giovedì 30 aprile 2020
I luoghi ad alta energia
Il luogo è per definizione “una porzione di spazio materialmente o idealmente delimitata”. Dalla notte dei tempi, le necessità fondamentali dell’essere umano sono rimaste inalterate: reperire il nutrimento fisico e spirituale. E’ per rispondere a questo bisogno primordiale, che l’uomo nel corso dei millenni, ha delimitato fisicamente ma soprattutto idealmente, luoghi particolari per caratteristiche geofisiche ed energetiche.
Energia, un termine derivato dal greco, dato dalla fusione di due parole, “en” dentro ed “ergon”, lavoro, opera.
Dunque, Luoghi d’Energia,ovvero porzioni di spazio idealmente o materialmente delimitati in grado di produrre autonomamente e intimamente un lavoro. In altre parole luoghi capaci di estrinsecare energie di varia natura che inevitabilmente si compenetrano e interagiscono con tutte le altre forme di energia, inclusa quella compressa, ovvero, la materia.
Associare i due termini ed i significati che sottendono è invero abbastanza arduo ed inusuale almeno per l’uomo moderno, ma questo concetto è stato il fondamento su cui si è basata la ritualità e quotidianità umana in ogni epoca ed ad ogni latitudine. I luoghi d’energia o luoghi alti come li definiscono i francesi, hanno da sempre rappresentato un punto di riferimento, per l’uomo alla ricerca del benessere, della salute fisica ma soprattutto del contatto col trascendente.
Nel corso dei millenni, in virtù delle loro caratteristiche, questi luoghi sono divenuti luoghi di culto, in onore di divinità le più disparate, o luoghi di cultura e potere. Paradossalmente questo intimo legame tra energia e fede, energia e conoscenza, ne ha decretato l’alienazione e l’oblio.
Le nebbie del passato, vanno gradualmente dissolvendosi e da più parti autorevoli voci si alzano, nel tentativo di portare l’uomo, a riappropriarsi di quella cultura e quella conoscenza che gli erano proprie. Purtroppo, agli albori del terzo millennio, vittima consapevole eppur complice di una fretta imperante, l’uomo ha poco tempo e poca voglia di porsi domande e in questo contesto di cultura preconfezionata, preferisce assumere una forma mentis non propria alla quale si conforma e si adatta. Cogito ergo sum sembra così fuori moda da apparire offensivo e molte riflessioni, sulla natura dei luoghi, sul rapporto intimo con la terra, sono relegate al mondo degli ”esoteristi”, degli “studiosi del paranormale”, degli “scienziati di frontiera” o dei curiosi, come me.
Così, purtroppo, molti richiami cadono nel vuoto. Se per esempio le teorie del Dottor Hartmann, fossero state recepite con più attenzione, oggi forse saremo qualche passo avanti, nell’irto ed erto cammino per il recupero della conoscenza e padroneggeremo un un sapere che è invece relegato ancora al mondo delle cose oscure e nascoste.
Un sapere che era proprio di tutte le culture antiche e che era stato trasmesso e conservato con cura da generazioni di sciamani, sacerdoti, veggenti, sensitivi, druidi, profeti, monaci e architetti. Ecco dunque il perché di questo luogo ideale e materiale, un tentativo modesto di aprire uno spiraglio, di esplorare il nostro mondo, di concepire la Terra come un essere vivo e pulsante capace di agire, reagire e soprattutto interagire con l’uomo e la sua energia. Templi, caverne, menhir, piramidi, moschee, piccole pievi romaniche o maestose cattedrali, chi di noi in certi luoghi non si è sentito almeno una volta accolto, abbracciato, sollevato, e il suo respiro si è fatto sincrono, ritmato, con un respiro più ampio, immenso… Questi luoghi che dalla preistoria hanno richiamato a se l’uomo, sono stati frequentati, armonizzati, modificati, usurpati, ma ancora oggi il battito della terra è forte e presente.
Che cos’è dunque un luogo d’energia? E’ scientificamente provato che utilizziamo solo il 10% delle nostre potenzialità cerebrali. Anche la percezione, attraverso i nostri sensi, è parziale. Riusciamo ad udire solo determinate frequenze, così come riusciamo a vedere e percepire solo una gamma limitata di radiazioni cromatiche. Tutto ciò è considerato normale, mentre non si pensa altrettanto di persone che estrinsecano capacità “extrasensoriali”. Un rabdomante per esempio riesce a sentire l’acqua diversi metri sotto terra, un radioestesista riesce a captare le energie sottili o le onde di forma. Tali facoltà erano nei tempi passati considerati doni, coltivate, e sfruttate.
reticolo e_MenhirEbbene i luoghi d’energia, naturali o creati con intervento umano, sono quei luoghi che contribuiscono ad aumentare le nostre percezioni, il nostro benessere, il nostro metabolismo, fino a giungere a diretto contatto con il trascendente. L’attenzione estrema che i nostri antenati ponevano nell’ascoltare il ritmo della terra, li portava non solo a identificare i luoghi d’energia, ma anche i luoghi dove fosse insalubre abitare, vivere, lavorare. Le conoscenze della salubrità o meno dei luoghi sono stati quasi sempre appannaggio della casta sacerdotale. Nell’antichità i cinesi sceglievano i luoghi dove costruire secondo lo studio delle simmetrie dell’ambiente circostante.
Greci e latini, facevano pascolare e dormire le greggi per un anno sui terreni dove volevano costruire. Nei vecchi monasteri in Deformazione del reticolo di Hartmann intorno ai Menhir Fonte: Sergio Costanzo Himalaya si orientavano le celle per i monaci in modo che fossero contenute entro una cella del reticolo di Hartmann, e quindi in zona neutra. Gli antichi luoghi sacri pagani e paleocristiani sono pieni di energia positiva. Dolmen, obelischi, menhir, piramidi e poi le grandi cattedrali, i costruttori hanno sempre tenuto in considerazione lo studio e la ricerca di luoghi carichi di energie positive e di neutralizzazione delle energie negative.
http://www.visionealchemica.com/
Il mito di Pele, dea hawaiana del fuoco
Ribollente, vulcanica, traboccante, devastante - è sorprendente come il linguaggio del fuoco somigli agli aggettivi che utilizziamo per descrivere la rabbia. Come la lava di un vulcano o l'incendio che scoppia all'interno di un bosco, la rabbia, se incontrollata, è altamente distruttiva.
Nondimeno Pele, dea hawaiana del fuoco, ci svela in che modo possiamo utilizzare la rabbia per creare il cambiamento.
Il mito
Pele governa ogni sorta di focolaio, in particolare la lava dei vulcani. Secondo la leggenda, essa vive nei silenziosi meandri del monte Kilauea, uno dei vulcani più attivi del mondo. Le minuscole formazioni laviche scoperte intorno al vulcano sono note con l'appellativo di «lacrime di Pele»; la leggenda locale vuole che la disgrazia si abbatterà sugli sciagurati che sottrarranno uno solo di questi ciottoli al suo regno.
Celebre per i suoi idilli appassionati non meno che per il suo temperamento focoso, Pele si manifesta sovente ai suoi seguaci nelle sembianze di una donna seducente, bellissima come la Luna. Alcuni sostengono che somigli a una terribile megera, con la pelle brunita e raggrinzita come ruvida lava. Quale che sia l'aspetto che la dea scelga per palesarsi, nessuno dissente sul suo carattere fiero - oltre che sulla sua capacità di distruggere e di creare.
Una bellissima storia della dea Pele è raccontata nel lunghissimo romanzo “Hawaii” di James A. Michener (Bompiani).
Al tempo della storia ai tranquilli abitanti dell’arcipelago di Tahiti venne imposto dalla casta sacerdotale il sanguinoso culto del nuovo dio Oro. Non tutti riuscivano però ad accettare questa divinità crudele che richiedeva sempre più numerosi e cruenti sacrifici umani. Fu così che un manipolo di una sessantina tra uomini e donne fedeli alle antiche divinità, capeggiati da Tamatoa, re di Bora Bora e dal suo intrepido fratello minore Teroro, abbandonarono l’arcipelago su una grandissima canoa doppia per cercare una nuova terra dove vivere in pace, lontano da quella follia di sterminio.
Un’avventura del tutto incerta: intorno solo migliaia di miglia di oceano sconfinato e tempestoso e, come guida, soltanto le parole di un antico canto marinaro trasmesso oralmente dagli antenati. Con loro gli esuli portarono gli antichi dèi Tane e Ta’aroa, (rispettivamente dio del vento e dio dell’oceano) rappresentati da due sacre antichissime pietre. Partirono con provviste, animali e piante da far crescere nella nuova terra che speravano di trovare al nord e dove avevano intenzione di vivere pacifici, senza più guerre di religione né sacrifici umani. Prima di partire interpretarono numerosi auspici, decifrarono sogni, controllarono e ricontrollarono il loro carico per essere sicuri di non aver dimenticato nulla. A lungo navigarono guidati dalla costellazione dei “Sette Piccoli Occhi”, ripetendosi le strofe della canzone per rincuorarsi quando pensavano di essere perduti fra le onde, patendo la fame e l’incertezza del viaggio, ma dopo cinquemila miglia di oceano, quasi al limite della disperazione, riuscirono a trovare la loro nuova terra, l’isola vulcanica deserta che battezzarono Havaiki (Hawai’i).
L’isola era di una bellezza mozzafiato, con il suo mare cristallino e un alto monte che si specchiava nelle acque. Fu solo quando il monte si rivelò per quello che era, un vulcano, che questi eroici navigatori ed esploratori si resero conto di aver dimenticato una cosa importantissima a Bora Bora: la pietra rossa, effige della dea più antica, Pele, dea del fuoco, protettrice degli uomini appassionati.
La dea già si stava facendo notare nell’isola deserta, apparendo in forma di donna, lanciando muti sguardi di allarme agli esterrefatti pionieri.
Un giorno il vulcano iniziò ad eruttare lava e i polinesiani, avvertiti per tempo da un ciuffo di “capelli” della dea, proiettato dal cratere, riuscirono a salvarsi per un soffio, rifugiandosi in alto mare sulla canoa, con i loro animali e le loro preziose sementi.
Fu così, che sfidando nuovamente l’oceano, Teroro decide di ripetere il viaggio (al confronto del quale le imprese di Colombo con le caravelle non sono che una gita fuori porta) e tornare a Bora Bora solo per prendere lo spirito di Pele (la pietra) e portarla ad Hawaiki, dove verrà venerata per secoli ed ancora ai giorni nostri.
La passione della rabbia ha una pulsione tale da aiutarci a migliorare la nostra vita. La capacità di Pele di presentarsi ora come una vecchia grinzosa ora come una donna ammaliatrice ci rivela lo sconvolgimento che la rabbia può suscitare nell'animo femminile. Esso evidenzia il disagio e il raccapriccio che proviamo quando siamo in preda all'ira - disagio e raccapriccio che dobbiamo affrontare.
Troppo spesso la nostra società giudica la donna che dà voce alla rabbia. Fra i due sessi esiste un duplice parametro di valutazione quanto mai atroce: se un uomo alza la voce o perde le staffe è «autoritario», mentre una donna è «emotiva» - o peggio. La vicenda di Pele fornisce un antidoto a siffatte credenze Essa ci spiega che la nostra rabbia non è solo degna di essere manifestata, bensì è anche divina. Essa ci spiega che la nostra rabbia ci sta comunicando qualcosa, qualcosa che dobbiamo ascoltare.
Il pescatore e le sette streghe Una storia popolare raccontata a Meta di Sorrento
Napoli è una città misteriosa. Non vi è provincia o borgo dove non si racconti un’antica storia. Fondate o meno, circolano su di essa, sulle province che la riguardano, numerose leggende. Meta di Sorrento, cittadina turistica e rinomata della penisola sorrentina, non manca all’appello. Qui si racconta una leggenda popolare molto conosciuta dagli abitanti del posto. Il pescatore, Ciccio, e la notte delle sette streghe. Il nome del nostro protagonista è Francesco, ma appunto conosciuto da tutti come Ciccio.
Un giovane simpatico, carico di allegria e amante delle feste popolari. Ma Ciccio, era anche un gran lavoratore ed ogni mattina ad aspettarlo c’era la sua barca. A sera, il ragazzo riportava la barca a riva, sulla spiaggia di Alimuri, la ricopriva con un telo e tornava a casa. Una mattina però, la sua barca Ciccio lo ritrovò più distante dal luogo dove la sera prima l’aveva lasciata. Inizialmente non diede peso all’accaduto, ma il fatto non rimase isolato ed allora il pescatore decise di indagare. Voleva scoprire chi era il furbo che utilizzava la sua amata imbarcazione durante la notte.
Una sera si nascose sotto la barca, a fargli compagnia, la notte ed il sole rumore del mare. Fino a quando, Franco, in lontananza non vide sette ombre. Erano proprio le janare, le streghe ed il pescatore impaurito, le osservava da vicino. Le streghe avevano delle lunghe sottane bianche e capelli arruffati. Erano loro a rubare la barca ogni notte. C’era un piccolo particolare: la barca, si spostava solo se su di essa vi era imbarcato un numero dispari di persone. Quella notte qualcosa andò storto. “Ralle, ralle, mastu Giuseppe, invece e sei, simme sette” urlò la janara più anziana e brutta, ordinando alla barca di partire. Ma l’imbarcazione restò ferma. Una delle streghe, avvistò il povero Ciccio, nascosto ed impaurito. Il giovane pescatore, quella notte venne duramente colpito con i remi della barca, tanto da restare storpio.
A trovarlo in spiaggia, sofferente, il giorno dopo, fu un suo caro amico. Gli abitanti del posto inizialmente, ascoltando la storia di Franco, lo derisero, ma il giovane riuscì a dimostrare che il fatto era realmente accaduto. Mostrò loro un ramo di palma trovato sulla barca e macchiato di sangue. Da quel giorno, il pescatore divenne per la gente del posto “Ciccio ‘o stuorto”.
mercoledì 29 aprile 2020
domenica 26 aprile 2020
Il Mondo Nuovo di Aldous Huxley
La Profezia di Celestino
sabato 25 aprile 2020
Gostanza da Libbiano Diocesi di Lucca 1535 - c. post. 1594
Nel XVI secolo in Toscana l’uso del cognome era ancora limitato alle famiglie dell’élite. Per identificare tutti gli altri si aggiungeva al nome proprio il nome del padre o quello del paese d’origine. Ma nel caso di Gostanza, filatrice, levatrice, guaritrice, indovina e presunta strega vissuta nella Toscana del secondo Cinquecento, seguiremo l’uso dell’unica fonte che ci informa delle sue vicende biografiche, il processo verbale dell’inchiesta inquisitoriale per stregoneria alla quale Gostanza fu sottoposta a San Miniato, nel Ducato di Firenze facente parte della diocesi di Lucca, nel novembre del 1594. «Monna Gostanza da Libbiano» in realtà non era nata a Libbiano e non vi risiedeva al momento dell’arresto. La scelta da parte degli inquisitori di questa località per identificare la donna non fu casuale. Libbiano era infatti il paese nel quale Gostanza si era trasferita una volta rimasta vedova, nel quale aveva cominciato la sua attività di levatrice e guaritrice, conquistandosi una certa nomea. Non è neppure casuale che Gostanza abbia iniziato a dedicarsi in modo “professionale” a questa attività dopo la morte del marito, un evento traumatico che esponeva spesso le vedove a una condizione di solitudine e fragilità economica, premesse dell’emarginazione sociale.
Le ragioni che portarono Gostanza di fronte all’Inquisizione devono infatti essere cercate nella situazione contraddittoria in cui veniva a trovarsi una figura come la sua; nella mescolanza di disprezzo, timore e sospetto con cui veniva considerata dai compaesani e dalle autorità. Gostanza, come molte altre vetulae che assistevano le donne al parto e si dedicavano alla medicina popolare, era una donna sola, marginale, ma tuttavia dotata di un certo potere e di un certo ambiguo prestigio che le derivava delle sue vere o presunte capacità taumaturgiche. Una donna alla quale molti erano spinti a rivolgersi nei momenti di maggiore necessità, come i parti o le malattie. D’altro canto, proprio in virtù di questi poteri, naturali o soprannaturali (la distinzione era all’epoca meno ovvia di quanto oggi non apparirebbe) queste dominae herbarum, erano temute e spesso odiate. Chi sa curare in fondo sa anche far ammalare – “guastare”, come si diceva bambini, uomini, bestie e raccolti – e persino uccidere. Un parto finito male, una malattia che la donna non fosse riuscita a guarire, lasciavano uno strascico di risentimenti e il bisogno di trovare un capro espiatorio.
Inoltre, dal tardo medioevo ma ancor più nell’età della Controriforma e dello sforzo della Chiesa cattolica per sradicare quelle credenze popolari, la guaritrice, prima tacitamente tollerata, era diventata una figura sospetta e l’origine dei suoi poteri veniva attribuita a un patto con il demonio. Anche per la gente comune, dunque, i confini fra conoscenza empirica dei rimedi vegetali, magia bianca e magia demoniaca si facevano fluidi, e il giudizio dell’opinione pubblica su queste donne pericolosamente incerto. Nel corso del processo, ad esempio, il ciabattino Mastro Pasquino dichiarò inizialmente di «conoscere detta monna Gostanza per donna da bene» ma che quando era «ito per sua negotii a Bagno, ha inteso dire che l’è una strega et maliarda». Chi aveva invece le idee chiarissime in materia era il giovane inquisitore francescano Mario Porcacchi, che dalla letteratura sulla stregoneria aveva ricavato un’immagine per lui chiara della natura demoniaca e dei delitti che le streghe commettevano per istigazione del loro signore.
E quest’immagine Mario Porcacchi riuscì ad imporla, anche tramite il ricorso alla tortura, alla sua vittima: la povera Gostanza confessò quindi la partecipazione al Sabba, con le inevitabili sregolatezze alimentari e sessuali, fino al congiungimento carnale con il “Gran Diavolo” e ovviamente i malefici contro compaesani ostili. Un racconto, quello di Gostanza che assomiglia a migliaia di altri in Italia e in Europa, ma con alcuni interessanti scostamenti. Innanzitutto il suo è un Sabba urbano, che non si svolge in remote località di campagna ma in una città «più bella di Firenze, dove ogni cosa è messa a oro». Gostanza vive dopotutto in una delle regioni più ricche e urbanizzate d’Europa. Inoltre, pur ammettendo i connubi con il demonio e i malefici, Gostanza ebbe l’accortezza di non confessare mai quella che per gli inquisitori era la colpa più grave, ovvero l’apostasia, il rinnegare esplicitamente la fede.
A salvarla – perché la sua è stata fortunatamente una storia a lieto fine – contribuì forse anche questo elemento, ma soprattutto il crescente scetticismo e la crescente prudenza della Chiesa cattolica nei confronti della stregoneria. Di questo orientamento, nella nostra vicenda si fece interprete l’inquisitore di Firenze, Dionigi di Costacciaro, intervenuto in un secondo tempo nel processo, che imporrà al suo giovane e intransigente collega di rimettere in libertà Gostanza perché «alla fine s’è veduto che cotesta povera vecchia tutto a detto per tormenti e non è vero niente».
(in foto Liliana Castagnola, attrice)
martedì 21 aprile 2020
il papiro di Ebers 1.500 a.C.
Gli egiziani prendevano seriamente a cuore la propria igiene personale e nel papiro di Ebers (1500 a.C.) troviamo traccia di una ricetta per un deodorante; i loro sacerdoti del resto utilizzavano essenze aromatiche per imbalsamare i corpi.
lunedì 20 aprile 2020
Gilgamesh il cercatore
domenica 19 aprile 2020
Genesi 6,1 - 4
Nella Bibbia (Gn 6,1-4) così si legge:
Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sopra la faccia della terra e nacquero loro delle figliole, avvenne che i figli di Dio videro che le figliole degli uomini erano piacevoli e se ne presero per mogli tra tutte quelle che più loro piacquero. Allora il Signore disse: "il mio spirito non durerà per sempre nell'uomo, perché egli non è che carne, e i suoi giorni saranno di centovent'anni". C'erano i giganti sulla terra a quei tempi, e anche dopo, quando i figli di Dio s'accostarono alle figliole dell'uomo e queste partorirono loro dei figli. Sono questi i famosi eroi dell'antichità.
Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sopra la faccia della terra e nacquero loro delle figliole, avvenne che i figli di Dio videro che le figliole degli uomini erano piacevoli e se ne presero per mogli tra tutte quelle che più loro piacquero. Allora il Signore disse: "il mio spirito non durerà per sempre nell'uomo, perché egli non è che carne, e i suoi giorni saranno di centovent'anni". C'erano i giganti sulla terra a quei tempi, e anche dopo, quando i figli di Dio s'accostarono alle figliole dell'uomo e queste partorirono loro dei figli. Sono questi i famosi eroi dell'antichità.
L'Olandese volante
L'Olandese Volante è forse la più famosa nave fantasma che solcherebbe i mari in eterno a causa di una maledizione lanciata sul suo comandante. Ho detto "la più famosa": certo, di presunte navi fantasmi che ogni tanto vengono riportate dai marinai ce ne sono a centinaia e non pensiate che fosse solo una cosa dei secoli addietro (ogni anno, quasi, ci sono segnalazioni di strane imbarcazioni che appaiono e scompaiono misteriosamente); questa però si porta dietro leggende scritte e testimonianze anche di persone molto importanti come re Giorgio V, e ancora oggi c'è chi dice di aver intravisto il suo relitto lungo le coste del Capo di Buona Speranza.
Nella tradizione marinaresca l’incontro con i relitti fantasma è presagio di sciagura e può sembrar strano, ma ci sono luoghi dove le apparizioni sembrano concentrasi. Uno di questi è Capo di Buona Speranza, dove negli ultimi due secoli sono state ritrovate decine di imbarcazioni alla deriva senza equipaggio. Proprio qui nasce la leggenda dell'Olandese Volante.
Come ogni leggenda anche questa trae spunto dalle vicende di persone realmente vissute; questa però fa un po' confusione non tanto sul periodo ma sull'identità del capitano, che per alcune versioni si tratterebbe dello spirito di Barent Fokke e per altre dell'anima dannata di Hendrik Vanderdecker. Vi racconto le due versioni che vanno per la maggiore.
La prima racconta che nella prima metà dal 1600 il capitano olandese Barent Fokke avesse un segreto inconfessabile che rendeva il suo vascello Libera Nos velocissimo: lui e il suo equipaggio erano agli ordini della Compagnia delle Indie Orientali, ma mentre le altre navi impiegavano oltre 6 mesi a raggiungere l'isola di Giava dall'Olanda, la sua nave ci riusciva in soli 90 giorni. Le voci vennero fomentate dagli stessi marinai al suo servizio che mormoravano di un patto con il diavolo stretto da Fokke e che gli permetteva di procedere a vele spiegante anche in mezzo alle peggiori tempeste mai viste e a navigare sopra i gorghi e onde alte anche 40 m senza che la nave subisse alcun danno. Fokke era temerario e sprezzante di ogni pericolo, ma il patto stretto con il maligno esigeva come contropartita la sua anima e fu così che dopo 50 anni di viaggi per mare la Libera Nos affondò per risorgere come nave fantasma al cui timone c'era l'anima dannata di Fokke, costretta a navigare in eterno sui Sette Mari senza mai poter fare porto.
La seconda leggenda vuole che l'Olandese Volante sia in realtà la nave del capitano Hendrik Vanderdecker che nell'anno 1680, sempre sotto la bandiera dell'Olanda, era di ritorno ad Amsterdam dalla colonia di Batavia. Dopo nemmeno un giorno di viaggio scoppiò in mare una terribile tempesta che sollevò onde altissime e minacciò più volte di affondare la nave: nonostante le suppliche dell'equipaggio che chiedeva di tornare indietro e attendere che la tempesta si placasse, Vanderdecker volle affrontare la furia del mare, sicuro che la sua nave avrebbe resistito a qualunque calamità. La tempesta era tremenda, ma il comandante alzò gli occhi al cielo e sfidò Dio affermando che nulla e nessuno gli avrebbe impedito di doppiare il Capo di Buona Speranza per proseguire nel suo viaggio. E fu dopo quelle parole scellerate che un'onda altissima si abbattè sul suo vascello, travolgendolo e affondandolo, ma soprattutto dannando in eterno lui e il suo equipaggio. La punizione che Dio riservò a Vanderdecker fu tremenda: la nave divenne un vascello fantasma e con esso il capitano fu condannato a navigare in eterno fino al giorno del Giudizio Universale. Da quel giorno chiunque incontri l'Olandese Volante si fa il segno della croce perché sa bene che su di esso c'è una ciurma di dannati il cui solo la vista porta sfortuna a chi naviga.
Due storie molto affascinanti, ma a cui si riuscirebbe difficilmente a credere. Eppure gli avvistamenti dell'Olandese Volante gli ultimi due secoli sono stati tantissimi e oggi, nonostante siano notevolmente diminuiti dopo la seconda guerra mondiale, qualcuno ancora afferma di aver visto una nave fantasma apparire dal nulla a sud del Capo di Buona Speranza.
Vi riporto qualche esempio.
Il 29 febbraio 1857 i marinai della nave Joseph Somers solcavano il mare al largo di Tristan da Cunha (nell’Atlantico meridionale) in una giornata particolarmente nebbiosa. Tutti furono testimoni di una nave dallo scafo nero che apparve dal banco di nebbia a prua e a vele spiegate tagliò la scia della loro nave. Nel passare a distanza ravvicinata il capitano e l'equipaggio videro chiaramente il comandante del vascello fantasma al timone, con gli occhi come carboni ardenti e una lunga capigliatura grigia svolazzante al vento. Quel giorno la stiva della Joseph Somers prese fuoco e tra le fiamme e la confusione i marinai udirono distintamente una risata spettrale attraverso la nebbia mentre il vascello spariva alla loro vista.
L’11 luglio del 1881 la nave Bacchante della marina reale inglese era in missione a largo del Sudafrica. Dal giornale di bordo del capitano risulta che durante la notte il famigerato vascello fantasma affiorò dalle acque e incrociò la Bacchante a prua. L’Olandese Volante appariva avvolto da un'inquietante luce rossastra che permettevano di vedere chiaramente gli alberi, i pennoni e le vele spiegate. La vedetta svegliò tutto l'equipaggio affinchè vedessero anche loro ciò che vedeva lui: era una nave molto antica, con lo scavo in più punti sfondato e per questo era impossibile che galleggiasse ancora; al timone non c'era nessuno e nessuno si intravedeva sopra coperta. Era solo un relitto abbandonato ed eroso dal tempo. Incredibilmente la mattina dopo il marinaio di vedetta quella notte venne trovato morto e alcuni giorni dopo anche il comandante morì in seguito ad un malore.
Perfino i tedeschi durante la seconda guerra mondiale affermarono di aver visto l' Olandese Volante: nel 1943 venne avvistato a est di Suez e l’ammiraglio Karl Donitz scrisse sul diario di bordo che dopo quella visione terrificante i suoi uomini dicevano di preferire lo scontro diretto con una nave nemica piuttosto che dover avere un secondo incontro con la nave fantasma.
La storia dell’Olandese Volante è stata ripresa scrittori, drammaturghi e registi cinematografici. Wagner, nella sua opera "Der Fliegende Hollander", concedeva al capitano Van der Decken una scappatoia alla sua dannazione: il capitano può sbarcare una volta ogni 7 anni per fare l’amore con una donna, ma solo se troverà una donna disposta ad amarlo veramente gli sarà concessa la pace.
Ma esiste veramente l'Olandese Volante? Gli scettici affermano che, tralasciando i casi di avvistamenti fasulli per impaurire o per un po' di fama, gli avvistamenti delle navi fantasma siano fenomeni di allucinazioni collettive o miraggi: la teoria più semplice è che la mancanza di sonno dei marinai o l'abuso di alcol abbia in passato indotto ad allucinazioni; ma si pensa anche che in particolari condizioni sulla superficie del mare si verifichi il fenomeno "Fata Morgana", ovvero che, in particolari condizioni climatiche, permette, a causa della una rifrazione della luce del sole attraverso l'aria che mostra un oggetto lontano come mutevole e deformato. L'Olandese Volante in pratica non sarebbe altro che il riflesso di una nave reale.
Ciò però non spiega perché molti degli avvistamenti sono vicini e soprattutto si veda perfino l'equipaggio o il capitano al timone. L' Olandese Volante è ancora uno dei più grandi misteri del mare.
domenica 12 aprile 2020
Ethno Shamanic Trance
Ethno Shamanic Trance
KINTSUGI (金継ぎ)
Il kintsugi letteralmente significa riparare con l’oro ed è un’affascinante pratica giapponese che viene utilizzata per le ceramiche rotte. Una tecnica dove l'imperfezione viene sottolineata e non nascosta...
Se inavvertitamente ci capita di rompere una tazza a cui teniamo, siamo istintivamente dispiaciuti e ci adoperiamo in tutti modi per poter ricomporre l’oggetto, incollando minuziosamente ogni suo frammento, affinché le linee di rottura siano quanto più invisibili.
Ma a volte capita di non riuscirci: se nonostante tutte le attenzioni per ricomporlo, le crepe e le linee di rottura restano comunque evidenti, tristemente realizziamo che il tempo di quell’oggetto è per noi finito.
Il kintsugi ci insegna invece che se siamo in grado di dare valore ad ogni ferita, siamo destinati a far risorgere il nostro oggetto, la cui forma non potrà più esser la stessa, ma sarà nuova, diversa ed indubbiamente più preziosa.
Evidenziare i tratti di rottura di una ceramica con colori che riportano alla ricchezza, alle cose preziose, come con l’oro, l’argento o il bronzo, ci restituisce inaspettatamente un oggetto nuovo, nato dal precedente ma inevitabilmente trasformato ed impreziosito proprio dalla storia della sua vita.
Possiamo immaginare di portare la tecnica del kintsugi proprio a noi stessi. Ogni esperienza dolorosa della vita porta con sé la fine di un ciclo, ma quando questo accade, vuol dire che un nuovo ciclo è in realtà già iniziato, indipendentemente dal nostro volere.
Possiamo immaginare di portare luce alle nostre ferite, smettere di nascondere le nostre insicurezze e cicatrici, ma pensare d’esser destinati a diventare ancora più preziosi proprio grazie a loro.
Le situazioni critiche ci fanno crescere, con il passare del tempo possono renderci ancora più forti, più indipendenti, più consapevoli e soprattutto conferirci nuova vita, facendoci spesso scoprire risorse che non avremmo mai pensato di avere.
M come Moire
Le Mòire, che i romani chiamavano Parche, come le Ore erano figlie di Zeus e di Temi. Aiutavano la madre a mantenere il rispetto per l'ordine della natura e della vita umana. Abitavano nell'Olimpo, in un palazzo di bronzo, sulle cui pareti incidevano i destini degli uomini e il cammino degli astri. Nessuno poteva cancellare ciò che le Mòire avevano scritto, nemmeno Zeus. Da alcuni erano rappresentate come vecchie; ma da la maggior parte, come giovani dall'aspetto severo, vestite con dei lunghi pepli bianchi trapunti di stelle. Le tre dee filavano la vita degli uomini: Cloto, filava lo stame; Lachesi, girava il fuso per torcere il filo, e decideva le sorti della vita che stava filando usando, lo stame bianco misto ai fili d'oro per indicare i giorni felici e lo stame nero misto ai fili d'oro per indicare i giorni di sventura; Atropo, la più vecchia, con in mano le forbici tagliava il filo della vita, determinando il momento irrevocabile della morte.
La fontana delle rane
Raccontano le leggende che al tempo degli Inca, molte giovani e nobili donne, scelte fra le più belle e chiamate ñustas, vivevano nel Palazzo delle Figlie del Sole a Cuzco, città principale dell'Impero. Potevano girare soltanto di giorno perché di notte non era permesso uscire dal loro alloggio. Erano educate per servire la famiglia reale degli Inca e i sacerdoti, dedicandosi ai lavori artigianali. Ricamavano con fili d'oro soffici e delicati tessuti di cotone o lana di vigogna, chiamati cumbi, che servivano da indumenti. Fabbricavano sandali di morbido cuoio e tessevano tappeti e tappezzerie con disegni colorati di animali veri e mitici. Filavano diversi materiali come lana di alpaca e vigogna, fibre vegetali, liane e cotone che tingevano con coloranti vegetali presi da semi e fiori, oppure coloranti animali presi da conchiglie di mare e dalla cocciniglia, piccolo insetto di colore rosso carico che abita sulle piante grasse delle Ande, e anche minerali, provenienti da polvere d'argilla e pietre macinate.
Una giovane ragazza ñusta, il cui nome era Chuqui, che vuole dire "lancia" in lingua quechua, giacché era alta e snella, viveva e lavorava nel Palazzo delle Figlie del Sole. A lei piaceva passeggiare nelle ore di riposo fra le quattro fontane d'acqua dolce e cristallina che c'erano in quel luogo. In queste fontane o "Puquio Sacro" le ragazze si bagnavano, giocavano, lavavano i vestiti e si pettinavano riflettendosi nelle acque.
Le quattro fontane del Puquio Sacro avevano nomi secondo quello che si trovava nei loro dintorni: una era la Fontana del Crescione, per le erbe che vi crescevano attorno, un'altra la Fontana della China per gli alberi magici e medicinali dai quali si estrae il chinino, poi c'era la Fontana delle Onde, perché era molto grande e nei pomeriggi di vento si alzavano piccole onde che si frangevano ai lati, e per ultima, la Fontana delle Rane dove saltellavano i batraci nascondendosi in mezzo alle liane che crescevano dentro.
Una mattina, Chuqui passeggiava intorno alla Fontana delle Rane quando d'improvviso si imbatté in un bel giovane. Siccome non era permesso agli uomini di entrare nel recinto delle Figlie del Sole, la ragazza si sorprese, ma poi, chiacchierando, capì che il giovane si era perso. Lui riferì che si chiamava Acoya e che si era ritrovato fra gli arbusti del luogo e non sapeva come uscirne. Chuqui non poteva portarlo a Palazzo poiché le guardie erano molto severe e lo avrebbero incarcerato subito, tuttavia gli consigliò di nascondersi tra gli alberi, promettendo di portargli del cibo, e così decisero di incontrarsi di nuovo la mattina seguente in quello stesso luogo.
Chuqui tornò a Palazzo quella sera come se niente fosse e Acoya si trasformò nuovamente in ciò che era: una rana. Il batrace, innamorato della fanciulla, decise di aspettare pazientemente l'arrivo della mattina per vederla nuovamente. Trascorsero le settimane e i giovani si incontrarono tutti i giorni presso la Fontana delle Rane, senza che Chuqui indovinasse la vera natura di Acoya. Anche lei si era infatuata del bel giovane e insieme passavano molte ore raccontandosi i loro pensieri, mano nella mano.
Un giorno, una delle guardie del Palazzo si rese conto che Chuqui s'incontrava con un giovanotto in fondo al parco, nel Puquio Sacro, e con altre guardie la inseguì per castigare la sua disubbidienza, dal momento che era proibito alle Figlie del Sole avere qualunque relazione con altre persone all'infuori degli abitanti del Palazzo.
I due giovani, vedendosi scoperti, fuggirono dal luogo quella stessa sera scavalcando il muro di cinta. Gli anziani della località affermano che i vicini videro Chuqui scappare a cavallo della Rana Acoya e che li vedono ancora al calare del sole.
Le leggende riferiscono che quando il dio Sole seppe che una delle sue Figlie aveva disubbidito alla legge, diventò furioso e volle punire i colpevoli. Dall'alto vide la coppia fuggiasca nascosta nella località di Huallabamba, nell'altopiano andino, e li trasformò in due enormi pietre. Una di queste ha la forma di Rana e l'altra la forma di una Lancia. Si distinguono ancora dagli altri massi perché sono bianchi e brillanti, e si scorgono da lontano nelle vicinanze della zona.
La Spilla di Tara
La gioielleria celtica è famosa per la sua immensa varietà di forme. Le fogge più semplici, derivate dal mondo classico, erano la spilla e la fibula, il cui modello era un antico gioiello simile a una spilla di sicurezza, prodotto sin dall’epoca della civiltà micenea: a partire dal V secolo a.C. gli artigiani Celti ne trasformarono le stanghette in fantasiose rappresentazioni di dragoni, uccelli e maschere dai tratti umani. L’esempio più celebre di spilla è la Spilla di Tara ( VIII secolo d C ).
L’intera superficie del gioiello è coperta da finissime incisioni di spirali, intrecci e motivi zoomorfi, mentre dal bordo dell’anello sporgono minuscoli grifi e code di pesce. L’ornamento personale più prestigioso era tuttavia rappresentato dal torque, un pesante collare metallico spesso realizzato con fili intrecciati di rame o d’oro tali monili nacquero nelle regioni orientali e in origine erano indossati esclusivamente dalle donne. I torques si prestavano ad essere variamente decorati e gli artigiani spesso riproducevano alle estremità teste umane o animali, che venivano a trovarsi una di fronte all’altra sulla gola di chi indossava il collare. Oltre ad essere riservati ai ceti sociali più alti, i torques acquisirono anche un significato religioso. Le divinità celtiche venivano sempre raffigurate con questi monili e spesso tali gioielli erano usati come offerte votive.
La donna che divenne un'isola
Raccontano le leggende che il dio Cuniraya passeggiava fra la gente vestito di stracci affinché non lo riconoscessero. La sua tonaca era piena di buchi e portava con sé la sua lancia, che, anche se di canna leggera, era magica. Con quella poteva aprire un canale per l'acqua, dalla montagna fino alla pianura. Per mezzo di una sola parola appiattiva le colline e tagliava le montagne in due per formare le vallate.
Un giorno, Cuniraya s'innamorò perdutamente di una ragazza della costa del Perù, nella valle del fiume Rimac, dove ora sorge la città di Lima. La bellissima ragazza, chiamata Cahuiya, passava le giornate filando il cotone e tessendo i vestiti sotto un lùcumo, albero di frutta tropicale, senza alzare lo sguardo dal suo telaio. Appena la vide, il dio Cuniraya si trasformò in uccello e si mise a cantare sull'albero di lùcumo.
Ogni giorno la desiderava di più e non sapeva come farla innamorare, finché decise di usare la sua magia. Prese un frutto del lùcumo, lo inseminò e lo gettò in grembo alla fanciulla. Cahuiya prese il frutto maturo e lo mangiò, ignara. Nove mesi dopo, ancora vergine, le nacque un figlio. Lo crebbe e lo curò con amore, domandandosi chi mai fosse stato il padre.
Quando il bimbo compì un anno, Cahuiya scelse di riunire tutti gli uomini dei paesi vicini per chiedere loro chi mai fosse il padre di suo figlio. Tutti i giovani dei dintorni si portarono ad Armatambo, luogo che oggi, col nome di Chorrillos, forma parte della grande città di Lima. La ragazza prese il figlio e si avvicinò a ognuno, facendo ogni volta le stesse domande:
- Sei tu il padre di mio figlio? Ti assomiglia? Lo riconosci come tuo figlio?
Anche il dio Cuniraya era presente alla riunione vestito di stracci e si era seduto lontano dal gruppo. Cahuiya lo ignorò e non chiese niente a lui, rivolgendosi agli altri giovani che erano belli e ben vestiti. Siccome nessuno dei presenti riconobbe il bimbo come suo, la fanciulla sussurrò al bambino di andare da suo padre. Il bimbo andò a gattoni e individuò Cuniraya. Felice, si avvicinò a lui arrampicandosi sulle sua ginocchia.
- Povera me! - si lamentò la ragazza. - Come può quest'uomo miserabile e sporco essere il padre del mio bel bambino? - Disperata, prese il bimbo nelle braccia e corse verso il mare.
Cuniraya si trasformò all'istante in un principe elegantissimo indossando una tonaca ricamata con fili d'oro. Tutti i presenti rimasero sorpresi e si scostarono rispettosamente riconoscendolo come il dio Cuniraya. Questi corse dietro alla fanciulla, chiamandola e pregandola di ascoltarlo, ma lei non volle sentire parola e senza voltare la testa e neanche guardarlo, corse via col figlio in braccio.
Cuniraya trovò un Condor e gli chiese:
- Fratello Condor, hai visto Cahuiya con mio figlio?
- L'ho vista, è vicina e fra poco la raggiungerai.
Allora il dio lo benedisse con queste parole:
- Da oggi tutti gli animali della Cordigliera, dai lama alle vigogne, ti serviranno da alimento, e se qualcuno ti ucciderà, morirà anche lui. Per questa ragione, uccidere questo uccello è segno di sfortuna.
Poi, Cuniraya trovò la volpe:
- Sorella Volpe - gli chiese - hai visto Cahuiya con mio figlio?
- Sì - rispose la Volpe - ma è così lontana che non la raggiungerai mai!
Quindi il dio si adirò e la maledisse:
- Camminerai soltanto di notte, odiata da tutti, e quando ti uccideranno, butterano via la tua pelle come uno straccio senza pregio!
Il dio continuò per la sua strada, maledicendo chi gli dava cattive notizie e stabilendo un futuro felice per chi forniva buone notizie della sua amata.
Promise al puma di farlo ballare nelle cerimonie ed è per questo che gli Inca usavano mettersi maschere con la faccia di puma nelle festività per le danze religiose. Lo stesso promise al falco, per cui gli uomini usavano decorarsi nelle feste incaiche con le piume e la testa degli uccelli rapaci. Maledisse i pappagalli, perché dissero che Cahuiya era troppo lontana, e pronosticò loro che sarebbero stati allontanati dagli uomini per il loro verso sgradevole.
Intanto, la ragazza era fuggita fino alla riva del mare e pregava il dio Pachacamac 2 che la salvasse.
Pachacamac, per sottrarre la fanciulla dai violenti desideri del dio Cuniraya, la mutò in un'isola proprio davanti al suo Santuario, insieme al piccolo. Tutt'oggi si vedono i due isolotti, paralleli alla costa, uno grande e uno piccolo.
Cuniraya arrivò sulla riva del mare e vedendo la sua amata convertita in un'isola di pietra, così come il suo bambino, pieno di rabbia e furia andò verso la dimora del dio Pachacamac, suo padre, e trasformò tutti gli altri figli in pesci e li buttò in mare. E' da allora che il mare della costa peruviana è molto ricco e pescoso.
La moglie di Pachacamac, chiamata Urpiwasha, sgomenta per la sorte che correvano i suoi figli nel mare, cambiò allora tutte le sue figlie in colombe e le inviò in cielo per curare dall'alto i loro fratelli divenuti pesci. Per tale ragione, tutta la costa del Perù è ricca di volatili.
sabato 11 aprile 2020
Le origini della Pasqua
Di Laura Fezia
Tanto per cambiare, anche la Pasqua è una delle innumerevoli feste pagane che la Chiesa ha scippato ad altre tradizioni, nonostante su molti siti, articoli o pubblicazioni cattolici potrete leggere che questa è una bufala. Non lo è, anzi, è la realtà storica ed è facilmente dimostrabile. Ma come al solito, i fedeli sono disposti a cambiare la Storia piuttosto che ammettere di credere in quella che è solo una favola inventata da tale Paolo di Tarso.
I fedeli affermano che di Pasqua si parla nei Vangeli: questo è vero… ma si parla della PASQUA EBRAICA, durante la quale si sarebbero svolti i fatti narrati dal Nuovo Testamento.
E la Pasqua ebraica nulla ha a che vedere con ciò che poi la festa sarebbe stata fatta diventare nel cristianesimo.
La Pasqua ebraica – o Pesach – celebra un PASSAGGIO… e infatti il termine significa proprio questo: PASSAGGIO. Il passaggio di Dio che risparmia i figli degli israeliti e – di fronte al rifiuto del faraone di liberare gli ebrei – uccide quelli degli egiziani, consentendo al Popolo Eletto di liberarsi dalla schiavitù e di uscire dall’Egitto per raggiungere la Terra Promessa: ci impiegheranno una quarantina di anni… ma questa è un’altra storia! L’origine della Pasqua ebraica viene raccontata in Esodo 11, 4-5: «In questa notte io passerò attraverso l'Egitto e colpirò a morte ogni primogenito egiziano, sia fra le genti che tra il bestiame». Per facilitargli il compito (non si sa perché se Yahweh era onnipotente e soprattutto onnisciente, ma non importa…) gli israeliti vengono invitati a segnare gli stipiti delle loro porte con sangue d’agnello.
Questo è ciò che celebra la Pasqua ebraica, o almeno UNA PARTE, poiché infatti le celebrazioni durano una settimana, ricordando vari momenti. Nel vangelo di Luca, per esempio, al capitolo 22, versetto 1, si legge: «Si avvicinava la Festa degli Azzimi, detta anche Pasqua» e al versetto 7, poco prima dell’Ultima Cena: «Venne poi il giorno degli Azzimi, nel quale si doveva immolare la Pasqua», ossia sacrificare l’agnello a Yhaweh, che aveva sempre bisogno di essere tenuto buono con curiosi sistemi, quasi sempre crudeli. Gli «azzimi», invece, sono i pani senza lievito, in ricordo di quelli che gli ebrei mangiarono la sera prima dell’esodo dall’Egitto, mentre il loro Dio sterminava allegramente i primogeniti degli egiziani.
La Pasqua cristiana – lo sappiamo – celebra tutt’altro (ossia la passione, morte e risurrezione di Cristo): ha mantenuto di quella ebraica solo il nome con cui nei vangeli è stato tradotto il termine greco Πάσχα (Pasqa) e il fatto che è una festa mobile: cade, infatti, in giorni diversi ogni anno, ma sempre entro un determinato lasso di tempo, tra il 22 marzo e il 25 aprile, ossia la prima domenica dopo il plenilunio nel segno dell’Ariete e non, come si legge quasi ovunque, la prima dopo l’equinozio di primavera. L’equinozio della primavera 2020 – evento astronomico – infatti, è caduto il 20 marzo, mentre la Pasqua è il 12 aprile: ne sono trascorse di domeniche tra queste due date.
Ciò che comunque importa è che la Pasqua è l’unica festività cristiana che segue i cicli lunari, ossia non cade in un giorno fisso.
E questa ciclicità legata alla luna ha origini pagane, si rifà alla festa di ISTHAR, divinità mesopotamica, chiamata con nomi diversi in altre tradizioni: Inanna, Astarte, Eostre, Iside, Afrodite… insomma: LA DEA MADRE.
Nei paesi anglosassoni e teutonici, infatti, questo ricordo è rimasto: la Pasqua - ossia quella che nelle più antiche tradizioni, ma anche nella cultura romana era la festa della RINASCITA DELLA NATURA dopo il freddo dell’inverno – ancora oggi si chiama EASTER o OSTERN. Lo stesso uovo di Pasqua ha radici simili: è simbolo di fertilità e di vita; non dimentichiamo che l’UOVO COSMICO è, in molte tradizioni, l’origine dell’universo.
Quando il cristianesimo iniziò a fare piazza pulita di tutto ciò che era pagano, comprese che non poteva solo distruggere, ma che era opportuno sostituire imprimendo il proprio marchio su qualcosa di già esistente, qualcosa cui il popolo era già abituato.
Fu il concilio di Nicea del 325 a stabilire la data della Pasqua cristiana, che precedentemente veniva festeggiata un po’ a casaccio dalle varie comunità nel vastissimo territorio dell’impero romano. C’erano comunità che la celebravano la domenica dopo quella ebraica, poiché – secondo la tradizione evangelica – Cristo era risorto di domenica, altre, invece, il 14 del mese di Nissan, che nel calendario ebraico della Bibbia corrispondeva a marzo, altre ancora che vietavano di farla cadere in concomitanza con la Pasqua ebraica. Insomma: ce n’era per tutti i gusti.
I padri conciliaristi di Nicea, allora, tagliarono la testa al toro, presero le distanze dall’ebraismo che aveva “disonorato” la Pasqua con la crocefissione del Signore e scelsero di sovrapporre la «fabula Christi» alle feste primaverili pagane che celebravano il risveglio – ossia la RESURREZIONE – DELLA NATURA, che divenne la RESURREZIONE DI CRISTO.
Ciò nonostante, continuò a esserci un po’ di confusione sulla data della Pasqua tra le ecclesie occidentali e quelle orientali, così nel 525, ben tre secoli dopo Nicea, un tale Bonifacio, capo dei notai pontifici del vescovo di Roma Giovanni I – impropriamente chiamato “papa” – diede incarico al monaco Dionigi il Piccolo di fare un po’ di ordine nella questione. Il buon Dionigi, in realtà, fece a sua volta una gran confusione, ma almeno partorì un calendario pasquale che avrebbe dovuto mettere tutti d’accordo. Perdendosi tra complicati calcoli, quest’uomo, di cui nulla o quasi si sa, riuscì, sì, a stabilire date univoche per la celebrazione della Pasqua cristiana e diede l’input per fissare quella del Natale (impropriamente) al 25 dicembre, ma soprattutto introdusse una novità della quale – da quel momento – la Storia avrebbe portato le conseguenze: grazie a lui, infatti, iniziò la numerazione degli anni in “avanti Cristo” e “dopo Cristo”.
La differenza di date della celebrazione pasquale, tuttavia, non finì con Dionigi, ma entrò a fare parte – insieme ad altre questioni liturgiche – delle diatribe intorno alle quali si svolse il braccio di ferro tra la Chiesa cristiana d’Oriente e quella d’Occidente, divise da un’eterna rivalità a proposito della supremazia “spirituale” dell’una o dell’altra (anche se in realtà la faccenda di “spirituale” aveva proprio niente). Nel 1054, anzi, fu UNO degli elementi sui quali il patriarca di Costantinopoli Michele I Cerulario e “papa” Leone IX iniziarono a farsi a vicenda quei dispetti che portarono al Grande Scisma dal quale scaturì la Chiesa cattolica apostolica romana.
C’è ancora un particolare da evidenziare: mentre le feste pagane alle quali la Chiesa sostituì la Pasqua erano celebrazioni della vita, della gioia, della fecondità, dell’amore, del risveglio dei sensi, quella cristiana celebra, con lugubre spiegamento di simboli macabri, la passione e la morte in croce di un uomo, è, insomma, l’apoteosi della sofferenza, che i cristiani sono invitati ad amare se – come fece Cristo – desiderano risorgere… ma non alle gioie terrene, che continuano a essere considerate – nella migliore delle ipotesi – di serie B, bensì alla Gloria dei Cieli, in un aldilà “spirituale” che – ma i credenti lo ignorano – è completamente assente dalla – eventuale – predicazione di quell’uomo crocifisso sul Golgota come semplice “malfattore”.
Nonostante il periodo difficile che stiamo vivendo, auguro a tutti voi una radiosa festa di primavera in onore della Dea Madre!
Tanto per cambiare, anche la Pasqua è una delle innumerevoli feste pagane che la Chiesa ha scippato ad altre tradizioni, nonostante su molti siti, articoli o pubblicazioni cattolici potrete leggere che questa è una bufala. Non lo è, anzi, è la realtà storica ed è facilmente dimostrabile. Ma come al solito, i fedeli sono disposti a cambiare la Storia piuttosto che ammettere di credere in quella che è solo una favola inventata da tale Paolo di Tarso.
I fedeli affermano che di Pasqua si parla nei Vangeli: questo è vero… ma si parla della PASQUA EBRAICA, durante la quale si sarebbero svolti i fatti narrati dal Nuovo Testamento.
E la Pasqua ebraica nulla ha a che vedere con ciò che poi la festa sarebbe stata fatta diventare nel cristianesimo.
La Pasqua ebraica – o Pesach – celebra un PASSAGGIO… e infatti il termine significa proprio questo: PASSAGGIO. Il passaggio di Dio che risparmia i figli degli israeliti e – di fronte al rifiuto del faraone di liberare gli ebrei – uccide quelli degli egiziani, consentendo al Popolo Eletto di liberarsi dalla schiavitù e di uscire dall’Egitto per raggiungere la Terra Promessa: ci impiegheranno una quarantina di anni… ma questa è un’altra storia! L’origine della Pasqua ebraica viene raccontata in Esodo 11, 4-5: «In questa notte io passerò attraverso l'Egitto e colpirò a morte ogni primogenito egiziano, sia fra le genti che tra il bestiame». Per facilitargli il compito (non si sa perché se Yahweh era onnipotente e soprattutto onnisciente, ma non importa…) gli israeliti vengono invitati a segnare gli stipiti delle loro porte con sangue d’agnello.
Questo è ciò che celebra la Pasqua ebraica, o almeno UNA PARTE, poiché infatti le celebrazioni durano una settimana, ricordando vari momenti. Nel vangelo di Luca, per esempio, al capitolo 22, versetto 1, si legge: «Si avvicinava la Festa degli Azzimi, detta anche Pasqua» e al versetto 7, poco prima dell’Ultima Cena: «Venne poi il giorno degli Azzimi, nel quale si doveva immolare la Pasqua», ossia sacrificare l’agnello a Yhaweh, che aveva sempre bisogno di essere tenuto buono con curiosi sistemi, quasi sempre crudeli. Gli «azzimi», invece, sono i pani senza lievito, in ricordo di quelli che gli ebrei mangiarono la sera prima dell’esodo dall’Egitto, mentre il loro Dio sterminava allegramente i primogeniti degli egiziani.
La Pasqua cristiana – lo sappiamo – celebra tutt’altro (ossia la passione, morte e risurrezione di Cristo): ha mantenuto di quella ebraica solo il nome con cui nei vangeli è stato tradotto il termine greco Πάσχα (Pasqa) e il fatto che è una festa mobile: cade, infatti, in giorni diversi ogni anno, ma sempre entro un determinato lasso di tempo, tra il 22 marzo e il 25 aprile, ossia la prima domenica dopo il plenilunio nel segno dell’Ariete e non, come si legge quasi ovunque, la prima dopo l’equinozio di primavera. L’equinozio della primavera 2020 – evento astronomico – infatti, è caduto il 20 marzo, mentre la Pasqua è il 12 aprile: ne sono trascorse di domeniche tra queste due date.
Ciò che comunque importa è che la Pasqua è l’unica festività cristiana che segue i cicli lunari, ossia non cade in un giorno fisso.
E questa ciclicità legata alla luna ha origini pagane, si rifà alla festa di ISTHAR, divinità mesopotamica, chiamata con nomi diversi in altre tradizioni: Inanna, Astarte, Eostre, Iside, Afrodite… insomma: LA DEA MADRE.
Nei paesi anglosassoni e teutonici, infatti, questo ricordo è rimasto: la Pasqua - ossia quella che nelle più antiche tradizioni, ma anche nella cultura romana era la festa della RINASCITA DELLA NATURA dopo il freddo dell’inverno – ancora oggi si chiama EASTER o OSTERN. Lo stesso uovo di Pasqua ha radici simili: è simbolo di fertilità e di vita; non dimentichiamo che l’UOVO COSMICO è, in molte tradizioni, l’origine dell’universo.
Quando il cristianesimo iniziò a fare piazza pulita di tutto ciò che era pagano, comprese che non poteva solo distruggere, ma che era opportuno sostituire imprimendo il proprio marchio su qualcosa di già esistente, qualcosa cui il popolo era già abituato.
Fu il concilio di Nicea del 325 a stabilire la data della Pasqua cristiana, che precedentemente veniva festeggiata un po’ a casaccio dalle varie comunità nel vastissimo territorio dell’impero romano. C’erano comunità che la celebravano la domenica dopo quella ebraica, poiché – secondo la tradizione evangelica – Cristo era risorto di domenica, altre, invece, il 14 del mese di Nissan, che nel calendario ebraico della Bibbia corrispondeva a marzo, altre ancora che vietavano di farla cadere in concomitanza con la Pasqua ebraica. Insomma: ce n’era per tutti i gusti.
I padri conciliaristi di Nicea, allora, tagliarono la testa al toro, presero le distanze dall’ebraismo che aveva “disonorato” la Pasqua con la crocefissione del Signore e scelsero di sovrapporre la «fabula Christi» alle feste primaverili pagane che celebravano il risveglio – ossia la RESURREZIONE – DELLA NATURA, che divenne la RESURREZIONE DI CRISTO.
Ciò nonostante, continuò a esserci un po’ di confusione sulla data della Pasqua tra le ecclesie occidentali e quelle orientali, così nel 525, ben tre secoli dopo Nicea, un tale Bonifacio, capo dei notai pontifici del vescovo di Roma Giovanni I – impropriamente chiamato “papa” – diede incarico al monaco Dionigi il Piccolo di fare un po’ di ordine nella questione. Il buon Dionigi, in realtà, fece a sua volta una gran confusione, ma almeno partorì un calendario pasquale che avrebbe dovuto mettere tutti d’accordo. Perdendosi tra complicati calcoli, quest’uomo, di cui nulla o quasi si sa, riuscì, sì, a stabilire date univoche per la celebrazione della Pasqua cristiana e diede l’input per fissare quella del Natale (impropriamente) al 25 dicembre, ma soprattutto introdusse una novità della quale – da quel momento – la Storia avrebbe portato le conseguenze: grazie a lui, infatti, iniziò la numerazione degli anni in “avanti Cristo” e “dopo Cristo”.
La differenza di date della celebrazione pasquale, tuttavia, non finì con Dionigi, ma entrò a fare parte – insieme ad altre questioni liturgiche – delle diatribe intorno alle quali si svolse il braccio di ferro tra la Chiesa cristiana d’Oriente e quella d’Occidente, divise da un’eterna rivalità a proposito della supremazia “spirituale” dell’una o dell’altra (anche se in realtà la faccenda di “spirituale” aveva proprio niente). Nel 1054, anzi, fu UNO degli elementi sui quali il patriarca di Costantinopoli Michele I Cerulario e “papa” Leone IX iniziarono a farsi a vicenda quei dispetti che portarono al Grande Scisma dal quale scaturì la Chiesa cattolica apostolica romana.
C’è ancora un particolare da evidenziare: mentre le feste pagane alle quali la Chiesa sostituì la Pasqua erano celebrazioni della vita, della gioia, della fecondità, dell’amore, del risveglio dei sensi, quella cristiana celebra, con lugubre spiegamento di simboli macabri, la passione e la morte in croce di un uomo, è, insomma, l’apoteosi della sofferenza, che i cristiani sono invitati ad amare se – come fece Cristo – desiderano risorgere… ma non alle gioie terrene, che continuano a essere considerate – nella migliore delle ipotesi – di serie B, bensì alla Gloria dei Cieli, in un aldilà “spirituale” che – ma i credenti lo ignorano – è completamente assente dalla – eventuale – predicazione di quell’uomo crocifisso sul Golgota come semplice “malfattore”.
Nonostante il periodo difficile che stiamo vivendo, auguro a tutti voi una radiosa festa di primavera in onore della Dea Madre!
Iscriviti a:
Post (Atom)