Nel XVI secolo in Toscana l’uso del cognome era ancora limitato alle famiglie dell’élite. Per identificare tutti gli altri si aggiungeva al nome proprio il nome del padre o quello del paese d’origine. Ma nel caso di Gostanza, filatrice, levatrice, guaritrice, indovina e presunta strega vissuta nella Toscana del secondo Cinquecento, seguiremo l’uso dell’unica fonte che ci informa delle sue vicende biografiche, il processo verbale dell’inchiesta inquisitoriale per stregoneria alla quale Gostanza fu sottoposta a San Miniato, nel Ducato di Firenze facente parte della diocesi di Lucca, nel novembre del 1594. «Monna Gostanza da Libbiano» in realtà non era nata a Libbiano e non vi risiedeva al momento dell’arresto. La scelta da parte degli inquisitori di questa località per identificare la donna non fu casuale. Libbiano era infatti il paese nel quale Gostanza si era trasferita una volta rimasta vedova, nel quale aveva cominciato la sua attività di levatrice e guaritrice, conquistandosi una certa nomea. Non è neppure casuale che Gostanza abbia iniziato a dedicarsi in modo “professionale” a questa attività dopo la morte del marito, un evento traumatico che esponeva spesso le vedove a una condizione di solitudine e fragilità economica, premesse dell’emarginazione sociale.
Le ragioni che portarono Gostanza di fronte all’Inquisizione devono infatti essere cercate nella situazione contraddittoria in cui veniva a trovarsi una figura come la sua; nella mescolanza di disprezzo, timore e sospetto con cui veniva considerata dai compaesani e dalle autorità. Gostanza, come molte altre vetulae che assistevano le donne al parto e si dedicavano alla medicina popolare, era una donna sola, marginale, ma tuttavia dotata di un certo potere e di un certo ambiguo prestigio che le derivava delle sue vere o presunte capacità taumaturgiche. Una donna alla quale molti erano spinti a rivolgersi nei momenti di maggiore necessità, come i parti o le malattie. D’altro canto, proprio in virtù di questi poteri, naturali o soprannaturali (la distinzione era all’epoca meno ovvia di quanto oggi non apparirebbe) queste dominae herbarum, erano temute e spesso odiate. Chi sa curare in fondo sa anche far ammalare – “guastare”, come si diceva bambini, uomini, bestie e raccolti – e persino uccidere. Un parto finito male, una malattia che la donna non fosse riuscita a guarire, lasciavano uno strascico di risentimenti e il bisogno di trovare un capro espiatorio.
Inoltre, dal tardo medioevo ma ancor più nell’età della Controriforma e dello sforzo della Chiesa cattolica per sradicare quelle credenze popolari, la guaritrice, prima tacitamente tollerata, era diventata una figura sospetta e l’origine dei suoi poteri veniva attribuita a un patto con il demonio. Anche per la gente comune, dunque, i confini fra conoscenza empirica dei rimedi vegetali, magia bianca e magia demoniaca si facevano fluidi, e il giudizio dell’opinione pubblica su queste donne pericolosamente incerto. Nel corso del processo, ad esempio, il ciabattino Mastro Pasquino dichiarò inizialmente di «conoscere detta monna Gostanza per donna da bene» ma che quando era «ito per sua negotii a Bagno, ha inteso dire che l’è una strega et maliarda». Chi aveva invece le idee chiarissime in materia era il giovane inquisitore francescano Mario Porcacchi, che dalla letteratura sulla stregoneria aveva ricavato un’immagine per lui chiara della natura demoniaca e dei delitti che le streghe commettevano per istigazione del loro signore.
E quest’immagine Mario Porcacchi riuscì ad imporla, anche tramite il ricorso alla tortura, alla sua vittima: la povera Gostanza confessò quindi la partecipazione al Sabba, con le inevitabili sregolatezze alimentari e sessuali, fino al congiungimento carnale con il “Gran Diavolo” e ovviamente i malefici contro compaesani ostili. Un racconto, quello di Gostanza che assomiglia a migliaia di altri in Italia e in Europa, ma con alcuni interessanti scostamenti. Innanzitutto il suo è un Sabba urbano, che non si svolge in remote località di campagna ma in una città «più bella di Firenze, dove ogni cosa è messa a oro». Gostanza vive dopotutto in una delle regioni più ricche e urbanizzate d’Europa. Inoltre, pur ammettendo i connubi con il demonio e i malefici, Gostanza ebbe l’accortezza di non confessare mai quella che per gli inquisitori era la colpa più grave, ovvero l’apostasia, il rinnegare esplicitamente la fede.
A salvarla – perché la sua è stata fortunatamente una storia a lieto fine – contribuì forse anche questo elemento, ma soprattutto il crescente scetticismo e la crescente prudenza della Chiesa cattolica nei confronti della stregoneria. Di questo orientamento, nella nostra vicenda si fece interprete l’inquisitore di Firenze, Dionigi di Costacciaro, intervenuto in un secondo tempo nel processo, che imporrà al suo giovane e intransigente collega di rimettere in libertà Gostanza perché «alla fine s’è veduto che cotesta povera vecchia tutto a detto per tormenti e non è vero niente».
(in foto Liliana Castagnola, attrice)
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