Gli elementi dell’aria e dell’acqua: simboli del femminino sacro
Di Sabina MarineoDonne-uccello e donne-serpente. È una dea della preistoria quella immortalata nelle statuette femminili della Vecchia Europa che risalgono al Neolitico? Probabilmente sì, giacché porta sempre una maschera e non mostra mai lineamenti umani. La si voleva astratta, irragiungibile. Quasi nulla sappiamo di questi tempi che oggi sembrano appartenere a un’altra dimensione. Invece no, parliamo del nostro pianeta, della nostra Europa, di tradizioni degli albori che hanno lasciato le loro tracce in Tessaglia, nel territorio dei Balcani, nelle valli del Danubio e sino al Mar Nero.
Quella della Vecchia Europa era una cultura di ampio raggio che abbracciava popolazioni diverse e così fu definita dall’archeologa Marija Gimbutas. È pre-indoeuropea, matrifocale, agricola e sedentaria. Non è, però, possibile considerarla separatamente da quella dei cacciatori raccoglitori del Paleolitico, poiché le immagini di serpenti, uccelli e altri animali che ne caratterizzano i tratti animistici, hanno le loro radici proprio lì, nella notte dei tempi.
Lo sciamano uomo o donna che fosse, per metà essere umano e per metà animale, nacque nelle nebbie del Paleolitico, nelle grotte spagnole, francesi e tedesche. Ne ritroviamo una potente sintesi nella pittura rupestre della grotta di Trois Frères (Francia meridionale) oppure nella bellissima statuetta dell’uomo-leone di Hohlenstein. Ma già accanto all’uomo-leone, scultura d’avorio di mammut che risale addirittura al 40.000 a.C., i nostri antenati intagliavano le prime figurine femminili, come la Venere di Hohle Fels. Creature tondeggianti dalle forme piene e spesso senza volto, simboli della maternità e della fertilità. Le donne-uccello e donne-serpente del Neolitico europeo sono le loro eredi.
Il periodo della Vecchia Europa si estende approssimativamente dal 7000 al 3500 a. C. ed è quindi lunghissimo, se pensiamo che la storia dell’Egitto dinastico conta circa 3000 anni di età ed è, per quanto ne sappiamo al momento, la cultura dalla durata più lunga in assoluto. Nei siti pre-indoeuropei, accanto a resti di santuari, altari, vasellame e altri oggetti di culto, gli archeologi hanno portato alla luce più di 30.000 figurine femminili ricavate da differenti materiali come avorio, creta, rame e oro. Non stiamo parlando, quindi, di due o tre statuette, ma di un esercito intero di piccoli reperti che erano simboli del femminino sacro.
Dall’insediamento greco di Sesklo, in Tessaglia, a quello di Vinca sui Balcani e Butmir vicino a Sarajevo, alla costa adriatica con le sue grotte, alle pianure bagnate dal Danubio, per arrivare al centro di Cucuteni situato al confine tra Europa e Asia, e poi sino al Mar Nero con i suoi insediamenti di Hamangia e Cascioarele, dappertutto il femminino sacro sembra aver rivestito un ruolo di primo piano.
Le figurine di donna presentano particolari caratteristiche legate alle rispettive tradizioni locali. In comune, però, hanno tutte un volto astratto, non personalizzato, di certo dal significato simbolico. Oppure un volto nascosto da una maschera di animale. Questo ci dice che gli artisti non intendevano creare dei ritratti di donna, ma oggetti di culto. La natura dei piccoli idoli andava al di là dell’umano e penetrava nella zona del sacro.
La dea senza bocca
Su un’antichissima statuetta della Tessaglia, che risale al 6000 a.C., spiccano il naso e gli occhi, mentre la bocca sparisce del tutto. Le forme di donna sono abbondanti. Ma se la figurina greca è rappresentata nella sua nudità, invece quelle della cultura Vinca del 5300-5100 a.C. portano abiti raffinati e gioielli. Differenti modelli di vestiario ornano le statuette femminili con gonne drappeggiate, eleganti boleri, corpetti dai disegni geometrici, complicati calzari e insolite pettinature, alcune delle quali sorrette da grandi fermagli. Si vedono anche dei copricapo conici decorati con linee geometriche. Alcune figurine portano collane e medaglioni.
Il volto, però, resta un mistero. Spesso è coperto da una maschera con il naso pronunciato, i grandi occhi, senza bocca. Le labbra si rivelano superflue proprio perché non si tratta di visi, bensì di maschere. Rappresentano uccelli – in molti casi anatre – oppure serpenti, orsi, qualche volta anche mucche o maiali. La donna diventa, quindi, una visione sciamanica. La fusione fra essere umano e spirito della natura è completa. Il confine fra magico e sacro si fa più sottile, probabilmente queste presenze equivalevano a rappresentazioni divine.
Talvolta le dee-uccello e serpente sono raffigurate sedute, e sul loro grembo c’è un bimbo. Anche il piccolo, come la madre, ha la testa di animale. Porta una maschera. Una maternità bizzarra, irreale, sacra, irraggiungibile, eppure al contempo familiare per chi è abituato a vivere a contatto con gli elementi. Là, dove lo spirito della natura è sempre presente in quel ciclo di morte e rinascita che governa l’universo.
Spesso le maschere – soprattutto quelle della cultura Vinca – hanno dato adito a strane teorie, che vorrebbero riconoscere in queste statuette rappresentazioni di alieni. Ovviamente non è così. È sicuro che stiamo parlando di individui mascherati perché, osservando attentamente le statuette da tergo, si vede con chiarezza il bordo con cui termina la maschera e da dove fuoriescono i lunghi capelli umani.
Ma perché queste donne/dee del Neolitico sono rappresentate soprattutto sotto forma di uccelli e di serpenti? Perché questi due animali nei tempi più remoti erano considerati creature dell’acqua, un elemento prettamente femminile. In particolare l’acqua come fonte di vita, paragonabile al liquido amniotico in cui è immerso il feto fino al momento della nascita. Era, dunque, l’elemento chiave del femminino sacro. L’aria, accanto all’acqua, completa l’immagine del sacro. La dea s’innalza dall’acqua al cielo. La pioggia, riversandosi sui campi, è un fattore necessario alla fertilità e quindi all’abbondanza del raccolto.
Poi c’è il ciclo di vita, morte e rinascita. Marija Gimbutas, che studiò migliaia di statuette e oggetti della Vecchia Europa, suddivise i simboli iconografici di questa cultura in due categorie. Ci sono quelli che appartengono agli elementi dell’aria, dell’acqua e della pioggia, che sono: uccelli, serpenti, linee a zigzag, spirali, losanghe e labirinti. E quelli che appartengono al ciclo delle stagioni e della vita, che sono: croce, croce in un cerchio, croce uncinata, luna crescente, corna bovine, carro, uovo, pesce. La croce, in particolare, simboleggiava i quattro elementi della vita, i punti cardinali, le stagioni, insomma, l’ordine del cosmo.
Il serpente, che periodicamente cambia pelle, era il simbolo della vita che si rinnova, della rinascita eterna, la chiave all’immortalità. Ricordiamo che anche nella sumera Epopea di Gilgamesh sarà proprio il serpente a possedere il segreto dell’immortalità. L’acqua racchiude il mistero della vita. Gli dèi nascono dalle acque – pensiamo ad Atum, Horus e alla greca Afrodite – e il serpente era, quindi, strettamente legato all’acqua. Il busto della dea-serpente appare spesso ricoperto di linee a spirale, mentre gli arti della dea hanno la forma di serpente.
Ma anche l’uccello che depone le uova ha in sé il potere innato di dare la vita. E pure l’uccello era considerato dalle popolazioni della Vecchia Europa una creatura dell’acqua. Come le anatre, cui si sono ispirate molte maschere della cultura Vinca. Il pesce rappresentava invece la vulva della dea. Nell’arte del Neolitico il pesce assumeva spesso la forma di un uovo cosmico e aveva un volto antropomorfo. Si tratta dell’uovo primordiale, quello che molto più tardi ricorrerà nei miti della creazione dell’universo.
Luna crescente e toro: la fertilità
Il simbolo della luna crescente e delle corna del toro erano equivalenti. Una donna che regge un corno oppure la falce lunare è un’immagine antichissima che già affiora nel Paleolitico ed è legata alla fertilità. Tra i resti di un insediamento della cultura Vinca sono state trovate centinaia di corna ordinate intorno a una buca centrale in cui, originariamente, doveva trovarsi una statua sacra di materiale deperibile.
Durante gli scavi nelle regioni della Vecchia Europa, sono venuti alla luce anche numerosi modelli in creta di altari, templi e santuari. Nonostante questi si differenzino notevolmente l’uno dall’altro a seconda degli stili locali diversi – va detto che alcuni di essi dovevano essere complessi sacri con imponenti costruzioni a piattaforma su cui s’innalzavano più templi -, vi sono tuttavia elementi ricorrenti che collegano tutti questi luoghi di culto con il femminino sacro: decorazioni a spirale, a meandri o a zigzag che simboleggiano l’acqua, corna taurine che rappresentano la luna crescente e quindi la fertilità. Il modellino di un tempio presenta addirittura un tetto su cui s’innalza la testa della dea con il collo circondato da una collana di perle.
Scavi archeologici effettuati nel territorio di Cucuteni hanno portato alla luce i resti di un luogo di culto che occupava una superficie di ben 70 metri quadrati e sul cui altare si trovò una miriade di statuette dalle forme femminili, tutte prive di testa e sedute su di un trono con forma di bucranio. La dea della Vecchia Europa era accompagnata da un dio pacifico che ne assicurava la fertilità e le cui immagini forse più famose sono quelle rappresentate dalle sculture di Hamangia (Romania) e Tirpesti (Moldavia) entrambe del V millennio a. C. Questi dèi sono seduti, la testa fra le mani, i gomiti appoggiati alle ginocchia. Sembrano persi nei loro pensieri. Per questo Gimbutas li chiamò scherzosamente „the sorrowful gods“, gli dèi tristi, pensierosi, preoccupati.
Preoccupati per chi? Per il destino degli esseri umani che un giorno sarebbero caduti preda di altre divinità del tuono e della guerra? Forse. Nel centro russo di Cucuteni si era sviluppata la cultura Tripolye, quella che verso la metà del IV millennio, e in seguito al contatto con le popolazioni protoindoeuropee giunte dalle steppe, scomparve. Si assimilò, per forza e/o per convenienza (probabilmente entrambi i fattori ne determinarono l’assimilazione), alle tradizioni patriarcali dei nuovi arrivati. E fu così che il culto della pacifica dea dell’acqua e del suo tranquillo compagno pensieroso finì per essere sostituito da quello di divinità belliche del sole.
Link alla pagina ufficiale della grotta „Trois Frères“ dove si trova la pittura rupestre dello sciamano
Riguardo i collegamenti fra Vecchia Europa, protoindoeuropei ed Egitto, vedi il mio saggio
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