martedì 7 aprile 2020

La strega Catalina Lay, maista de partu di Seui


Si erano rifugiate nell'oscuro grembo del mondo contadino che le aveva generate. Chiamate streghe, mazineres, bruxas o encantadoras in catalano, cogas e mayarzas in sardo, erano donne che conservavano dentro di sé il potere delle antiche sibille, la sapienza delle prime fadas, le janas oracolari dalla vita lunga come l'infinito e dalle ancestrali virtù.

Eredi delle antiche dee e sacerdotesse, le streghe in Sardegna erano creature che avevano appreso e accumulato conoscenza mentre gli uomini inventavano la guerra. Ree di coltivare culti remoti e di aver appreso i segreti del mondo, erano da distruggere e cancellare. Così aveva sancito la Santa Inquisizione, istituzione ecclesiastica spagnola, attiva su tutti possedimenti su cui gravava la dominazione della corona iberica -isola sarda inclusa-, nata nel 1478 per combattere le eresie contrarie all'ortodossia cattolica.

Catalina Lay levatrice di Seui - piccolo paese dell'Ogliastra - faceva parte delle donne giudicate streghe. Arrestata dall'arcivescovo di Cagliari si era ritrovata il giorno di ferragosto del 1583 ad ascoltare l'autodafé - la proclamazione della sentenza di condanna - scalza sulla piazza della Carra a Sassari, città in cui, dal 1563, aveva sede il tribunale inquisitorio. Non era sola, con lei altre otto donne trai trenta e i sessant'anni: Joanna Porcu e Clara Dominicon di Sedini, Antonia Orrú di Escolca, Pasca Serra di Villanofranca, Catalina Pira di Tertenia, Sebastiana Porru di Gemussi, Catalina Escofera di Cuglieri.

 Tutte accusate di essere fattucchiere, attentatrici dell'ordine voluto da Dio, maliarde malefiche, amanti e adoratrici del diavolo. La caccia alle superstizioni e ai sacrilegi aveva colpito in particolar modo le donne: l'84% delle persone processate in Sardegna per stregoneria era infatti di sesso femminile. Colpevoli di carpire l'autorità divina le presunte streghe dovevano essere denunciate, stanate e pubblicamente additate.
Le levatrici furono da subito perseguitate perché secondo il "Malleus Maleficarum" - manuale di demonologia del giudice inquisitore - erano le principali fautrici delle eresie più gravi ossia erano schiave del demonio, potevano impedire la procreazione, minavano la fertilità e sopprimevano feti e neonati immolandoli al diavolo.

Quelle donne - in sardo chiamate levadoras, aggiutadoras o maistas 'e partu - erano empiriche e terapiste che presiedevano ai momenti della nascita aiutando le altre donne con la loro esperienza e abilità. Una particolare occupazione che, a causa dell'alta mortalità infantile a cui erano soggetti i piccoli appena nati, circondava queste figure di un'aura misteriosa.

Rispettate e allo stesso molto temute avevano, secondo le credenze popolari, potere di vita e di morte, un'autorità a loro conferita che attribuiva a sas levadoras facoltà di agire sul ciclo dell'esistenza delle famiglie e del paese a cui appartenevano.

 Con la loro conoscenza di erbe e rimedi erano capaci di provocare l'istrumingiu, l'aborto, o divenute accabadoras avevano il compito di recidere il filo della vita. Una libertà di movimento e di azione che usciva dalla tutela patriarcale collocandole fuori dal focolare e dagli schemi precostituiti dell'ordine sociale quelli che ancora relegavano le donne dentro le mura domestiche.
Catalina Lay accorreva quando veniva chiamata. Percorreva svelta le ripide discese e salite di pietra del suo paese per giungere ai capezzali delle puerpere. Di lei non sappiamo molto, pochi i cenni biografici che emergono da antiche carte. Sicuramente aveva oltrepassato l'età fertile e aveva dei figli. Non è certo se avesse imparato dalla madre come spesso accadeva, una sapienza che si tramandava di generazione in generazione lungo la linea femminile. A volte capitava invece che era il destino o la necessità a decretare l'iniziazione di una levatrice, quando ad esempio si doveva giocoforza assistere a un parto perché in casa non erano presenti altre donne. Se l'occasione faceva emergere delle qualità promettenti, la donna cominciava a essere chiamata anche da partorienti non legate da vincoli di parentela che chiedevano i suoi servigi.

Non sempre questo lavoro era retribuito. Sovente rientrava in una rete di legami di solidarietà femminile e reciproco aiuto ossia s'aggiudu torrau o prevedeva l'omaggio di beni alimentari di prima necessità.

Catalina Lay non era soltanto una maista de partu, ma era anche donna esperta in pratiche magiche divinatorie. Coloro che la denunciarono, la accusarono di aver operato dei sortilegi malefici.

Secondo le testimonianze riportate negli atti processuali, a Catalina era stato chiesto di "infrenare" un pettine per ritrovare un cavallo rubato a Cagliari. È difficile stabilire esattamente in cosa consistesse l'infrenare. Secondo lo studioso Salvatore Loi, che ha rinvenuto i documenti in archivio, sarebbe una pratica con cui si incanta un oggetto perché di riflesso il sortilegio colpisca e renda inoffensiva una persona che ha commesso qualche danno. Da quello che emerge sembra che la pratica magica ebbe buon esito e il cavallo fu recuperato, mentre il pettine magico fu nascosto sotto un sasso.
Altro rituale che spesso Catalina eseguiva era "gettare il piombo", l'incantesimo più diffuso nell'isola. «Consisteva sostanzialmente nel gettare del piombo fuso in acqua semplice o di mare, ma nella maggior parte dei casi, si utilizzava acqua benedetta», scrive Salvatore Loi nel suo lavoro "Streghe, esorcisti e cercatori di tesori".

Mentre si recitavano appositi berbos si versava in un corno o in una ciotola dell'acqua in cui si gettava un cagliarese (moneta in uso a quel tempo) e piombo liquido fuso con l'aiuto di una lucerna. Il recipiente veniva posto sulla testa di chi chiedeva la pratica magica la mattina presto all'alba. Attraverso il piombo e il modo in cui si addensava o reagiva con l'acqua, le curatrici riuscivano a sanare mali o ad annullare gli effetti delle fatture. Simili al piombo, anche la cera o le chiare dell'uovo potevano essere versate in acqua per pronosticare guarigioni o decretare morti.

Catalina Lay, come la maggior parte delle donne reputate streghe, aveva ammesso di aver stretto un patto col diavolo. Tre sono le udienze dove a più riprese, dopo esser stata sottoposta a tortura, racconta cosa le accade tra spiriti vestiti di verde che la tormentano, esorcismi, stupri e sabba orgiastici in onore di un Dio caprone che si svolgevano in un luogo chiamato "Su riu de su suergiu".

«La relazione con il diavolo ebbe inizio quando una donna le consigliò - poiché era povera e disperata senza possibilità di sostentare alcuni figli - di fare il digiuno per sei domeniche offrendolo al signor Empera che era il demonio; egli le avrebbe dato quanto gli avesse chiesto, facendola uscire dalla povertà e dalla necessità in cui versava», si legge negli atti del processo. È quindi un'altra strega che le suggerisce come invocare la presenza satanica. «Doveva digiunare a pane acqua per tutto il giorno fino a notte; doveva farsi la croce con la mano sinistra e recitare alcuni berbos».
In cambio della devozione, il Maligno l'avrebbe protetta in tutto. Le disse di non avvicinarsi ai sacramenti e di non andare in chiesa.

 A Catalina il demonio, che le si era presentato come signore di nove località, appariva sotto forma di un uomo molto grande e peloso o di un giovane cavaliere, ma anche con le sembianze di capra, asino o bue. Si congiungeva carnalmente con lei ogni quindici giorni di sabato o domenica. Catalina confessò poi di avergli donato anche l'anima.
Varie volte nei documenti la donna cambia versione per poi ammettere, così sembra, tutto quello che l'Inquisizione vorrebbe sentire. Persino le disgrazie vengono imputate al culto satanico. Uno degli episodi che desta più impressione riguarda il momento in cui il diavolo chiede alla sua adoratrice di uccidere il proprio figlio. Il bambino di nove anni muore perché si rovescia addosso una caldaia di lisciva che bolliva sul fuoco, accidente che secondo la presunta strega è causato dal diavolo perché lei non aveva obbedito all'ordine.

È ancora il diavolo a ordinarle di uccidere i neonati premendo il pollice sotto il mento per strozzarli. 
«Li faceva morire alla nascita prima che potessero vagire, dando a intendere che nascevano morti». Oppure si introduceva nelle case, soffocava i piccoli e, come una vampira surbile, ne succhiava il sangue che poi non deglutiva ma teneva in bocca per depositarlo, una volta raggiunta la propria abitazione, in un corno in cui mescolava sangue e grasso con cui sono avvolti i bimbi quando nascono. Preparava così un unguento che si spalmava nelle mani, nelle piante dei piedi, negli occhi e sotto le ascelle grazie al quale potersi intrufolare nelle case e uccidere altri bambini.

Le carte processuali descrivono la presunta perdizione della levatrice trascinata in un turbine di eventi tali da farle perdere il senno. I mormorii del villaggio la inchiodano, Catalina non può più camminare per strada senza essere additata come donna amorale da scansare.
La donna decide quindi di confessarsi, di riconciliarsi con la Chiesa. Il demonio taglia così di colpo il legame sulfureo che aveva intrecciato con lei. La strega torna a essere una buona cristiana, ma non si salva dalla pubblica gogna. 
In quella calda giornata di agosto in piazza a Sassari tutti sentono le sue colpe e ascoltano la sua condanna: sei anni di carcere , duecento frustate e penitenze varie. Riconciliata pubblicamente con le formalità di rito, subí la confisca dei beni e fu costretta a indossare l'abito penitenziale, il sambenito. 

Forse fu davvero donna esperta di magia nera o forse gran conoscitrice dei arcani meccanismi del mondo o forse semplicemente vittima della sua miseria, della superstizione più bieca quella capace di seminare morte e distruzione.

Seui, il suo paese d'origine, non l'ha mai dimenticata. A lei è dedicata una stanza de "Sa omu de sa maja", il museo che ospita collezioni relative al mondo magico religioso e alle tradizioni precristiane della Barbagia di Seulo. Perché nessuno ignori la sua storia, la sorte di donne come lei e quella arcana conoscenza che mescolava sacralità della natura, antiche credenze e potere femminile. 



Le notizie sono tratte dalla trilogia "L'inquisizione e i sardi" di Salvatore Loi.

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