martedì 26 febbraio 2019

Il primo a parlare di Atlantide fu Platone 429-347 a. C.


• Il primo a parlare di Atlantide fu Platone (429-347 a.C.). Un giorno – racconta in uno dei suoi Dialoghi, il Timeo – Solone aveva espresso un desiderio: voleva che i sacerdoti egiziani raccontassero le leggende più antiche della terra. Uno di loro, Sais, accogliendo la richiesta, aveva raccontato una storia legata al passato della città di Atene, di cui nessuno si ricordava più: Atene era stata, novemila anni prima, una città forte, fiera e giusta, governata da ottime leggi. Una città dalle istituzioni perfette, le migliori che si potessero immaginare. Tenendo conto che Solone visse a cavallo tra il VII e il VI secolo a.C., la città ideale sarebbe sorta, dunque, circa undicimilaseicento anni or sono. E secondo il racconto del sacerdote egizio si sarebbe resa benemerita di fronte all’umanità di un’impresa gloriosa. Verso occidente, al di là dellecolonne d’Ercole (il nome che gli antichi davano allo stretto di Gibilterra), esisteva un’isola su cui dominava un potere forte e violento, che minacciava di sottomettere tutto il mondo conosciuto.
• Questa potenza nemica era Atlantide, che aveva conquistato parte del continente africano, dalla Libia all’Egitto, nonché il territorio europeo sino alla Tirrenia (le coste del Tirreno, non identificabili con certezza). Ma ai despoti che regnavano sull’isola questo non bastava; volevano il totale dominio delle terre, compreso l’Oriente: dunque, anche il territorio greco. La minaccia era enorme, ma Atene si era opposta e da sola aveva sconfitto il nemico apparentemente invincibile. I Greci, che mai erano stati schiavi, avevano mantenuto la loro libertà, e grazie a loro aveva evitato le catene l’intero continente europeo. Ma la grandezza di Atlantide non era destinata a sopravvivere. Dopo alcuni secoli, nel breve corso di un giorno e una notte, un cataclisma di indicibili proporzioni aveva inghiottito la terra e gli abitanti della città. Sommersa dalle acque, Atlantide era scomparsa per sempre. Questo il racconto di Platone.
• Ma cosa sappiamo delle caratteristiche fisiche del continente, della vita che vi si conduceva, dei suoi abitanti? A queste domande risponde un altro dialogo platonico, il Crizia, in cui Platone descrive Atlantide minutamente, quasi a volerle dare concretezza, illustrando le sue caratteristiche geografiche, urbanistiche, politiche e sociali. Atlantide, dice Crizia, era la terra di Poseidone. Gli dèi infatti si erano divisi il mondo, tirando a sorte, e al dio del mare era toccata l’isola oltre le colonne d’Ercole. Questa era costituita, nella parte centrale, da una pianura, la più amena e ricca di prodotti che si potesse immaginare. Lontano dalla pianura, a circa cinquanta stadi dal centro dell’isola, c’era una montagna, sulla quale viveva un uomo di nome Euenore, con la sua sposa Leucippe e con una figlia, Cleitò, di cui Poseidone si era innamorato.
• Divenuta sposa e madre dei figli del dio, Cleitò abitava una casa attorno alla quale il dio aveva costruito una fortificazione, scavando la terra e creando una serie di ostacoli. Alternandoli l’uno all’altro, egli aveva creato fossati ora grandi ora piccoli, ora concentrici in forma di ruote, dal cerchio così perfetto che pareva fatto da un tornio che avesse avuto come centro quello dell’isola. Due di queste ruote erano di terra, tre erano riempite dal mare, e gli intervalli che separavano uno spazio dall’altro, tutti di ugual misura, erano assolutamente insuperabili. Nel centro dell’isola, nella cittadella-capitale, vennero costruiti i palazzi reali, dove vivevano i sovrani, discendenti dei figli di Poseidone e Cleitò. E ciascuno di loro trasmetteva il potere al suo primogenito. Ma i sovrani non erano tutti dello stesso grado: Poseidone aveva nominato il suo primogenito re degli altri re, e questa gerarchia si era protratta nel tempo.
• Nella cittadella sorgeva inoltre un tempio nel quale era collocata una statua del dio, attorniato da cento nereidi su delfini e raffigurato in atto di domare sei cavalli alati. Nel tempio, su un pilastro di bronzo, era inciso un codice di leggi e in questo tempio i re si riunivano allo scadere di periodi di tre o quattro anni, per compiervi gli atti fondamentali di governo, a partire dalla promulgazione delle leggi: cui provvedevano, peraltro, solo dopo aver cacciato i tori che vagavano liberi nel recinto del tempio e aver sacrificato uno di essi in modo che il suo sangue scorresse sul pilastro su cui erano scritte le leggi. Al termine della cerimonia, dopo aver promulgato le leggi, i re libavano agli dèi, banchettavano e, vestiti di abiti azzurri, tenevano il tribunale durante la notte, e all’alba scrivevano le sentenze su una tavola d’oro.
• Ma torniamo all’aspetto fisico e urbanistico dell’isola: per abbellire il proprio palazzo, ciascuno dei sovrani aveva costruito opere bellissime. Un canale largo tre pletri (88 metri), profondo cento piedi (29 metri) e lungo cinquanta stadi (nove chilometri) partiva dal mare e giungeva fino alla zona circolare più esterna, a forma di ruota, consentendo l’accesso alle navi come un porto. Strade e ponti collegavano la cittadella con i cerchi di terra circostanti e con il resto dell’isola. L’intera metropoli era circondata da mura. Quanto alle risorse di cui l’isola era ricca, alla flora e alla fauna, basterà citare le molte miniere di metalli preziosi, le foreste da cui veniva ricavato il legname, la terra che produceva tutti i prodotti necessari a nutrire gli animali, sia addomesticati sia selvaggi. Tra cui -’ specifica Platone – un grande numero di elefanti, enormi e voracissimi: ma neppure a questi mancava mai il cibo, tanta era la ricchezza della natura dell’isola felice (Crizia, 113b-116c).
• Sin qui la descrizione platonica. Che, come è intuibile, pone un problema che continua a essere dibattuto dopo quasi duemilacinquecento anni. Atlantide è un mito o riflette una realtà storica? Sin dall’antichità, le risposte furono diverse. Nel IV secolo a.C. Crantore, il primo editore del Timeo, giurava sull’autenticità del racconto ma, come risulta da Strabone, il suo contemporaneo Aristotele era di parere opposto: secondo il filosofo non era un caso se Platone aveva fatto inabissare Atlantide nelle profondità del mare. Così facendo aveva voluto evitare che qualcuno gli chiedesse dove si trovava. Come dicevamo, il dibattito non si è ancora sopito. E ha fatto versare fiumi di inchiostro. Già mezzo secolo fa si calcolava che al continente perduto fossero stati dedicati più di duemila libri. Alcuni dei quali, peraltro, si limitavano a usare Atlantide come scenario di una situazione immaginaria: valga, per tutti, un esempio celebre, quello di Francis Bacon (Bacone) che, nel 1627 fantasticava di un’Atlantide in Brasile.
• La varietà e spesso la fantasiosità delle ipotesi è sconcertante. A darne un’idea basteranno alcuni esempi. Se nel I secolo d.C. Plinio il Vecchio collocava Atlantide in Spagna (più precisamente a Gades, oggi Cadice), attorno al 1700 Olof Rudbeck, di Uppsala, sosteneva che i Goti discendeva dagli abitanti di Atlantide. Nel 1779 il francese Jean Sylvain Bailly collocava il continente perduto in Siberia. Nel 1803 un ufficiale napoleonico, Bory de St. Vincent, lo identificava con le Canarie; attorno al 1870 Augustus Le Plongeon, una singolare e interessante figura di avventuriero, sosteneva che i Maya di Chichen Itza erano i discendenti degli Atlantidi. Nel 1882 un deputato del Congresso americano, Ignatius Donnelly, affermava che si trattava delle Azzorre.
• Nel 1922 un archeologo tedesco recuperava l’ipotesi spagnola, giungendo a intraprendere degli scavi alla foce del Guadalquivir. Nel 1930 lo storiografo Robert Graves asseriva che Atlantide si trovava nel lago Triton, una laguna salina essiccata da millenni in Liberia. Persino i nazisti si interessarono al continente perduto e nel 1931 Heinrich Himmler, convinto di trovarne le tracce, fece eseguire degli scavi nei pressi dell’isola Helgoland, nel Mar Baltico. Negli anni Settanta diventarono di moda i Caraibi: c’era chi cercava alle Bermuda, chi alle Bahamas, ma c’era anche chi conduceva i suoi studi su un atollo delle isole Bikini.
• Molte di queste ipotesi sono pura fantasia. Ma non tutte. Alcune hanno un fondamento scientifico e tra queste una che sembra meritare maggior attenzione di altre: l’ipotesi minoica. Atlantide, secondo questa ipotesi, sarebbe l’isola di Creta o, secondo alcuni, la vicina Thera (oggi Santorini); sono le isole nelle quali fiorì la civiltà minoica. Una splendida civiltà che i greci antichi avevano dimenticato e che fu riscoperta nel secolo scorso, grazie agli scavi condotti a Cnosso da Arthur Evans a partire dal 1900. Evans aveva avuto modo di vedere ad Atene la famosa maschera funeraria in oro, attualmente conservata al Museo Nazionale di Atene, trovata nel 1876 da Heinrich Schliemann durante gli scavi a Micene, «la ricca d’oro» come la chiamava Omero. Qui Schliemann, archeologo dilettante, aveva portato alla luce i resti di un palazzo magnifico e di tombe ricchissime. Entusiasmato da queste scoperta, Arthur Evans si era convinto che gioielli raffinati come la maschera funeraria (che Schliemann aveva identificato senza esitazioni con quella di Agamennone) potevano essere solo il prodotto di una società che conosceva la scrittura e che aveva una buona divisione del lavoro. E poiché aveva notato alcune incisioni su delle gemme trovate nelle botteghe di un antiquario di Atene e aveva stabilito che queste gemme provenivano da Creta, era andato immediatamente sull’isola dove, nel 1900, iniziò le ricerche, a Cnosso. Dopo una settimana aveva già rinvenuto le tracce di una scrittura sconosciuta, da lui chiamata «lineare A»: la scrittura usata dai sovrani minoici a fini amministrativi e contabili, introdotta probabilmente attorno al 1750 a.C.
• A Creta – e, come si scoprì successivamente, anche sulla vicina Thera – era dunque fiorita una civiltà insulare, ricca, raffinata e che conosceva la scrittura. Quasi inevitabile che qualcuno pensasse ad Atlantide. E così fu: sul Times del 1909 apparve un articolo in questo senso, a firma di K.T. Frost. Ma a diffondere e accreditare l’ipotesi furono le ricerche, a partire dal 1939, dell’archeologo greco Spiridion Marinatos. Nel 1950 Marinatos, al quale si devono gli scavi che hanno portato alla luce imponenti resti minoici anche a Thera, pubblicò un articolo destinato a diventare famoso: «Some Words about Atlantis» (Qualche parola su Atlantide). Il racconto di Platone, diceva Marinatos, era una sintesi di tradizioni storiche diverse, tra le quali il racconto sumerico del diluvio e una storia egizia del periodo del Medio Regno, che raccontava il naufragio di una nave su un’isola scomparsa. Atlantide, dunque, era realmente esistita: anche se – diceva Marinatos – la data fornita da Platone era sbagliata. Novemila anni prima di Solone in Grecia non esistevano popoli capaci di compiere le imprese descritte da Platone, né egiziani in grado di scriverle. L’epoca doveva essere la più recente età del Bronzo. Ma perché questa data? Perché in quell’epoca un cataclisma aveva sconvolto il Mediterraneo: l’eruzione del vulcano sull’isola di Thera.
• Le proporzioni del maremoto provocato da questa eruzione era stata di tale intensità da poter essere paragonata a un’esplosione nucleare. Tra i maremoti sarebbe paragonabile solo a quello legato all’eruzione del vulcano Krakatoa, a est di Java, il 27 agosto del 1883. Sulla base di queste considerazioni, Marinatos giunse a una conclusione: l’esplosione del vulcano di Santorini aveva determinato la scomparsa non solo dell’isola, ma dell’intera civiltà minoica, in una data collocabile attorno al 1400 a.C. Come fu accolta questa ipotesi? Spesso con scetticismo, ma anche con molto interesse. Ma negli ultimi anni all’ipotesi minoica se ne è affiancata un’altra. Nel 1999 cinque esperti dell’Istituto di scienze geologiche di Hannover, guidati dal direttore del dipartimento di geofisica aerea, cominciarono a lavorare a un progetto definito dal loro portavoce simile a un’avventura di Indiana Jones: cercare Atlantide nei pressi delle rovine di Troia. Di nuovo, all’origine dell’ipotesi stanno gli scavi di Schliemann. Prima delle ricerche a Micene, Schliemann aveva condotto degli scavi nel posto dove, sulla base della lettura di Omero, egli riteneva dovesse essere la città di Troia (nella cui storicità, allora, nessuno credeva).
• Nel 1870 – fra la più o meno benevola condiscendenza del mondo accademico – Schliemann si mise alla ricerca della città di Priamo nella località di Hissarlik, nel Nord dell’Anatolia. E tra lo stupore generale la trovò. O meglio trovò le rovine di una città, ma più antica di quella omerica: le successive ricerche, infatti, portarono alla luce ben nove insediamenti, rivelando che, in effetti, nei luoghi individuati da Schliemann era esistita, era stata distrutta e ricostruita più volte una grande città. Sostanzialmente Schliemann aveva avuto ragione: la città di Troia era esistita. Questo il punto di partenza, il presupposto che nel 1992 consentì a un geo-archeologo svizzero, Eberhard Zanggert, di avanzare l’ipotesi che Troia fosse Atlantide. Ma sulla base di quali ragionamenti? Fondamentalmente della considerazione che Atlantide era ricca di acque e di canali e nella zona su cui l’Istituto di Hannover decise di concentrare le ricerche il popolo degli Urartei, che allora abitava la regione, aveva compiuto opere di alta ingegneria, simili a quelle degli Egizi. Analogie, dunque: tra le quali il fatto che, come racconta Omero, Troia possedeva una ricchissima flotta, di ben millecentottantasei navi. E Atlantide, secondo Platone, ne possedeva milleduecento. E ancora: sia nell’area dove sorgeva Troia sia ad Atlantide soffiava un forte vento da nord. Infine: come ad Atlantide, a Troia c’erano due sorgenti, la cui acqua era raccolta da due pozzi, «uno ardente come fuoco», dice Omero, «l’altro freddo come grandine». Fermiamoci qui. Quanto sia ampio lo spettro delle ipotesi è stato mostrato. Quale di esse appare più credibile? Per chi credesse che il continente perduto non è un semplice mito, l’ipotesi minoica sembra vantare maggiori elementi di concretezza. Quantomeno sino a oggi. Perché una sola cosa è certa, in tutto questo: su Atlantide verranno fatte altre ipotesi. Accettare che un bel sogno sia solo tale è sempre molto difficile.
• Volete passare una notte nel fantastico mondo di Atlantide? Oggi è possibile. Naturalmente il paradiso perduto di Atlantide è stato ricostruito in uno dei nuovi paradisi della Terra, Paradise Island alle Bahamas. Come la nuova Venezia di Las Vegas, dove è possibile giocare alla roulette e mangiare in lussuosi ristoranti tra ponti pittoreschi e romantici canali che riproducono l’antica città italiana, così a Paradise Island si può dormire nella mitica città di Platone. In questo caso non esiste un vero e proprio modello e gli ideatori quindi si sono potuti sbizzarrire, ispirandosi a tutte le fonti dell’immaginario e del mito moderno, prima fra tutte il cinema. Ma come il cinema crea storie più vere del vero, che molti finiscono per considerare realtà, così molti turisti dell’Atlantis Hotel pensano di ritrovarsi in un vero sito archeologico adattato ad albergo dove, invece del ristorantino tipico, si possono conoscere le meraviglie del mondo perduto. Mito, magia e pubblicità si intrecciano in un cocktail vincente: «Incontrerete creature antropofaghe, antiche rovine e il popolo che venera il sole». Le quasi 2500 camere si estendono in un fantastico parco acquatico, con stanze subacquee e 50.000 pesci di ogni specie, tra colonnati, fontane e conchiglie di marmo. I turisti possono entrare nello studio del mitico scopritore della città e vedere le sue mappe. Pezzi di scafandri ed enigmatiche bombole convincono gli ospiti che, come a Pompei, la fuga prima della distruzione deve essere stata improvvisa e drammatica. La localizzazione di Atlantide alle Bahamas ha una tradizione, che nasce con i veggenti statunitensi d’inizio Novecento. Ma forse neanche il veggente Cayce aveva previsto l’Atlantis Hotel.
• Che cosa ci può essere di meglio per un romanziere che ricreare con la fantasia un mondo perduto e per giunta gareggiare con uno scrittore immaginifico come il grande Platone? Certo Jules Verne, creatore, come il filosofo greco, di miti e mondi irraggiungibili, a metà strada tra scienza e fantasia, non poteva rifiutare una sfida simile: nel 1870 pubblica Ventimila leghe sotto i mari, la storia di un viaggio alla scoperta dei segreti degli abissi dell’oceano. Verne, seguendo Platone, pone Atlantide oltre lo stretto di Gibilterra. Affascinato dalla geologia, immaginò le isole Canarie, le Azzorre e Capo Verde come le cime affioranti del continente scomparso. Per Verne Atlantide è una città perduta per sempre: le sue vestigia giacciono sul fondo del mare. Templi abbattuti, colonne spezzate e i resti di un grande acquedotto rivelano il gusto decadente dell’epoca e del grand tour, il classico viaggio di formazione in Grecia e in Italia, tra le rovine della civiltà greca e latina. I personaggi di Verne visitano Atlantide come i turisti di oggi visitano Atene o Pompei. Nel romanzo la città è illuminata dai lapilli incandescenti di un grande vulcano. Il riferimento è a Pompei, inghiottita dalla lava del Vesuvio, ma è anche un monito che ci invita a riflettere sulla difficile coesistenza nel nostro mondo tra civiltà e natura. Iperscientifica è invece la ricostruzione di un altro insospettabile che si à lasciato tentare da Atlantide. Sir Arthur Conan Doyle, l’autore di Sherlock Holmes, pubblica nel 1929 L’abisso di Maracot, storia di una spedizione oceanografica al largo delle Canarie con una sorta di batiscafo. Come nel film Sfera, gli esploratori, imprigionati sul fondale, vengono salvati dai sopravvissuti alla distruzione di Atlantide. Costoro sono in grado di modificare le molecole di tutti gli elementi, hanno sviluppato capacità telepatiche e comunicano con gli umani proiettando il loro pensiero su schermi. I personaggi del romanzo vedono la fine di Atlantide su uno schermo come in un film. Cinema e letteratura intrecciano i loro linguaggi: il primo film ispirato ad Atlantide era uscito otto anni prima.
• In uno dei suoi dialoghi, il Crizia, Platone ha descritto in modo accurato Atlantide. Secondo lui, il continente era posto al di là delle colonne d’Ercole (cioè dopo lo stretto di Gibilterra), nell’Oceano Atlantico, come si vede nel disegno qui in alto che ricalca una mappa cinquecentesca (Atlantide ha sempre istigato i cartografi). Era grande come Libia e Asia messe insieme e affondò per un’eruzione vulcanica circa 11000 anni fa. Gli abitanti erano molto ricchi. Al centro dell’isola Poseidone, il dio del mare, aveva fondato la città. Era bellissima e inespugnabile: per arrivare al centro bisognava attraversare tre larghi canali d’acqua, perfettamente concentrici (vedi il disegno in alto nell’altra pagina e la piantina qui a fianco). Un canale partiva dal mare e giungeva fino alla zona circolare più esterna: consentiva così l’accesso alle navi, trasformando Atlantide in una città-porto. Strade e ponti ne collegavano il nucleo centrale con i cerchi di terra circostanti e con il resto dell’isola. Nella città erano stati costruiti i palazzi reali e un tempio: al suo interno c’era la statua del dio e un pilastro di bronzo su cui erano incise le leggi.
• A parte il film di Disney in uscita, il successo cinematografico di Atlantide è immenso: mare, cataclismi e civiltà perdute sono elementi perfetti per il grande schermo. Elementi presenti anche in questo disneyano Atlantis, l’impero perduto. Il cartone animato della Walt Disney racconta la storia del giovane Milo Thatch che, novello Indiana Jones, si batterà eroicamente contro un’aragosta e salverà la bella principessa Kida da un orrendo destino. Ancora una storia d’amore in Atlantide, il continente perduto di George Pal (Usa, 1961). La tormentata storia d’amore tra un pescatore dell’antica Grecia e la principessa d’Atlantide si muove in uno scenario di guerra e complotti, all’ombra di un minaccioso vulcano. Atlantide in questa versione è un mondo ambiguo, dove si intrecciano pericolosamente modernità e arcaismo in un’enigmatica metafora dello scontro tra civiltà. La diffidenza verso quest’antico mondo perduto è ancora più esplicita in I signori della guerra di Atlantide di Kevin Connor (Usa, 1978). Gli atlantidi incarnano il peggio dell’immaginario del diverso: non solo sono di origine aliena, ma addirittura vorrebbero dominare il mondo con un’organizzazione di stampo nazista. Tutt’altro scenario in L’Atlantide di Bob Swaim (Fr/It, 1992), ultima versione cinematografica (la prima è un film muto del 1921) dell’affascinante romanzo di Pierre Benoît. Il deserto si sostituisce all’oceano: è un altrove magico che garantisce però lo stesso straniante isolamento. Benoît segue la teoria dell’archeologo francese Félix Berlioux e immagina un regno nascosto tra i monti africani dell’Atlante. Affascinato dall’antropologia e da leggende berbere di antiche civiltà matriarcali, crea un mondo alla rovescia in cui gli uomini portano il velo e obbediscono a una vorace regina, Antinea, che, come Circe, ammalia le belve e soggioga i suoi amanti, pronti al suicidio se abbandonati. la storia di due legionari francesi che, sperduti nel deserto, trovano questa città leggendaria e si contendono l’amore letale della crudele sovrana.
Eva Cantarella

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