditare sul ritorno della luce e della buona stagione.
Accendere tre candele
Un rituale invece più complesso, che possono eseguire tutti, consiste nel procurarsi tre candele (sempre di colore bianco!), e disporle in un triangolo, con la punta rivolta verso nord. Nel centro del triangolo così disposto si pone un calice di acqua (simbolo della purificazione) o di latte (simbolo del nutrimento della nuova vita).
Dopo un breve rilassamento, seduti o in piedi, ci si muove verso la candela a nord, la si accende e si dice “Signora dell’Inverno, ti dico addio, la tua stagione è terminata”. Si visualizzi il gelido potere dell’inverno che si allontana. Dopo avere sostato un po’, ci si sposta alla candela di sud-est, la si accende e si dice “Signora della Primavera, ti offro un caloroso benvenuto, la terra è il tuo letto”. Si visualizzi il gioioso potere della primavera che si avvicina. Dopo un po’ si va alla candela di sud-ovest, la si accende e si dice “Signora dell’Estate, presto io ti chiamerò e risveglierò il tuo amante”. Si visualizzi il potere ancora lontano della bella stagione, desideroso di nascere e pulsante di vita nel sottosuolo.
Quando ci si sente pronti, si va al centro del triangolo, si raccoglie il calice e si dice “Io bevo il potere della Triplice Dea. Possa questo potere diffondersi su tutta la terra per segnare la nascita della primavera”. Si beve dal calice e si immagina il potere che fluisce in noi, attraverso di noi per risvegliare la Natura. A questo punto si può inserire qualche usanza ricordata in precedenza, cioè la fabbricazione del letto di Brigit o l’arsione delle decorazione vegetali delle feste invernali. Oppure si può semplicemente concludere la cerimonia andando a ciascuna delle candele, nell’ordine in cui sono state accese: si spengono dicendo mentalmente o ad alta voce “Va’ fuoco e caccia l’inverno, riscalda la terra e risveglia la primavera”. Ovviamente in tutti questi piccoli rituali le parole delle formule possono essere adattate e se lo desideriamo, possiamo utilizzare brevi frasi che noi stessi avremo composto, secondo le nostre capacità e la nostra sensibilità.
Tratto da: Roberto Fattore. Feste Pagane
Fisicamente è opportuno praticare una dieta più leggera, dopo che i banchetti delle feste invernali e la forzata sedentarietà trascorsa al chiuso delle nostre case, hanno appesantito il nostro fisico. Possiamo anche decidere di fare una bella pulizia in casa! E’ utile purificare la nostra casa e il nostro corpo con il fumo dell’incenso: vanno benissimo anche i bastoncini di incenso profumati che si trovano ovunque in commercio. Scegliamo pure l’aroma che ci piace di più e lasciamo che il fumo sottile pulisca i nostri corpi energetici.
Psicologicamente è il momento di purificare la nostra mente dai cattivi pensieri e dai sentimenti inadeguati. Una bella pulizia mentale, che ci consenta di fare entrare in noi la luce della Natura rinnovata e di partecipare al risveglio del cosmo dalla lunga notte invernale.
Spiritualmente può essere utile la celebrazione di piccoli rituali legati ai simboli della festa.
Qui di seguito vengono proposti tre riti che possono essere eseguiti per celebrare Imbolc.
Accendere una candela
Un rituale molto semplice può essere quello di accendere una candela bianca (colore di purificazione) dicendo “Accendo la fiamma di Brigit per illuminare il cammino della mia vita”.
Si mediti per un po’ di tempo sui significati della festa: sul nostro bisogno di purificazione, sulla necessità di abbandonare cose e aspetti della nostra vita che non ci piacciono più, sulle nuove cose che vogliamo portare nelle nostre esistenze.
Poi si porti la candela accesa nelle varie stanze della nostra abitazione, facendo il giro degli ambienti in senso orario (magicamente è la direzione propizia, che porta energia). Alla fine si spenga la candela dicendo “Spengo la fiamma di Brigit per farla vivere in me” e si visualizzi la luce della candela che entra in noi.
Festeggiare Brigid in una famiglia
Se si vuole compiere qualcosa di più tradizionale, gli uomini possono uscire dopo l’imbrunire della vigilia di Imbolc, per andare a raccogliere un dono per Brigit (pietra, conchiglia, penna di uccello) da riportare in casa. Le donne invece possono trascorrere la vigilia di Imbolc pulendo la casa e immaginando di ramazzare via le energie morte dell’inverno: la Vecchia dell’Inverno è cacciata fuori dall’uscio di casa con la scopa.
Poi, sempre le donne, con rametti raccolti in precedenza preparano un letto per Brigit dove depongono una bambola fabbricata con spighe tenute da parte per l’occasione, e danno il benvenuto alla Dea accendendo una candela bianca e meditando sulla nuova vita che sta tornando.
Anche gli uomini, ritornati in casa con il dono per Brigit possono accendere una candela bianca e meditare sul ritorno della luce e della buona stagione.
Accendere tre candele
Un rituale invece più complesso, che possono eseguire tutti, consiste nel procurarsi tre candele (sempre di colore bianco!), e disporle in un triangolo, con la punta rivolta verso nord. Nel centro del triangolo così disposto si pone un calice di acqua (simbolo della purificazione) o di latte (simbolo del nutrimento della nuova vita).
Dopo un breve rilassamento, seduti o in piedi, ci si muove verso la candela a nord, la si accende e si dice “Signora dell’Inverno, ti dico addio, la tua stagione è terminata”. Si visualizzi il gelido potere dell’inverno che si allontana. Dopo avere sostato un po’, ci si sposta alla candela di sud-est, la si accende e si dice “Signora della Primavera, ti offro un caloroso benvenuto, la terra è il tuo letto”. Si visualizzi il gioioso potere della primavera che si avvicina. Dopo un po’ si va alla candela di sud-ovest, la si accende e si dice “Signora dell’Estate, presto io ti chiamerò e risveglierò il tuo amante”. Si visualizzi il potere ancora lontano della bella stagione, desideroso di nascere e pulsante di vita nel sottosuolo.
Quando ci si sente pronti, si va al centro del triangolo, si raccoglie il calice e si dice “Io bevo il potere della Triplice Dea. Possa questo potere diffondersi su tutta la terra per segnare la nascita della primavera”. Si beve dal calice e si immagina il potere che fluisce in noi, attraverso di noi per risvegliare la Natura. A questo punto si può inserire qualche usanza ricordata in precedenza, cioè la fabbricazione del letto di Brigit o l’arsione delle decorazione vegetali delle feste invernali. Oppure si può semplicemente concludere la cerimonia andando a ciascuna delle candele, nell’ordine in cui sono state accese: si spengono dicendo mentalmente o ad alta voce “Va’ fuoco e caccia l’inverno, riscalda la terra e risveglia la primavera”. Ovviamente in tutti questi piccoli rituali le parole delle formule possono essere adattate e se lo desideriamo, possiamo utilizzare brevi frasi che noi stessi avremo composto, secondo le nostre capacità e la nostra sensibilità.
Tratto da: Roberto Fattore. Feste Pagane
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